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Memorie autobiografiche in dialogo ed in conflitto

I cinque testi presentati offrono una prospettiva analitica particolarmente interessante se concepiti all’interno di un dialogo in cui gli ex militanti e le ex militanti cercano di produrre delle rappresentazioni di sé che risultino egemoniche all’interno del loro gruppo sociale e che siano “ricevibili” all’esterno. Tali rappresentazioni, costituite come risposta a quelle proposte dai media, sembrano coinvolgere le identità di genere in un modo che suggerisce la pertinenza, per una loro analisi, della mobilitazione di concetti quali “mascolinità egemonica” e “femminilità enfatizzata” per come sono stati formulati da Connell.

La specificità delle scritture maschili, come accennato in precedenza, risiede nella caratterizzazione eminentemente “politica” della propria rappresentazione. Lo spazio riservato al personale, al privato, è completamente sacrificato all’edificazione di rappresentazioni universalizzanti il cui significato trascende l’esperienza individuale per costituirsi in rappresentazione esemplare di militanza. La mascolinità, in questo caso, è anch’essa costruita esclusivamente in una relazione “ideale” con la politica, con la Storia e con la memoria. Il corpo maschile,

di conseguenza, è largamente marginalizzato nelle narrazioni degli ex militanti. Esso compare, una volta in carcere, in funzione politica, o come corpo abusato, violato ed imprigionato in una evocazione che tende a sottolineare esclusivamente la violenza delle istituzioni penitenziarie “Se l'unica cosa che ci resta è il corpo, mangiamocelo noi, poco per volta, così allo Stato non resta niente” (Franceschini, Buffa e Giustolisi, 1988: 212).

Una dinamica simile è individuabile riguardo alle relazioni personali e sentimentali. Concetti come amicizia o amore non trovano spazio in questi testi e quando lo fanno, sono testualmente lontani dal racconto dell’esperienza Br e rimangono ai margini della narrazione, come nella narrazione di Curcio in cui i riferimenti personali, benché più numerosi, rimangono testualmente segregati nei capitoli che precedono la fondazione delle BR o che seguono il suo scioglimento. Questa sembra essere la divergenza fondamentale che differenzia le scritture maschili da quelle femminili. Queste ultime, al contrario, sono rappresentazioni incarnate in corpi gendered in cui privato e politico s’intrecciano nella costruzione di una nuova rappresentazione di sé post lotta armata. Il testo di Braghetti è emblematico in tal senso, l’attenzione al corpo e ai suoi mutamenti tra clandestinità e detenzione emerge infatti come strutturante della narrazione senza però mettere in secondo piano le componenti politiche ed ideologiche di queste due esperienze di vita. Se la dicotomia maschile/politico e femminile/privato sembra venire efficacemente riproposta nelle narrazioni maschili, la strutturazione peculiare di quelle femminili la rifiuta adottando piuttosto una prospettiva, di sicura ispirazione femminista, in cui personale e politico sono inscindibili. Braghetti traduce quest’attitudine identitaria con l’espressione “politica della cura” (Braghetti e Mambro, 1995: 25), con cui l’autrice definisce un’azione politica che s’instaura da un sentimento forte di solidarietà femminile.

Il nodo fondamentale attorno al quale le cinque narrazioni di sé si costruiscono è quello del rapporto con il passato della propria storia

“armata”. Quest’ultimo emerge come aspetto fondamentale di differenza tra la rappresentazioni di sé e della propria storia prodotte dai cinque ex militanti. Due visioni generali e contrastanti emergono dall’analisi incrociata delle narrazioni: da un lato, il gesto d’incorporazione del passato armato come parte legittima della propria identità narrativa, come nel caso di Braghetti, Curcio e Moretti. Dall’altro, una sua messa a distanza che non è negazione dello stesso ma ammissione di colpa, come in Franceschini e Faranda.

Un primo piano di lettura in cui è possibile ritrovare questo conflitto di rappresentazioni è quello della violenza: Franceschini, attraverso la caratterizzazione in due momenti della storia BR, mette a distanza la pratica dell’omicidio politico dalla rappresentazione di sé. Le prime BR, fino al suo arresto e a quello di Curcio, non hanno mai ucciso perché contemplavano l’uso della violenza solo in casi estremi e in modo strettamente subordinato alla politica. Le BR “militariste”, incarnate nella figura di Moretti, ne avrebbero fatto un uso spropositato e spesso immotivato poiché slegato dalla pratica di quest’ultima. A questo proposito, nel racconto della sua esperienza carceraria non è fatta menzione delle rivendicazioni puntuali con le quali i militanti incarcerati, Franceschini compreso, sostenevano l’attività delle BR. Anche l’assassinio di Moro, che Franceschini rivendicò in tribunale, viene presentato come un avventato errore dei compagni all’esterno che il protagonista rivendica, malgrado la sua contrarietà istintiva, per senso di lealtà verso l’organizzazione.

La presa di distanza dalla violenza di Faranda è invece costruita principalmente attorno alla sua partecipazione al sequestro Moro. Malgrado l’ex brigatista dedichi parti consistenti della narrazione alla confessione e denuncia degli atti violenti ai quali ha partecipato, nel racconto il suo pentimento è principalmente testimoniato dal resoconto dell’incontro con la figlia di Moro e dal tentativo di chiedere perdono a lei e alle famiglie dei poliziotti della scorta, cercando anche di indennizzare

queste ultime con i profitti della vendita della sua casa. Al contrario, Curcio, Moretti e, in misura minore, Braghetti sostengono che quella della violenza sia stata per le BR una scelta obbligata: in un’ottica di slancio ideale per un miglioramento della società e di fronte alla repressione dello Stato e del capitale, l’unica strada possibile per perseguire questi ideali era la lotta armata:

Quando scegliemmo la lotta armata era perché ogni altra strada ci era preclusa, ce ne sentimmo costretti. Costretti a cose tremende. Sapevamo cosa voleva dire uccidere, e anche restare uccisi, il primo colpo l’avevano sparato addosso a noi” (Moretti Et al., 1994 : 50).

Per sostenere questa idea, Curcio arriva a paragonare quest’etica della violenza, che comportava il generoso sacrificio dei militanti che vi si sottomettevano, a quella statale contemporanea sostenendo apertamente la superiorità della prima che “accettava il ricorso alla violenza politica come soluzione estrema per conquistare una società utopica dove la violenza sarebbe stata bandita” sulla seconda che, invece, “giustifica il ricorso alla violenza armata contro interi popoli in nome del 'diritto internazionale' che, (…) altro non è che il diritto (…) del più forte” (Curcio e Scialoja, 1993: 96).

A queste due differenti relazioni con il passato armato, corrispondono due modi di gestire la fine della propria militanza e i tempi della propria carcerazione. Faranda e Franceschini si presentano entrambi come dissociati mentre Braghetti, Curcio e Moretti si considerano “non pentiti, non dissociati, non irriducibili”. Attorno a questa scelta si articola la costruzione gendered delle rappresentazioni di sé post-lotta armata. Se tutti e cinque i narratori sembrano criticare apertamente la collaborazione di giustizia (pentitismo), nelle rappresentazioni di Franceschini e Faranda la dissociazione viene presentata come un modo per prendere degnamente la parola sul proprio passato, assumendo le proprie responsabilità e testimoniando il proprio cambiamento. Questa presa della parola si articola inestricabilmente con un’idea di verità rispetto al

passato. Per Franceschini questo implica l’inizio di un percorso autobiografico e editoriale il cui fine è quello “fare luce” sulle ambiguità, sui “misteri” che caratterizzerebbero la storia delle Br dopo il suo arresto e che si incarnerebbero nella figura di Moretti. Questa aspetto, solamente abbozzato in Mara, Renato e io sarà il tema costitutivo de Che cosa sono le BR?, la seconda intervista autobiografica pubblicata da Franceschini nel 2003. Per Faranda, invece, questa responsabilità di “dire il vero” si traduce, nel 1993, nella sua decisione di collaborare con la giustizia per identificare il “quarto uomo” che partecipò alla gestione dell’appartamento in cui Moro è rimasto segregato durante il sequestro. In seguito alle dichiarazioni di Faranda, venne arrestato Germano Maccari, che, uscito dalle BR all’indomani dell’assassinio dello statista democristiano, fino ad allora era rimasto completamente esterno a qualsiasi imputazione penale. All’idea di dissociazione come “parola di verità” si contrappongono direttamente, all’interno di una dinamica di segregazione di genere, le rappresentazioni degli altri tre ex militanti. Moretti, che contrasta esplicitamente Franceschini, sostiene che dissociarsi equivale a rinunciare alla propria identità attraverso il rinnegamento della propria storia e la distruzione di una identità collettiva, quella dei militanti della lotta armata. Le parole dei dissociati seppelliscono la critica legittima ad un sistema capitalista e la storia dell’opposizione che l’ha combattuto sotto un discorso di abiura personale:

Sono molto più severo con la dissociazione perché rinnega una storia, distrugge un’identità collettiva, fugge dalle responsabilità politiche per racimolare benefici giudiziari individuali. (…) Hanno detto che l’altra parte, lo stato, il capitale, avevano ragione. Nessuna sconfitta può giustificare un tale sbracamento. Significa perdere il senso non solo della nostra lotta ma di un intero movimento di un decennio. Contenuti, esperienze, obiettivi, valori, tutto azzerato nell’adorazione dello stato, una perdita di memoria che produce più disastri di quanti ne abbia prodotti la lotta armata” (Moretti et al., 1994: 255).

il suo libro venga pubblicato due anni dopo il gesto di collaborazione di Faranda, ricostruendo in uno dei frammenti autobiografici il sequestro Moro, l’ex brigatista sceglie deliberatamente di caratterizzare anonimamente tutti i partecipanti al sequestro, anche quelli di cui le responsabilità penali sono ormai chiarite: “Siamo io, il sedicente Signor Altobelli e il 'regolare'...” (Braghetti e Mambro, 1995: 60). In un primo momento, quindi, Braghetti, Curcio e Moretti contrappongono il silenzio alla parola della dissociazione. Quest’ultima, infatti, non sarebbe libera, bensì sottomessa a relazioni di potere ben precise: ogni presa della parola non allineata al discorso della dissociazione sarebbe ricondotta alla categoria dell’irriducibilità, con tutto il suo bagaglio di stigmatizzazione giuridica e mediatica, come emerge chiaramente dalle parole di Curcio:

... esisteva - ed esiste ancora - il tentativo di seppellire nel silenzio tutto ciò che non è dissociazione e pentimento. Se fino ad allora non avevo parlato era perché lo spazio di parola concesso a chi non faceva parte delle due categorie canoniche (...) era uno spazio solo apparente: prendere la parola sul nostro passato comportava l'automatico inserimento in una catalogazione in cui non mi volevo riconoscere. (Curcio e Scialoja, 1993: 206)

Anche dal punto di vista semantico, nei testi di Moretti, Curcio e Braghetti la parola dissociata è rappresentata attraverso espressioni che ne riducono la forza e la libertà: essa è sussurro, allusione, insinuazione. L’operazione di cui la dissociazione si fa portatrice ridurrebbe ogni discorso sulla lotta armata a fenomeno individuale e giudiziario impedendo la sua storicizzazione e, conseguentemente, costruendolo come fenomeno “fuori dal tempo” e dallo spazio politico di appartenenza, che sarebbe quello della sinistra di classe: “Ma l'abiura è come un'eco lunga, un discorso che ricomincia sempre dallo stesso punto, un rimbombo senza fine. Essa nasconde, non svela” (Moretti, Rossanda e Mosca, 1994: 257). A questo tipo di scelta, Curcio e Moretti ne oppongono un’altra: attraverso la rinuncia all’individualizzazione della storia e delle soluzioni al fenomeno armato, gli ex brigatisti propongono un’assunzione di responsabilità

collettiva e politica attraverso la quale ristabilire un dialogo tra ex militanti, Stato e società italiana. Questa contrapposizione tra “individualizzazione” e “collettivizzazione” della biografia è apprezzabile anche attraverso un altro aspetto. Nell’opera di Franceschini che, come abbiamo cercato di mostrare, è quella in cui l’autorappresentazione è più marcatamente orientata alla caratterizzazione di una distanza tra esperienza del singolo (Franceschini) e del gruppo, distanza che diverrà poi rottura in seguito alla dissociazione, è presente un apparato di immagini fotografiche che accompagnano il lettore lungo il viaggio identitario dell’autore. Dall’entrata nelle BR all’arresto, dai processi al momento della dissociazione, le immagini permettono di orientare lo sguardo del lettore sul personaggio Franceschini, “estratto” dal gruppo grazie al medium fotografico, fino all’abbraccio finale con i genitori, segno del rientro definitivo di Alberto nei ranghi di una vita normale. Non a caso, nella narrazione di Moretti, improntata all’identificazione totale del singolo nel gruppo e alla sudditanza delle scelte individuali ad un sistema di strutture che le determinano, un tale supporto non trova alcuno spazio. 9. Conclusioni

Se, come abbiamo visto, i cinque testi analizzati possono dividersi attorno alla rappresentazione del rapporto con il proprio passato, questo scontro, questa contrapposizione ha luogo lungo dei confini di genere ben precisi: da un lato, una dinamica di segregazione per la quale le rappresentazioni entrano in conflitto solamente con altre dello stesso genere; dall’altro, una divergenza fondamentale sembra riportare al binomio femminile/privato e maschile/politico. Quest’ultimo sembra essere interamente incorporato nelle narrazioni maschili. In esse, infatti, la componente politica è predominante mentre gli elementi che possono testimoniare dell’esperienza personale dell’ex militante sono periferici o non trovano alcuno spazio nelle immagini di sé prodotte. Questo ci consegna delle rappresentazioni “universalizzanti” di ciò che vuol dire essere un “uomo”,

rappresentazioni divergenti nelle quali la mobilizzazione di valori simili, della responsabilità, della libertà e del sacrificio, è declinata in relazione al posizionamento assunto verso il passato della propria storia e della storia dell’organizzazione di appartenenza. Le rappresentazioni femminili, al contrario, declinano in modo ibrido il binomio di cui sopra, mescolando nelle proprie narrazioni politica ed esperienza personale, militanza e relazioni affettive, ragionamento ideologico e attenzione per il corpo. In questo modo, esse propongono delle rappresentazioni post militanza ibride, in cui personale e politico si intrecciano e si incarnano nell’esperienza viva di queste donne.

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