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Il caso Italia

Nel documento Volume Rapporto 2004 (.pdf 1.5mb) (pagine 27-35)

Quanto ha caratterizzato l’economia europea consente di leggere e inter-pretare meglio le vicende dell’economia italiana dello scorso anno.

Il 2004 è iniziato, come i tre anni precedenti, con previsioni favorevoli. Il PIL del primo trimestre era aumentato su base annua del 2,2% rispetto al pe-riodo precedente. In seguito, specie nell’ultimo trimestre dell’anno, la situa-zione economica è andata nettamente peggiorando di modo che per l’intero anno 2004 l’aumento del tasso di sviluppo è stato del solo 1%. Un tasso per-centuale che sarebbe stato ancora più basso se il Paese non avesse potuto contare sul sensibile incremento del contributo dell’agricoltura. Questo tasso di crescita è superiore a quello dei due anni precedenti, ma inferiore a quello delle altre maggiori economie europee. L’Italia ha così continuato a segnare per il terzo anno consecutivo un tasso di crescita inferiore a quello medio della zona euro. L’anno passato questo scarto ha raggiunto un valore di 0,8 punti percentuali. In altri termini, il ritardo della crescita del nostro Paese ri-spetto a quella dei principali paesi europei è aumentato ulteriormente.

Sono migliorati due importanti indicatori dello stato di salute di una eco-nomia: il tasso di disoccupazione e il tasso di crescita degli investimenti fissi lordi. Il primo è sceso dall’8,4% del 2003 all’8,0%, un livello mai raggiunto da decenni e inferiore di otto decimi di punto percentuale a quello dell’area euro. Il secondo è cresciuto del 2,1% contro una riduzione dell’1,8% regi-strata nel 2003. E’ inoltre migliorato il tasso di inflazione. L’indice generale dei prezzi al consumo non regolamentati è sceso dal 2,8% del 2003 al 2,3%, a un livello cioè vicino a quello medio, il 2,1%, dell’Europa dell’euro.

Ciononostante, nel 2004 la spesa delle famiglie è aumentata a prezzi co-stanti dello 0,9% contro l’1,6% del 2003. Nella zona euro la media dell’aumento realizzato, pari all’1,2%, è stata influenzata dalla caduta dei consumi della Germania (-0,4%), mentre Francia e Spagna hanno registrato incrementi dell’ordine rispettivamente del 2,4 e del 3,5 per cento. L’aumento dei consumi dello scorso anno è la risultante della forte crescita della do-manda di beni durevoli, specie dei beni ad elevato contenuto tecnologico che in genere hanno beneficiato di sensibili riduzioni di prezzo. E’ invece dimi-nuita, per la prima volta dopo anni, la spesa per i prodotti alimentari: l’Istat stima una riduzione dello 0,4%. E, sempre secondo l’Istat, nel mese di gen-naio 2005 le vendite al dettaglio di questi prodotti sono diminuite dell’1,8%

rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. A sua volta AC Nielsen ha ri-levato per il 2004 una diminuzione del fatturato complessivo non solo dei piccoli negozi, ma degli stessi ipermercati e supermercati, e, al contrario, un sensibile miglioramento del volume delle vendite degli hard discount. Segno evidente questo che la distribuzione del reddito sta penalizzando il lavoro dipendente e sta generando nuove forme di povertà. In ogni caso, tenuto conto che gli investimenti immobiliari e la liquidità di una parte delle fami-glie sono aumentati, non si può non concordare con che ritiene che oggi in

Italia la paura di diventare poveri sia in non pochi casi più forte dell’effettivo impoverimento.

La produzione industriale è diminuita lo scorso anno per il quarto anno consecutivo. Il suo indice, corretto per il numero dei giorni lavorativi e de-stagionalizzato, segna per il 2004 una flessione di 0,7 punti percentuali sull’anno precedente. Si è dunque ancor più accresciuto il distacco con i maggiori partner europei. Rispetto alla media dell’anno 2000 la produzione dell’industria italiana presentava alla fine dell’anno passato una riduzione di circa il 5%, mentre quelle di Germania e Francia segnavano una crescita su-periore al 2%. La diminuzione dello scorso anno ha riguardato principal-mente la produzione di quei beni di consumo non durevoli che più sono e-sposti alla concorrenza dei paesi emergenti. La sola significativa eccezione è quella dei prodotti dell’industria alimentare. L’economia italiana sta, in altri termini, pagando la scarsa presenza nelle produzioni ad alto contenuto tec-nologico e i ritardi nell’innovazione.

La nostra bilancia commerciale ha accusato lo scorso anno il primo defi-cit dopo quello del 1992. I conti del commercio con l’estero si sono chiusi con un passivo di 393 milioni di euro, contro l’attivo di 1.618 milioni del 2003, a causa del caro petrolio. Al netto di questa fonte di energia, l’inter-scambio con l’estero ha infatti registrato un miglioramento grazie alla mag-gior crescita delle esportazioni rispetto alle importazioni. Le prime sono mentate del 3,2% contro il 2,5% delle seconde. Si tratta tuttavia di un au-mento che è ancora lontano dalla crescita, pari al 6,0%, raggiunta dall’insieme delle esportazioni della zona euro (+8,6% per la Germania e +4,5% per la Spagna) e dall’incremento del 9,8% del commercio mondiale. I dati del commercio con l’estero consentono inoltre di evidenziare, tra gli al-tri, quattro significativi elementi. Un aumento di oltre il 26% del deficit degli scambi con i paesi dell’Unione Europea, scambi che da soli assorbono più dei tre quinti del nostro intero commercio estero. La diminuzione per il terzo anno consecutivo delle esportazioni di beni di consumo non durevoli (pro-dotti dell’agricoltura, tessile-abbigliamento, pro(pro-dotti di cuoio, mobili).

L’incremento dell’attivo relativo ai beni di investimento, ossia delle produ-zioni più complesse e di maggior valore. Infine, un aumento percentuale del-le esportazioni dei prodotti dell’industria alimentare largamente superiore a quello delle esportazioni.

Il costo del lavoro dipendente, secondo i dati della Banca d’Italia, è au-mentato nel 2004 del 2,9% contro un aumento dello 0,1% in Germania, del 3,0% in Francia e del 4,0% in Spagna. Le varie classifiche riguardanti gli in-vestimenti in ricerca e innovazione sono tutte concordi nel collocare l’Italia in posizione arretrata rispetto alle altre economie industriali. Il costo del

la-voro per unità di prodotto nell’industria ha subito un aumento del 2,7%, mentre è diminuito del 3,7% in Germania, dell’1,2% in Francia, e in Spagna la sua crescita non è andata oltre lo 0,7%. Per usare altre parole, le vicende del 2004 hanno confermato quella tendenza all’erosione della competitività dei prodotti italiani, misurata in base ai costi unitari del lavoro, che è in atto dall’inizio di questo decennio. Sempre con riferimento all’industria, ma ciò vale anche per il settore dei servizi e per l’economia nel suo insieme, lo scorso anno la produttività del lavoro è cresciuta in Italia dello 0,5% laddove Germania, Francia e Spagna hanno registrato aumenti pari, nell’ordine, al 6,0%, al 4,4% e al 3,0%. Una simile perdita di produttività riduce sostan-zialmente il valore aggiunto e consente di beneficiare solo in misura margi-nale della crescita dell’economia mondiale.

Un quadro, in ultima analisi, certo non entusiasmante. Le difficoltà della congiuntura economica accomunano tutti i paesi dell’Europa dell’euro. Ma l’Italia corre i rischi maggiori. E’ forte e diffusa la preoccupazione che il pe-so delle rigidità strutturali che condizionano la sua economia ne indebolisca-no ulteriormente la competitività e ne rallentiindebolisca-no lo sviluppo.

Ora, la logica del declino non è accettabile e ancor meno è giustificabile.

Il nostro Paese ha tutte le potenzialità per ritornare tra i primi. Basti pensare sia all’intensità del processo di trasformazione e di crescita per conquistare maggiore competitività in atto nel mondo delle medie imprese italiane (si veda a questo riguardo la recente inchiesta di Mediobanca e Unioncamere), sia al dinamismo in termini di occupazione e di internazionalizzazione di re-gioni di recente industrializzazione come le Marche.

E’ però anche evidente che oggi il nodo cruciale dell’economia italiana non è tanto una questione di insufficienza della domanda interna, ma piutto-sto e soprattutto è un problema di misure di politica economica mirate a sti-molare la produttività e la competitività dell’offerta (dalla crescita degli in-vestimenti nella ricerca, nell’innovazione, nel sistema educativo, nelle infra-strutture, alla modernizzazione del mercato del lavoro e alla riduzione e semplificazione della fiscalità sulle imprese e sul lavoro) ed è, allo stesso tempo, un problema di effettiva tutela dei più deboli specie sul piano dei servizi.

Problemi questi certamente non facili. Essi esigono l’accettazione dell’idea che il progresso sociale non può essere separato, dallo sviluppo e-conomico. In secondo luogo, essi impongono scelte rigorose nella spesa pubblica. Infine, essi esigono spirito di servizio e coraggio perché la loro ef-fettiva soluzione richiede tempo e sacrifici mentre la ricerca del consenso politico vuole effetti immediati. Data l’enorme incidenza del servizio del de-bito pubblico sul PIL, pari lo scorso anno al 5% sebbene il costo del denaro

sia ai minimi storici, una scarsa attenzione al risanamento del bilancio statale indurrebbe le agenzie internazionali di rating a declassare la “nota” del no-stro Paese con conseguenze nefaste sulla capacità di attrarre capitali e assi-curare in tal modo la ripresa dell’economia.

Concordo con chi ritiene che l’origine del rallentamento dell’economia italiana risalga ad almeno tre decenni fa e che tra queste cause vi sia il bas-sissimo tasso di natalità. Aggiungo, come parere personale, che a questo ral-lentamento ha largamente concorso, oltre alla pressione dei gruppi di inte-resse tesi alla ricerca del proprio esclusivo vantaggio, quella miopia cultura-le, ancor oggi tanto diffusa in ogni ambito della nostra società, che conduce ad ignorare pervicacemente quanto avviene al di fuori dello stretto ambito nazionale. Diventa difficile di conseguenza, in una realtà caratterizzata dalla progressiva globalizzazione dei mercati, sia capire le grandi linee direttrici dello sviluppo dei vari settori dell’economia, sia conoscere, per poterle fron-teggiare in modo efficace, le politiche dei concorrenti.

Per concludere, e a sostegno di questo parere, sia consentito ricordare due esperienze proprie del settore agro-alimentare.

La prima di queste esperienze riguarda l’industria alimentare. Nel giugno 1978 il gruppo di lavoro per questa industria costituito nell’ambito della leg-ge 675/77 per il coordinamento della politica industriale, la ristrutturazione, la riconversione e lo sviluppo del settore consegnava al Ministero dell’In-dustria, del Commercio e dell’Artigianato, dopo tre mesi di lavoro, il proprio rapporto. Le proposte in esso contenute sono riassumibili in quattro punti fondamentali. Primo, sviluppo della ricerca, dell’innovazione tecnologica e dell’innovazione di prodotto. Secondo, incentivazione degli investimenti, specie di quelli immateriali, necessari per modernizzare l’organizzazione delle imprese. Terzo, promozione del processo di internazionalizzazione del-le imprese basato sull’esportazione e sull’investimento diretto all’estero.

Quarto, subordinazione della concessione degli incentivi alla valutazione a posteriore della validità dei progetti e della loro attuazione. In sostanza, il rapporto proponeva, non una politica dei fattori, ma, all’opposto, una politi-ca di settore mirata a far emergere nel ricco vivaio delle piccole e medie im-prese, le imprese consapevoli dei nuovi fondamentali fattori del vantaggio competitivo e dotate della volontà e della capacità di riorganizzarsi e di cre-scere per poterle gestire nel modo più efficace ed efficiente.

Sette mesi dopo il Ministero presentava ufficialmente il testo del suo programma finalizzato per l’industria alimentare. Si tratta dello stesso testo del rapporto predisposto dal gruppo di lavoro con una sostanziale eccezione:

mancano completamente, si tratta di decine di pagine, tutti i riferimenti rela-tivi alla ricerca e all’innovazione di prodotto, alla riorganizzazione delle

im-prese, alla loro internazionalizzazione, all’esigenza di condizionare gli in-centivi alla verifica dei risultati, e mancano del tutto le conclusioni. Questo è accaduto mentre già da anni alcune importanti industrie italiane erano state acquistate da gruppi stranieri e mentre in tutte le economie sviluppate erano in atto da alcuni lustri profondi processi di ristrutturazione dell’industria a-limentare; processi documentati già allora da una ricca bibliografia. Ad e-sempio, già a partire dal 1966 la Francia aveva adottato nei suoi piani quin-quennali per questa industria un insieme di politiche di ristrutturazione e di sviluppo teso a promuovere la presenza dei suoi prodotti sui mercati interna-zionali. Non a caso la Francia è oggi il primo esportatore mondiale di pro-dotti agricoli trasformati.

La seconda esperienza concerne l’agricoltura. Nell’anno 1978 la Com-missione Europea, considerato “che in Italia l’offerta dei prodotti agricoli presenta carenze strutturali di estrema gravità”, adottava per il nostro Paese il regolamento n. 1360 per promuovere la costituzione delle associazioni dei produttori e delle relative unioni. Il regolamento si proponeva di favorire la concentrazione dell’offerta allo scopo di razionalizzare l’organizzazione del mercato e di conferire potere contrattuale agli agricoltori. Gli stessi obiettivi sono alla base delle profonde riforme che tra gli anni sessanta e ottanta i vari paesi dell’Europa Occidentale hanno introdotto nella loro legislazione coo-perativa.

L’occasione offerta dal regolamento 1360/78 è andata purtroppo sprecata nonostante sia stata riproposta da una serie di successivi regolamenti comuni-tari. Le associazioni di produttori che sono state costituite si sono limitate a gestire le pratiche comunitarie per conto dei soci. L’eccellenza dei risultati ot-tenuti dalle poche associazioni che si sono effettivamente impegnate nel ge-stire il mercato è una chiara testimonianza dell’errore commesso con il catti-vo uso delle ingenti risorse che il regolamento aveva messo a disposizione.

Riguardo alla cooperazione il nostro Paese ha sperimentato una prima timida riforma nel gennaio 1992. Ma la novità fondamentale di questa rifor-ma, l’istituzione della figura del socio sovventore è stata, almeno per quanto riguarda le persone fisiche, un insuccesso. La stessa tradizionale idea di mu-tualità, che la riforma del diritto societario del gennaio 2003 ha codificato, è la prova evidente dell’incapacità di capire il contributo determinante che og-gi il capitale dà alla realizzazione della componente sociale degli obiettivi della società cooperativa. A onor del vero, nella seconda metà degli anni set-tanta e per tutti gli anni otset-tanta la cooperazione agricola di mercato ha bene-ficiato di cospicui contributi in denaro pubblico. Ma, a causa dei criteri se-guiti nell’erogazione, queste somme si sono trasformate troppo spesso in fat-tori di inefficienza delle imprese e di distorsione del mercato.

Questa insensibilità ai problemi dell’associazionismo di mercato ha con-tribuito non poco a deteriorare la struttura e la capacità competitiva della no-stra agricoltura. Tranne poche eccezioni, si continua a perdere quote di mer-cato sui principali mercati internazionali e sullo stesso mermer-cato interno. Ac-cade ancora con una certa frequenza che i nostri prodotti ortofrutticoli fre-schi siano esportati con pezzature irregolari, con pesi dichiarati non affidabi-li, collocando i prodotti migliori a vista e gli scarti sul fondo delle cassette, con una gestione degli ordini, dei trasporti e delle consegne che non è con-forme alle aspettative dei clienti. E, nella classifica delle quote di mercato della produzione agro-alimentare dell’Europa a 15 controllata dalle coopera-tive, la cooperazione italiana si colloca al terz’ultimo posto davanti solo alla cooperazione spagnola e a quella greca.

D’altro lato, la riforma della PAC e le inevitabili conclusioni del Doha Round, specie in tema di accesso al mercato e di sussidi all’esportazione, conducono inevitabilmente ad affidare la determinazione del prezzo dei pro-dotti agricoli ad un mercato di dimensione ormai mondiale e con prezzi al-tamente volatili.

Da ciò l’esigenza indilazionabile di dare vita a delle organizzazioni di produttori capaci di realizzare una effettiva concentrazione dell’offerta. Sen-za di esse le varie iniziative prese recentemente, dal miglioramento della qualità al sostegno del made in Italy, rischiano di essere scarsamente effica-ci. Queste organizzazioni sono poi indispensabili per dare la necessaria ri-sposta alla crescente concentrazione della domanda in atto a livello della di-stribuzione al dettaglio e per dare concretezza agli accordi interprofessionali.

Al tempo stesso è sempre più urgente promuovere lo sviluppo di coope-rative agricole di trasformazione e/o commercializzazione dei prodotti agri-coli che siano effettivamente orientate al mercato. E ciò non solo per il pote-re di mercato che esse conferiscono agli agricoltori e per i benefici che ne possono derivare ai consumatori. Non si deve dimenticare che nella produ-zione alimentare il valore aggiunto lo si crea ormai prevalentemente nelle fa-si che sono più vicine al consumatore e che i servizi post-vendita costitui-scono oggi un fattore di vantaggio competitivo sempre più determinante.

Queste cooperative permettono inoltre, a differenza delle società di capitali, che tutto il reddito ch’esse producono resti nel territorio in cui operano. Per la loro origine poi esse non pongono i problemi della delocalizzazione.

L’esperienza del nostro Paese, della cooperazione europea e, per citare un fenomeno recente di estremo interesse, quella delle “cooperative di nuova generazione” statunitensi dimostrano, senza tema di smentita, che una effi-ciente cooperazione agricola di mercato è anche un determinante fattore di tutela e di sviluppo dell’economia delle aree rurali.

2. LE POLITICHE COMUNITARIE E

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