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La ricentralizzazione giudiziale

Genere e lavoro nel decentramento ricentralizzazione delle fonti dell’Unione europea in

3. La ricentralizzazione giudiziale

Venendo al secondo fenomeno da prendere in analisi – la ricentralizzazione giudiziale in sede europea – una questione esemplare per l’approccio di genere riguarda il percorso di riconoscimento dei diritti in materia di lavoro a tempo parziale, che ha avuto esiti differenti e al momento non ancora risolti.

In sede giudiziale, infatti, è stata dibattuta la legittimità della disciplina prevista nel settore pubblico in ordine alla trasformazione obbligatoria di un rapporto a tempo parziale in uno a tempo pieno. Il Tribunale di Trento in primo grado e la Corte d’Appello in secondo grado hanno affrontato in modi diversi tale questione: con l’ordinanza del 4 maggio 2011 il giudice del lavoro trentino ha annullato il provvedimento di trasformazione, emesso sulla base dell’art. 16 della l. 183 del 3 novembre 2010 (cd. Collegato lavoro), del rapporto da tempo parziale a tempo pieno nei confronti di una lavoratrice del settore pubblico adottato senza il consenso

della stessa; mentre con successiva ordinanza del 14 giugno 2011, lo stesso Tribunale, in composizione collegiale, ha revocato il provvedimento cautelare del primo giudice.

In particolare, l’ordinanza del primo giudice si fondava sul presunto contrasto tra la disciplina nazionale (c.d. Collegato lavoro) e la direttiva europea sul lavoro a tempo parziale 97/81/CE, in considerazione del fatto che la normativa italiana, attribuendo al datore di lavoro pubblico il potere di trasformare in via unilaterale i rapporti di lavoro da tempo parziale a tempo pieno si poneva in conflitto rispetto alla previsione della direttiva per cui “il rifiuto di un lavoratore di essere trasferito da un lavoro a tempo pieno a un lavoro a tempo parziale, o viceversa, non dovrebbe, in quanto tale, costituire motivo valido per il licenziamento, senza pregiudizio per la possibilità di procedere, conformemente alle leggi, ai contratti collettivi e alle prassi nazionali, a licenziamenti per altre ragioni, come quelle che possono risultare da necessità di funzionamento dello stabilimento considerato”.

Tale contrasto con il diritto dell’UE, tuttavia, è risultato insussistente per il collegio, dal momento che la norma nazionale consente al datore di lavoro pubblico “nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede di sottoporre a nuova valutazione i provvedimenti di concessione della trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale già adottati”.

Nel giugno 2012, la Corte d’Appello trentina, in un caso analogo, ha riformato la pronuncia di primo grado, la quale avevo dato il rilievo al principio di non discriminazione disapplicando la normativa interna e affermando che “la trasformazione del rapporto di lavoro da part time a tempo pieno può avvenire solo con il consenso del lavoratore”. La Corte non ha ritenuto contrastante la legge nazionale rispetto alla direttiva comunitaria, poiché, a detta della Corte, “non impedisce la trasformazione del rapporto, ma tutela il dipendente dalla conseguenza estrema a seguito di tale rifiuto, ove non ricorrano le esigenze tecniche e produttive”.

decisive nel caso di specie: le esigenze riguardanti la persona della lavoratrice, a detta del collegio in secondo grado, vanno valutate e comparate con quelle datoriali. Per la Corte, la situazione familiare, nel caso specifico, “non è connotata da particolari problemi, posto che la stessa ha solo addotto di essere madre di due figli conviventi nati nel 1993 e nel 1996 (dunque in grado di gestirsi in maniera abbastanza autonoma), mentre la semplice prospettazione di avere una madre di 83 anni non è di per sé motivo di accoglimento delle ragioni giustificative dello svolgimento del lavoro part time, sia per l’età da ritenere oggi non eccezionale, sia per l’indimostrata necessità di particolari cure, sia per la possibilità di poter comunque provvedere alle necessità dell’anziana con altri mezzi e/o persone (come insegna l’esperienza quotidiana) sia per la contraddittorietà tra tale argomento e la manifestata disponibilità a prestarsi al lavoro straordinario”.

La questione è poi approdata davanti alla Corte di Giustizia. Infatti, nell’aprile del 2013, il giudice del lavoro di Trento, senza disapplicare la normativa nazionale, con riferimento alla stessa questione in precedenza affrontata in via cautelare nel maggio 2011, ha sollevato domanda di pronuncia pregiudiziale con riferimento alla legittimità, rispetto alla direttiva 97/81/CE, dell’art. 16 del c.d. Collegato lavoro.

Nello specifico, per il giudice, tale norma nazionale “ammettendo la possibilità del datore di lavoro di trasformare un rapporto di lavoro part time in un rapporto di lavoro a tempo pieno, anche contro la volontà del lavoratore, si pone in contrasto con la direttiva 15.12.1997, n. 97/81/CE”.

In particolare, il giudice2 ha messo in luce la presunta portata

discriminatoria della norma nazionale nei confronti dei lavoratori a tempo parziale rispetto ai lavoratori a tempo pieno, dal momento che il divieto di licenziamento sancito dalla clausola della direttiva andrebbe inteso nel senso che la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo parziale a 2 Va sottolineato che nel luglio 2013 con la sentenza n. 224 del 16-19 2013 luglio la Corte costituzionalità ha ritenuto non fondata la questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Forlì con riferimento alla norma del Collegato lavoro.

tempo pieno, o viceversa, può avvenire solo con il consenso sia del datore sia del dipendente; per il giudice “sancire l’illegittimità del licenziamento significa sancire la legittimità del rifiuto alla trasformazione opposto dal lavoratore. Sancire la legittimità del rifiuto alla trasformazione opposto dal lavoratore, significa esigere il consenso del lavoratore stesso”.

La decisione finale dipenderà quindi dalla Corte di Lussemburgo, che peraltro, al momento, non ha ancora emesso la sentenza.

Sempre nell’alveo della proposizione di questioni nazionali in sede giudiziale, si colloca la vicenda dei lavoratori a termine della scuola – settore nel quale è prevalente la presenza di personale femminile – arrivata alla Corte di Giustizia anche tramite la Corte costituzionale nazionale (tema sul quale numerosi Tribunali di merito nel corso degli ultimi anni hanno avuto modo di pronunciarsi con esiti discordanti).

Infatti, con l’ordinanza n. 207 del 18 luglio 2013, la Corte costituzionale, riconoscendosi la natura di “giurisdizione nazionale” ai sensi dell’art. 267, co. 3 TFUE anche nei giudizi in via incidentale, ha operato un rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo.

Il tema tocca, nello specifico, la successione di contratti a tempo determinato del personale docente e ausiliario tecnico amministrativo della scuola, rispetto al quale vi sono stati numerosi ricorsi di fronte ai Tribunali nazionali per lamentare degli abusi derivanti dalla mancata previsione di misure idonee a prevenire gli abusi, come indica la clausola 5 della direttiva europea in materia di contratto a tempo determinato 99/70/CE (De Michele, 2013).

La Consulta ha posto così le seguenti domande alla Corte di Giustizia: in primo luogo, se la clausola antiabuso della direttiva comunitaria deve essere interpretata nel senso che impedisce l’applicazione della normativa nazionale in materia di personale scolastico, con riferimento particolare alle supplenze annuali “in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione di personale di ruolo”. Tale normativa nazionale permette, infatti, di far ricorso a contratti di lavoro a tempo

determinato senza, tuttavia, “indicare tempi certi per l’espletamento dei concorsi e in una condizione che non prevede il diritto al risarcimento del danno”.

Inoltre, spostando l’asse sugli aspetti legati alle ragioni del servizio scolastico, i giudici costituzionali hanno chiesto alla Corte europea se costituiscono ragioni oggettive, come richieste dalla direttiva, le “esigenze di organizzazioni del sistema scolastico italiano […] tali da rendere compatibile con il diritto dell’Unione europea una normativa come quella italiana che per l’assunzione del personale scolastico a tempo determinato non prevede il diritto al risarcimento del danno”.

Invero, tale rinvio in sede costituzionale, più nello specifico, smentisce di fatto l’approdo a cui era arrivata la Corte di Cassazione l’anno precedente. Infatti, con la pronuncia n. 10127 del 20 giugno 2012 gli ermellini avevano ritenuto coerente con il diritto dell’Unione europea la normativa nazionale in materia di supplenze del personale scolastico, giustificando la successione delle assunzioni a tempo determinato in presenza di “circostanze precise e concrete caratterizzanti la particolare attività scolastica”3, tali da essere considerate “norma equivalente” con riguardo

alle misure contro l’utilizzo abusivo di tale tipologia di contratto flessibile, come previsto dalla direttiva comunitaria 1999/70/CE sul lavoro a tempo determinato.

La Corte costituzionale, nell’ordinanza di luglio 2013, spostando il piano sul risarcimento del danno e non sulla conversione dei contratti da tempo determinato in tempo indeterminato, solleva un dubbio che, come ritenuto in dottrina, non è tanto riferito alla esistenza del risarcimento previsto ai sensi dell’art. 36, co. 5 del decreto legislativo n. 165 del 20014, quanto

riguardante la “conformità al diritto europeo del sistema del precariato scolastico in certe sue patologiche applicazioni” (Menghini, 2013: 589).

3 P. 59 della pronuncia della Corte di Cassazione.

4 Risarcimento previsto, a norma dell’articolo citato, per “violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni”.

4. Conclusioni

Risulta così evidente, ancor più dalle controversie sul precariato scolastico da ultimo esaminate, l’intreccio sia delle fonti normative in materia sociale sia delle sedi decisionali chiamate a dirimere le controversie.

Nel suo complesso, questo processo evolutivo, sia in sede di decentramento contrattuale tramite l’utilizzo della contrattazione di “prossimità” sia mediante la ricentralizzazione giudiziale europea attraverso il rinvio alla Corte di Giustizia di questioni di rilievo nazionale, processo monitorabile attraverso piattaforme digitali come l’Osservatorio trentino sui diritti sociali del lavoro5, crea nuove forme di potere regolativo,

spostando su un piano non più nazionale, bensì subnazionale o sovranazionale, la sede delle scelte, che toccano, come nei casi menzionati, gli aspetti di genere.

Riferimenti bibliografici

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De Michele, Vincenzo (2013) L’ordinanza “Napolitano” di rinvio pregiudiziale Ue della Corte costituzionale sui precari della scuola: la rivoluzione copernicana del dialogo diretto tra i Giudici delle leggi nazionali ed europee, in Europeanrights.eu, 10 settembre, http://www.europeanrights.eu/public/commenti/De_Michele.pdf (consultato il 5 agosto 2014).

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http://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2013-06-13/golden-lady- vara-riassetto-175545.shtml?uuid=Abd89k4H (consultato il 5 agosto 2014).