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Il corpo nel suffragio

L’iconografia del suffragio

4. Il corpo nel suffragio

Con lo sciopero della fame le suffragiste impressero una forte dimensione fisica alla propria azione politica. Adottato per la prima volta nel Giugno

1909 da Marion Wallace Dunlop, fu impiegato per protestare contro il rifiuto del governo di riconoscere lo status di prigioniere politiche alle suffragiste arrestate. All’intensificarsi degli interventi militanti e degli scioperi della fame, tuttavia, il governo inglese rispose con l’alimentazione forzata, pratica brutale, pericolosa e violenta, anche sul piano simbolico. Fu, infatti, percepita dalle donne come tortura psicologica e forma di prevaricazione quasi sessuale: l’interno del corpo veniva violentemente aggredito e reso pubblico.

Fu questa la rappresentazione visiva prevalente, sia nella stampa tradizionale, sia in quella suffragista (figg. 35-36).

Fig.35 A. Patriot, Manifesto, 1910 (fonte: Museum of London) Fig.36 The Daily Herald, 24/5/1913 (fonte: British Library)

Il corpo femminile segnava dunque prepotentemente la scena politica, sovvertendo l’idea che lo spazio pubblico fosse il luogo dell’azione di soggetti disincarnati, idea sulla quale si era fondata l’esclusione dalla sfera pubblica delle donne, identificate con il corpo e come tali inconciliabili con

la politica.

Se per screditare il movimento, la stampa antisuffragio aveva giocato sugli stereotipi fisici, il suffragismo mostrò, partendo dal corpo, un modo originale di usare politicamente quegli aspetti dell’esperienza femminile, come la moda, apparentemente lontanissimi dalla politica (fig. 37). Anche gli spazi della modernità, i luoghi nuovi del commercio e i grandi magazzini, furono, infatti, profondamente segnati dai colori della protesta. Quanto il fenomeno dovesse essere rilevante lo si comprende se si considera che, almeno dal 1909, i più importanti grandi magazzini di Londra pubblicarono costantemente annunci pubblicitari sui giornali del movimento, assicurando la possibilità di realizzare abiti e cappelli nei colori delle varie organizzazioni, arredando con quei colori le vetrine. La scelta di puntare sull’associazione moda-protesta politica era dunque il segno dell’influenza che il suffragismo esercitava sull’opinione pubblica, ma esprimeva anche la fiducia che la forza di attrazione del movimento potesse tradursi per il commercio in un’espansione della clientela, in un rimando di vantaggi reciproci.

Per le suffragiste, tuttavia, il guadagno simbolico fu certamente più grande: senza inventare nuovi modi di vestire, anzi utilizzando i modelli tradizionali, le donne impegnate nella lotta per il voto trasformarono l’abbigliamento in gesto politico. Se li guardiamo alla luce della soggettività femminile, il senso e le implicazioni dell’uso politico della moda appaiono molteplici e gli effetti conseguiti sul piano simbolico, imprevedibili: 1) si ribaltava la rappresentazione del vestire come manifestazione frivola e superficiale della vanità (secondo la propaganda antisuffragio) e si legittimava la presenza femminile sulla scena pubblica non già a dispetto della differenza, ma proprio in ragione di questa; 2) si mettevano in discussione i confini fra sfera privata -dove si esplica l’attività dell’acquisto- e sfera pubblica -luogo della politica- così che le azioni della femminilità convenzionale venivano ad assumere la forma di pratiche politiche; 3) ovunque si trovassero -a casa, a fare acquisti, a

manifestare- le donne non erano più solo consumatrici ma, agendo moda e consumo in chiave politica, si comportavano da soggetti politici.

Aderire alla moda costituì anche uno straordinario fattore di identificazione. Fra pratiche del vestire e costruzione di identità il rapporto è evidentemente molto stretto, sia perché l’abito rappresenta un elemento fondamentale nella relazione corpo/mondo, sia perché è anche attraverso l’abbigliamento che gli esseri umani si pensano e rappresentano nella realtà. Tramite l’abito e i colori della militanza, i corpi delle suffragiste comunicavano un messaggio orientato all’azione e alla protesta, rivolgendosi principalmente alle altre donne. E’ stato sottolineato, infatti, che la bellezza, l’eleganza, la femminilità di attiviste come le Punkhurst costituirono una leva significativa per avvicinare altre donne al movimento, puntando su un’immagine accattivante e ribaltando gli stereotipi antisuffragio (Parkins, 2002).

In questo orizzonte, la moda perde la connotazione negativa di fattore di subordinazione ad un’immagine etero imposta, per acquistare quella, positiva, di elemento di forza e di coesione nell’azione comune.

Ancora più indicativo, infine, è il doppio mutamento di significato che si genera nell’interazione fra abbigliamento tradizionale e pratiche politiche militanti. La gran parte delle immagini che presentano le suffragiste impegnate nell’azione, le mostrano abbigliate con gusto e raffinatezza, prototipi dell’eleganza borghese. Eppure si tratta di immagini che hanno del paradossale: donne che fanno comizi, manifestano o danneggiano edifici, lanciano pietre o sono arrestate “in un bel vestito di velluto”, come scriveva Emmeline Pankhurst in una lettera, visualizzano una contraddizione acuta fra come quei corpi si mostrano e le azioni che compiono, realizzando un cortocircuito nelle forme della politica convenzionale. Così, il significato di pratiche già impiegate nelle lotte maschili ne risulta trasformato e quello della protesta ridefinito.

Cambia, però, anche il senso della femminilità convenzionale basata sui modelli dell’abbigliamento borghese: il suo significato non era più univoco

se non era più possibile distinguere la “pericolosa” militante dall’elegante signora borghese. Su questa contraddizione le suffragiste fecero leva per eludere gli arresti e attivare forme estreme di lotta.

L’abbigliamento borghese non fu tuttavia l’unico utilizzato, né le sole donne delle classi medio-alte usarono la moda a questi fini. Vestite da dame o da operaie, in costumi storici o in uniforme, le suffragiste dimostrarono di sapere impiegare l’abbigliamento come strumento sofisticato nella comunicazione politica, aggiungendo alle proprie pratiche una componente teatrale. Non a caso Annie Kenney, giovane operaia e suffragista, nella sua autobiografia lucidamente interpretava tali azioni come performance agite a fini politici.

Fig.37 Christina Broom, We oppose the Government which opposes Women,

1909 (fonte: Museum of London)