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Il processo di individualizzazione del lavoro

Le donne nei luoghi di lavoro Racconti di pratiche di resistenza e la sfida del lavoro ben fatto

3. Dalla narrazione all'interpretazione

3.1. Il processo di individualizzazione del lavoro

Uno dei primi elementi emersi durante l'analisi delle interviste è il processo di individualizzazione del lavoro con cui questo ha perso in modo evidente la sua forza sociale4: tale processo ha riguardato sia le mansioni

che la contrattazione. Su quest'aspetto i racconti indicano, senza dubbi o fraintendimenti, la fine di un certo modo di lavorare - in sintesi dalla 4 Nella visione moderna della società il lavoro specializzato, dipendente e astratto (non solo finalizzato a vivere ma a ottenere un reddito) conferisce agli individui, che si sono emancipati dai legami tradizionali prima prevalenti, un nuovo potenziale rappresentato dal collegamento con la società e che si manifesta in prima istanza con la solidarietà tra coloro che condividono la stessa condizione lavorativa.

qualità alla quantità e dalla stabilità all'instabilità - e segnalano il prevalere di strutture organizzative che non presenta più regole chiare e definite. Il lavoro, la macro struttura è cambiata, le sue direttive sono state stravolte e questo evento ha avuto una ricaduta anche sul singolo lavoratore; soprattutto le donne entrano e operano all'interno di segmenti lavorativi dominati dalla de-regolazione e dall'incertezza.

In particolare, le lavoratrici con più esperienza raccontano, con evidente coinvolgimento emotivo, di un legame solidaristico intergenerazionale tra le giovani e le anziane che oramai non c'è più. Per loro infatti era normale affidarsi alle colleghe delegate più anziane per imparare bene il mestiere e per capire come relazionarsi con le colleghe e con la proprietà e tale meccanismo, orientativo e formativo, innescava un forte senso di appartenenza al luogo di lavoro e ciò valeva sia per la fabbrica che per l'ufficio. Questo sentimento solidaristico costituiva una risorsa essenziale per superare le difficoltà quotidiane e soprattutto per rafforzare il riconoscimento identitario: avere chiaro in mente il compito da svolgere, le regole da rispettare, i diritti da difendere. Così, le più giovani apprendevano dalle più anziane - mansioni, modalità relazionali, schemi solidaristici - e pur in un conflitto intergenerazionale sempre presente, nel luogo di lavoro prevaleva l'inclusione.

Le storie raccontate descrivono una sorta di esercizio quotidiano rivolto al rafforzamento delle posizioni professionali per una legittimazione della condizione individuale e sociale di lavoratrice.

Rita (operaia, 50 anni, licenza di terza media, coniugata):

Tempi addietro le battaglie le facevi unite, tutte insieme, ora le donne non vogliono più manifestare né fare sciopero, per loro è un problema, per noi non lo è mai stato neanche quando si scioperava il sabato che per noi donne era un problema con la famiglia. Queste donne probabilmente hanno paura del licenziamento e della crisi, ma in generale il sindacato viene scavalcato e si difendono da sole, parlano direttamente con il responsabile, quindici anni fa questo non si faceva, c'era più rispetto. (...) Queste donne non si preoccupano dei problemi seri tipo, quanta pensione avremo? Riusciremo ad andarci? A questo non pensano, sono troppo

cariche degli impegni familiari e organizzativi. Una volta il lavoro era una dimensione in più, si condividevano i problemi, ci si confidava, era bello sapere che se sbagliavi per esempio un pezzo le altre operaie ti aiutavano a risolvere il problema e a lavorare andavi con piacere.

Paola (operaia, 39 anni, diplomata, coniugata, due figli)

Io sono una giovane lavoratrice, ho iniziato a lavorare nel 1995, e le mie colleghe le vedo lontane dai problemi organizzativi, sembra che tutto il resto non le tocchi, si sentono sicure perché hanno uno stipendio, non si rendono conto dei diritti acquisiti dalle operaie più anziane che li hanno ottenuti anche perché avevano una maggiore professionalità. (...) La conciliazione riesco a farla ma ho grande pentimento perché a volte devo portare a scuola i miei figli anche se sono malati. (...) Tra le giovani operaie non si parla mai dei figli, dei nostri problemi a casa, in realtà non ne sentiamo la necessità, anche per me la famiglia rimane fuori dalla fabbrica.

Nei luoghi di lavoro oggi, soprattutto quelli a prevalenza femminile, manca da un punto di vista strettamente relazionale il sostegno solidaristico che poi, in termini più sociologici, indica l'assenza di un'identità sociale, di una chiara rappresentazione della propria posizione professionale.5 Le donne intervistate riferiscono che, semplicemente, la

solidarietà non c'è più.

Tiziana (commessa, 39 anni, diplomata, coniugata, due figli):

La solidarietà tra le lavoratrici di norma non c'è, scatta solo se si avverte il rischio di perdere il lavoro e quindi è legata alla paura e prima della solidarietà scatta l'individualismo, ognuna pensa per sé e cerca rimedi personali ai propri problemi familiari.

Quando il lavoro perde la sua funzione sociale, il sentimento della solitudine diventa una presenza continua nell'ambiente produttivo e sono le delegate più anziane a raccontare il dramma di questo stato emotivo e psicologico. Rita:

5 Un tema che di emerso durante interviste e che potrebbe trovare uno spazio di riflessione riguarda il ruolo che il sindacato come istituzione riesce oggi a svolgere rispetto alle difficoltà occupazionali delle lavoratrici. Aldilà dell'impegno delle delegate, le loro storie mostrano una struttura sindacale che ha perso in parte la sua rappresentatività

Il lavoro è cambiato in fabbrica più o meno da quindici anni, prima sapevi che cosa facevi e come avevi fatto il prodotto finito, se avevi sbagliato o no, se eri stata brava o no, e questo ti dava soddisfazione. Ora sono cambiati i materiali di lavoro, accessori, pelli e devi fare una parte finale del processo produttivo e i capireparto non sono più competenti come in passato. A volte sono io che devo risolvere i problemi pratici del lavoro e quando lo faccio però i meriti vanno agli altri, nessuno mi dà mai un riconoscimento. (...) Io adesso sto male ad andare in fabbrica, la mattina non riesco più ad andare in fabbrica con la felicità di una volta, mi viene da fare i capricci come i bambini quando non voglio andare a scuola, mi sento proprio male, mi sento sola.

Le parole di Rita suggeriscono in modo chiaro come i luoghi di lavoro si siano trasformati a seguito del processo di de-strutturazione dei rapporti lavorativi. L'indebolimento delle relazioni tra lavoratori dipende non solo dalla mancanza di opportunità di ritrovarsi insieme e di unirsi ma anche dall'emersione di un sentimento di solitudine nel singolo che non cerca più momenti di socializzazione e di interscambio (Gallino, 2001). Qui può essere utile proporre un'altra riflessione. Occorre cioè aggiungere a questa proposta interpretativa della de-strutturazione - che ha in qualche modo preannunciato il quadro critico del lavoro odierno - che il processo di individualizzazione del lavoro ha agito in modo drammatico soprattutto sulla condizione delle donne lavoratrici che si sono trovate a non avere più un'adeguata protezione istituzionale (welfare inefficiente e scarsi servizi) e sono state costrette ad intraprendere la strada delle micro battaglie personali.

Tutte le donne intervistate, ognuna a suo modo e con il proprio capitale culturale ed esperienziale, dimostrano che stanno cercando di ridisegnare il loro ruolo di lavoratrice (e insieme di madre e/o di moglie) spesso in totale solitudine; provano a ri-costruire la loro identità alla luce degli adattamenti continui che devono fare ad un mondo lavorativo con poche regole e quindi maggiormente sottoposto al prevalere degli stereotipi di genere.

delle lavoratrici più giovani che prive di un forte supporto collettivo affrontano in solitudine e in modo diretto e personale le difficoltà nell'ambiente di lavoro, che poi sono quelle della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Molto spesso, vivendo percorsi lavorativi deludenti e sconfortanti, si innesca una strategia di difesa orientata tutta al qui e ora, alla sopravvivenza quotidiana all'interno di strutture produttive che appaiono immutabili ed immodificabili nonostante carenze e limiti.

Un comportamento questo incomprensibile per le delegate più anziane, come spiega bene Rita:

Prima funzionava che c'era da una parte l'operaia e dall'altra il datore di lavoro adesso invece il datore di lavoro alle riunioni ti dice che siamo una grande famiglia e che lui ascolta le richieste dei singoli e così ognuno va da lui a parlare. Ma la grande famiglia non c'è in realtà, sono parole e non fatti perché l'ultima parola è sempre la sua, e non c'è più neanche il gruppo che aiuta.

Come interpretare allora questa nuova dinamica? Si tratta semplicemente di una mancanza di coscienza collettiva o siamo di fronte ad una nuova forma di contrattazione del lavoro?

Seguendo il ragionamento che alcune giovani lavoratrici hanno proposto durante l'intervista narrativa, è possibile ipotizzare che tale comportamento possa essere ricollegato al processo di individualizzazione che ha accompagnato non solo la trasformazione del lavoro ma, più in generale, la ridefinizione dei ruoli sociali, sia al maschile che al femminile. Affianco ad una nuova forma di divisione delle funzioni dei singoli nella società, si configura una nuova organizzazione dei rapporti nelle strutture produttive. Non a caso, nei luoghi di lavoro diviene fattore centrale per la carriera la disponibilità di tempo, il prolungamento dell'orario di lavoro; una norma occulta ma potente che mette in difficoltà le donne che scelgono di non rinunciare alla vita privata e che devono magari fare i conti con l'evento maternità.

ha determinato una crescita sempre più rilevante delle opzioni e delle alternative di ruolo: per la prima volta viene chiesto all'individuo di realizzare la propria soggettività, di esprimere inclinazioni e preferenze. Si rompe in modo definitivo il modello societario pre-moderno in cui le traiettorie biografiche erano determinate dall'appartenenza familiare, di classe, di ceto, di gruppo; percorsi di vita predeterminati con scarsa libertà di azione che tanto hanno pesato sulla storia delle donne. Il sociologo Ulrick Beck (2000) ha parlato a tal proposito di "spinta sociale all'individualizzazione" per indicare questa nuova condizione dell'uomo moderno che può scegliere tra diverse opzioni di identificazione possibili all'interno di differenti aggregati sociali e culturali. Una dimensione esistenziale che però, come lo stesso Beck suggerisce, nasconde al suo interno una forte contraddizione: gli individui sono divenuti più autonomi nelle scelte ma anche meno protetti; più si accentua la soggettività e più difficoltosi diventano i meccanismi di riconoscimento e di appartenenza sociale decisivi per l'attivarsi di processi di identificazione sia individuali che collettivi.

La sociologia contemporanea, così come la disciplina filosofica, avvia un'ampia riflessione sul concetto di soggettività mettendo in gioco elementi e concetti interrelati. In sintesi, il dilemma rimane in piedi ancora oggi e riguarda da un lato la consapevolezza che il singolo non può fare a meno di una qualche determinazione identitaria di tipo sociale (Crespi, 2004) e, dall'altro, l'affermazione di una nuova capacità riflessiva individuale che conduce verso la rivendicazione della propria singolarità e differenza.

Qui mi sembra importante segnalare il contributo che a livello teorico è stato portato all'interno di tale dibattito dal pensiero femminista.

Al fine di contrastare e superare la posizione di subalternità che le donne hanno avuto nelle varie forme societarie, dalla seconda metà del secolo scorso diverse studiose avanzano la critica all'idea, fino ad allora prevalente, di una presupposta naturalità femminile che a loro avviso

aveva contribuito a tenere a lungo la donna dentro dei ruoli socialmente stabiliti e immodificabili. Forti dei grandi cambiamenti socio-economici avvenuti dall'Ottocento in avanti - nuclearizzazione della famiglia, ingresso delle donne nel mercato del lavoro, allentamento del modello patriarcale, aumento dei livelli d'istruzione - molte intellettuali iniziano una decisa opera di affermazione dell'identità di genere come costruzione sociale culturalmente determinata. Una nuova visione della condizione delle donne orientata a ricollocarle socialmente e che nulla aveva a che fare con l'idea originaria di una supposta essenza femminile; per questa nuova prospettiva d'analisi è stato fondamentale il contributo teorico di Simone de Beauvoir (1984). Si sviluppa così un'intensa riflessione femminista, fatta di convincimenti e opinioni spesso anche contrastanti tra di loro (Restaino, Cavarero, 1999), che ha contribuito a ripensare la posizione delle donne nella società e a sollevare il tema della soggettività femminile nei termini di apertura verso nuove opzioni esistenziali, non più predeterminate né legate all'assunzione di ruoli tradizionali, agenti nell'ambito domestico e della cura.

È necessario riconoscere che questo complesso ed articolato movimento femminista non ha realizzato pienamente gli obiettivi prefissati, il ribaltamento della posizione tradizionale delle donne non è riuscito in pieno, anzi, in alcuni settori, come appunto quello del lavoro, ci si accorge spesso che nulla è realmente cambiato (Beccalli, 1990; Gherardi, 1998).

L'analisi più caustica e lucida di questa parziale "sconfitta" del movimento femminista è stata proposta qualche anno fa dalla filosofa francese Elisabeth Badinter (2003) che affronta, con uno sguardo rivolto all'attualità, concetti chiave come quello di universalismo, autosufficienza, separatismo. Le sue parole, a volte eccessivamente taglienti ed impietose verso le tappe evolutive del primo femminismo, raccontano di una società che si è come ripiegata su se stessa, riproponendo alle donne - soprattutto a quelle più deboli economicamente e socialmente - i vecchi e tradizionali modelli esistenziali. Così ritornano le pareti domestiche come naturale

perimetro vitale e l'inattività come scelta obbligata rispetto ad un mercato del lavoro che non accetta pause, ripensamenti, uscite momentanee, figure che agiscono con eguale impegno tra più sfere.

Come sottolinea la Badinter i messaggi che arrivano oggi alle donne sono spesso antitetici e contraddittori: il riconoscimento sociale è più facile se passa attraverso l'esplicitarsi di doti tipicamente femminili come l'ascolto, la docilità, la capacità relazionale e la dedizione ma, nello stesso tempo, esse vengono glorificate e celebrate se dimostrano di essere forti, spregiudicate, disinibite, se compiono atti eroici da superwoman. Questo stato di ambivalenza, di alternanza tra il contenimento di alcune aspirazioni da un lato ed il rafforzamento di altre doti dall'altro, tende come ovvio a generare una condizione di forte instabilità, di confusione identitaria e il richiamo della modernizzazione alla soggettività e al consolidamento dell'autonomia di scelta appare così disatteso; almeno per quanto riguarda l'universo femminile.

Lo storie narrative raccolte danno conto di questo spaesamento, della perdita di riferimenti universali e condivisi, della difficoltà di sperimentare nuovi percorsi identitari individuali all'interno del mondo del lavoro, dove emergono le principali disparità di genere e dove gli ostacoli ad una piena ed autonoma realizzazione diventano invalicabili.

In particolare, le giovani lavoratrici intervistate si posizionano nei luoghi di lavoro provando a negoziare quotidianamente la loro individualità e questa modalità può essere dunque letta come l'esito di quel processo di individualizzazione che ha riguardato la strutturazione degli odierni ruoli sociali. Il rischio però dietro questo meccanismo c'è perché nella messa in atto di una contrattazione solitaria e personale della posizione lavorativa, le donne rischiano di rimanere intrappolate in un rapporto lavoratrice-datore non realmente negoziato ma risolto in modo "paternalistico", grazie ad una concessione discrezionale e momentanea, senza regole chiare e che quindi non parta dall'affermazione dei diritti.