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Pratiche di resistenza e ripensare il lavoro in termini di "saper fare"

Le donne nei luoghi di lavoro Racconti di pratiche di resistenza e la sfida del lavoro ben fatto

4. Pratiche di resistenza e ripensare il lavoro in termini di "saper fare"

Nella tensione continua che vivono le donne tra il ruolo che vorrebbero attuare nel sistema lavoro come identità individuali - conoscenze, capacità, idee, rappresentazioni - e ciò che invece è loro richiesto come competenze da esercitare, si mette in atto un meccanismo di decostruzione della loro soggettività che ha come effetto un adattamento

al compito che può condurre, nel lungo periodo, a una sorta di "distacco da se stesse".

Valentina:

Le donne si adattano a lavorare in ambienti maschili e non riescono spesso ad apportare lo specifico femminile, non c'è questo specifico nel lavoro come non c'è nella società, cioè il ruolo delle donne si manifesta per caso, non perché c'è una volontà a farlo ma perché capita.

Come già evidenziato, dalle interviste emergono i cambiamenti avvenuti nel mondo del lavoro a seguito del processo di individualizzazione delle mansioni, dei ruoli e delle contrattazioni. Questa trasformazione dell'organizzazione del lavoro che ha condotto i lavoratori ad operare in termini di quantità o non più di qualità, secondo le intervistate è un processo di cui loro si sono accorte per caso.

Paola:

Il lavoro è cambiato con l'assemblaggio, con il prodotto Cina e India, la qualità non c'è più, a me piaceva di più fare quello che facevo appena ho iniziato a lavorare perché davo il mio apporto a livello di professionalità. (...) Questo lavoro oggi mi dà solo uno stipendio perché è un lavoro più meccanico. Io ho capito che la qualità non c'era più quando vedevo che alcuni pezzi fatti male non tornavano indietro e non veniva chiesto di migliorarli; nessuno ci ha chiesto di abbassare la qualità del prodotto ma ci siamo accorte da sole del cambiamento perché i pezzi non rifiniti non tornano indietro ma passavano al controllo, erano considerati buoni.

Cinzia (operaia, 36 anni, diplomata ragioneria, nubile):

I capi responsabili ci dicono: "tira via!, rispetta i tempi!, spedisci" e così quello che fai, il prodotto che realizzi appare magari bello all'occhio ma di qualità scadente e la tua professionalità non c'è più.

Laura (operaia, 35 anni, licenza terza media, coniugata):

Il lavoro oggi non viene valutato, né in bene né in male; nessuno ti dice più se sei stata brava oppure se hai sbagliato, è come se non esistessi, non ti vedono, non interessa a nessuno come lavori e quindi il lavoro che fai non si vede perché non è riconosciuto.

Questa nuova dinamica organizzativa che si è messa in atto nei luoghi di lavoro produce quel meccanismo che gli studiosi definiscono come "spersonalizzazione" del lavoro. E' saltata completamente la prospettiva promossa in passato dalla psicologia del lavoro e in base alla quale una volta migliorate le condizioni ambientali - tutte le delegate riferiscono che oggi sono buone - occorreva interessarsi delle dinamiche relazionali tra i lavoratori per dare interesse e motivazione al lavoro, quasi fosse un processo educativo. Le lavoratrici raccontano di non sentirsi considerate dai datori di lavoro, di non essere ascoltate perché l'obiettivo è la quantità e allora si lavora di corsa per consegnare il prodotto e avere un guadagno veloce. Questo meccanismo crea nella singola lavoratrice un doppio vuoto: quello a livello organizzativo (un vuoto oggettivo) e quello a livello identitario (un vuoto soggettivo per la scarsa realizzazione).

Tale dinamica che agisce oramai da quindici anni nel mondo del lavoro si è aggravata con l'avvento della crisi economica e le lavoratrici, che si sentono più ricattabili, anche se sono insoddisfatte non cercano più la realizzazione nel lavoro ma si preoccupano del mantenimento del loro posto occupazionale.

Alessia (36 anni, impiegata, diplomata, coniugata, due figli):

La paura di perdere il posto di lavoro mi rende insicura, mi trattengo dal chiedere per esempio il part-time per stare più vicino ai bambini oppure ho preferito non usufruire della maternità (...) Non provo neanche più a pensare che vorrei un lavoro che mi soddisfa di più.

Questa condizione richiama il tema del rapporto intergenerazionale tra le lavoratrici: come stanno quelle di oggi e come stavano quelle che ora non lavorano più. Anche su questa questione la risposta delle delegate è stata unanime. Di seguito ancora le parole di Alessia:

Le lavoratrici ora in pensione hanno fatto un lavoro che rispetto al nostro era più faticoso fisicamente e più rischioso ma meno pesante piscologicamente, sapevano difendere meglio i loro diritti mentre noi spesso per la paura di perdere il lavoro quei diritti non li difendiamo più, anche se li conosciamo e ne capiamo l'importanza.

Da un punto di vista strettamente qualitativo il lavoro delle donne si caratterizza per l'insicurezza della posizione acquisita e per il compromesso continuo tra le competenze possedute e le reali opportunità occupazionali. Per questo motivo, dentro i luoghi di lavoro le donne stanno adottando una strategia difensiva che è definibile in termini di resistenza alla realtà; la formula più efficace è di "resistenza alle resistenze" (Dovigo, 2007). Le intervistate mostrano anche loro questa capacità tutta femminile di adeguarsi al presente, di resistere ai cambiamenti del mercato del lavoro - instabilità, scarse tutele - e che per le donne sono più difficili da sostenere dati gli steps biografici che possono accompagnare la loro vita.

Una delle ipotesi interpretative della realtà del lavoro femminile che questa riflessione propone è di utilizzare il paradigma della resistenza ai fini della comprensione di come le lavoratrici cerchino di riequilibrare la rottura avvenuta tra identità lavorativa e riconoscimento soggettivo e sociale. Si tratta soprattutto di utilizzare il concetto di diritto di resistenza (Dworkin, 1982) per interpretare queste forme di malessere e di disagio vissute dalle lavoratrici che cercano di sopravvivere all'interno di contesti oramai privi di una dimensione sia umana che legale del lavoro. Questa analisi suggerisce che le pratiche di resistenza adottate da queste donne costituiscano il tentativo estremo di rimanere posizionate all'interno del mercato del lavoro, di non uscirne, di rimanervi pur non condividendone le modalità operative.

Le storie delle delegate raccontano la volontà di essere nei luoghi di lavoro nonostante l'immobilismo e le diseguaglianze; di resistere quotidianamente senza perseguire alcuna strategia di cambiamento a lungo termine: le più anziane sono stanche di lottare e le più giovani contrattano individualmente.

Quando si affronta il concetto di resistenza il richiamo a Michel Foucault (1978) diviene naturale, egli pone tale tema al centro della sua analitica del potere. Si riportano di seguito alcune efficaci considerazioni sull'attualità dell'idea foucaultiana di resistenza:

La resistenza può aver luogo - ha luogo - ovunque e in ogni momento, come le relazioni di potere cui si applica: negli uffici e nelle fabbriche, negli ospedali, nelle prigioni, nelle università e scuole, nelle case editrici e negli studi cinematografici, nei corpi e nelle pratiche erotiche, igieniche, ginnastiche, etc. Credo che la sua logica non sia tanto quella del rovesciamento e della presa (di potere) quanto quella, sempre locale e puntuale, del rifiuto di quello che si è o che si è diventati, del mordi e fuggi, del granello di sabbia, del bastone tra le ruote - resistenza del tipo della guerriglia più che della rivoluzione. Da questo punto di vista, la logica e politica dei partiti non sarebbe in grado di costituire un punto di ancoraggio per la resistenza (De Beistegui).

La ricerca empirica condotta e l'analisi effettuata delle interviste ha dunque aperto a molteplici e interessanti chiavi interpretative del reale movimento delle donne nei luoghi di lavoro. Di seguito si propone un ultimo tema emerso da più racconti e che consente di chiudere queste pagine con una proposta-speranza di cambiamento.

Come sopra evidenziato, un problema centrale nella difficoltà di incontro tra identità lavorativa femminile e riconoscimento sociale è che il percorso delle donne nel mondo del lavoro avviene senza un'adeguata espressione della loro professionalità e soggettività; si lavora dove si può e dove c'è spazio, spesso senza che le competenze possedute coincidano necessariamente con quelle richieste. Ma quando le donne lavorano diviene per loro essenziale poter compiere i propri compiti con precisione proprio perché dalla consapevolezza di avere fatto un lavoro corretto discende anche la soddisfazione e il benessere nel luogo di lavoro.

Così descrive questa condizione Elisabetta (operaia, 41 anni, diplomata, nubile):

Nei luoghi di lavoro non c'è più il concetto del lavoro ben fatto. (...) Devi sempre correre per finire il campione e nessuno ti chiede più di guardare alla qualità di quello che fai, l'oggetto ti passa sotto mano ma tu non lo devi vedere.

Anche Rosita (53 anni, impiegata, diplomata, coniugata, due figli) parla in questi termini nonostante svolga un lavoro differente da quello di Elisabetta:

La professionalità nel lavoro non viene più riconosciuta! Innanzitutto perché il lavoro non viene valutato e se non c'è valutazione non c'è neanche il riconoscimento. Non vengono dati degli obiettivi e così quello che facciamo non riceve né elogi né rimproveri; ciò che le donne fanno non viene osservato e per noi è un problema perché non emergono le doti specifiche e le professionalità. (...) Per gli uomini è più semplice, quando entrano nel mondo del lavoro il riconoscimento per loro è naturale: da noi in azienda si dice che le donne sono segretarie mentre gli uomini sono impiegati.

La frase di Elisabetta: "Nei luoghi di lavoro non c'è più il concetto del lavoro ben fatto" suggerisce l'utilità di riprendere e di riproporre un tema che Primo Levi (1978) sollevò in anni difficili nella nostra società, a fine anni Settanta, quando era forte il conflitto generazionale. In opposizione al movimento di protesta giovanile, generando e attirando a sé molte critiche, propose come possibile via d'uscita dallo scontro sociale proprio la strada del recuperare il valore del lavoro ben fatto, frutto di precisione e di impegno. Egli così suggerisce un personaggio straordinario, quello di Faussone, un uomo la cui storia richiama la passione nel lavoro, l'onestà, l'orgoglio; uno stratagemma narrativo che Levi utilizza per segnalare sia le esperienze positive del lavoro che le nuove crisi in atto. Il nodo di questa proposta era di cercare di coniugare il profitto emergente e la professionalità del singolo.

Di fronte ad un mondo del lavoro senza funzione sociale e dove le regole sono saltate, le lavoratrici intervistate suggeriscono, pur sapendo che è impensabile tornare indietro, di intraprendere la sfida della valorizzazione del fare bene e del sapere fare delle donne, provando così anche a recuperare la strada della trasmissione dei saperi tra le diverse generazioni di lavoratrici. Si suggerisce in qualche modo alle politiche organizzative di trovare una strada che renda la professionalità

compatibile con i nuovi scenari socio-economici.

Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l'amore per il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi), costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono (Levi, 1978: 37).

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Genere

e

lavoro

nel

decentramento