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Il lobbying europeo: strumento di promozione della Democrazia?

LA DISCIPLINA DEL LOBBYING NELL’UNIONE EUROPEA

5. Il lobbying europeo: strumento di promozione della Democrazia?

Ciò che emerge chiaramente, a seguito di questa lettura evolutivo-storica della disciplina lobbistica in ottica comunitaria, è la concezione funzionalistica dello stesso lobbying nel diritto dell’Unione: esso viene considerato, infatti, un vero e proprio “strumento”92. Più precisamente, mentre negli Stati Uniti il lobbismo assume i connotati di una forma di espressione (§ 2), e                                                                                                                

91 R. De Caria, Le mani sulla legge: il lobbying tra free speech e democrazia,

op. cit., pp. 219-221.

92 Id., Le mani sulla legge: il lobbying tra free speech e democrazia, op. cit., p.

solo le restrizioni a tale pratica (come ad esempio, il celebre divieto di clausole contrattuali di c.d. contingent fee lobbying93) sono strettamente funzionali al buon esito del processo democratico, in Europa è il lobbying in quanto tale ad essere visto non tanto come espressione di un diritto individuale, ma come attività utile al miglioramento del processo decisionale nel suo complesso, per ottenere un vantaggio reputazionale presso i cittadini e trovando ormai piena giustificazione nell’articolo 11 TUE. Il coinvolgimento dei gruppi di pressione nei processi comunitari di decision-making opera quindi in ottica di superamento dell’insufficiente “input

legitimacy”94, aprendo le porte a una fase istituzionale del tutto nuova e in un certo senso rivoluzionaria.

                                                                                                               

93 Si tratta di una clausola, inserita in un contratto di lobbying, che consiste

nella parametrazione del compenso di un lobbista in base al beneficio che è stato in grado di procurare al proprio cliente. Tale pratica è stata dichiarata manifestamente illegale nella sentenza della Corte Suprema Trist v. Child (88 U.S. 441, 1974), poiché in grado di mettere a rischio il sistema democratico, manifestando un’inaccettabile “corruption tendency” a far prevalere gli interessi particolari a quelli generali. Sulla legittimità o meno dei divieti generali di contingent fee, Cfr. le posizioni, simmetricamente opposte, di S. L. Fatka, J. M. Levien, Protecting the right to Petition: why a Lobbying

Contingecy fee Prohibition Violates the Constitution, in Harvard Journal of Legislation, 35, 1998, e M. A. Capps, “Gouging the Government”: Why a Federal Contingency Fee Lobbying Prohibition Is Consistent with First Amendment Freedoms, in Vanderbilt Law Review, 58, 2005.

94 Espressione coniata da F. W. Scharpf, Governing in Europe, Oxford, Oxford

University Press, 1999, p. 7, per descrivere il deficit democratico comunitario in termini di percepita autorefenzialità del sistema, intesa come mancanza di strumenti garantiti al cittadino per far valere i propri interessi di fronte al legislatore europeo.

Infatti, una lettura sistematica del crescente interesse verso il lobbismo, assieme agli altri strumenti operativi nati con l’evolversi delle politiche comunitarie, come i Gruppi europei di

cooperazione territoriale — nonostante tali istanze

“macroregionali” siano stato percepite perlopiù negativamente95 dagli Stati nazionali, come “invasive delle proprie

competenze”96 — permette di cogliere, in base ai recenti accordi, un crescente impulso di realizzazione di politiche di sussidiarietà, non solo verticali, ma anche orizzontali. Una progressiva riformulazione del governo delle politiche pubbliche, che nasce dal combinarsi di nuovi attori e organizzazioni97, come riconferma della nascita di una multi-

level governance europea98 sempre più vocata al modello della democrazia associativa99 , con l’attivazione di meccanismi decisionali non più fondati su un’articolazione verticistica del

                                                                                                               

95 Sul punto, Cfr. M. Caciagli, Regioni d’Europa. Devoluzioni, regionalismi, integrazione europea, Bologna, Il Mulino, 2010, pp. 53 e ss.

96 E. Nadalutti, Does the European grouping of territorial cooperation promote multi-level governance within the European Union?, in Journal of Common Market Studies, 51, 2013, pp. 756-771.

97 Diffusamente sul tema, E. D’Albergo, Politiche e regimi di governance transazionale: il ruolo della società civile, Napoli, Liguori, 2007.

98 G. Marks, L. Hooghe, K. Blank, European integration from the 1980’s: State-centric vs. Multi-level governance, in Journal of Common Market Studies, 34, 1996, p. 371.

99 G. P. Ammassari, M. C. Marchetti, Lobbying e rappresentanza di interessi nell’Unione Europea, op. cit., p. 83.

potere, quanto più su un processo di democratizzazione orizzontale, pronta a coinvolgere le istanze provenienti dalla società civile100. Il sistema comunitario, avendo da sempre rifiutato l’idea “che i decisori pubblici non siano in grado di

mantenere una loro indipendenza di giudizio se non rifiutandosi di ascoltare gli interessi delle parti in causa”101, è finalmente pronto per questo nuovo upgrade normativo.

                                                                                                               

100 M. E. Warren, Citizen Participation and Democratic Deficits: Considerations from the Perspective of Democratic Theory, in J. De

Bardeleben, J. Pammett (eds.), Activating the Citizen, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2009, pp. 17-40; viene qui analizzato il rapporto tra partecipazione civica e deficit democratico, anche in ottica europea, e i significativi miglioramenti che lo sviluppo della democrazia partecipativa apporterebbero ad un sistema di policy-making eccessivamente verticistico.

101 A. Cattaneo, P. Zanetto, Fare lobby. Manuale di public affairs, Milano,

CONCLUSIONI

Al termine del presente elaborato, è necessario porre l’attenzione su alcune questioni rilevanti, emerse nel corso dell’intera trattazione. Dall’analisi delle differenti tipologie di regolazione, infatti, si sono distinti differenti approcci al tema delle lobby, frutto dei diversi sistemi di cultura politica sviluppati nella dimensione europea, nazionale e di alcuni contesti regionali. Nessuno di questi modelli può, però, ritenersi affermato in maniera paradigmatica, trovando come riferimento, ma allo stesso tempo limite, l’orizzonte del proprio acquis culturale.

Nello specifico, il modello italiano di regolazione, così come analizzato, ha fino ad oggi incontrato numerose difficoltà strutturali a causa della perdurante diffidenza nei confronti del lobbismo. Un atteggiamento che ha condotto non solo all’assenza di una compiuta riflessione giuridica sull’argomento, ma anche alla peculiare lacunosità e disorganicità di tutto l’impianto normativo volto a mediare il difficile rapporto tra il mondo degli interessi organizzati e le sedi decisionali. Queste perplessità si sono pertanto tradotte in un sistema ancora incompiuto, ma comunque capace di una sporadica produzione di norme di assoluta rilevanza: in questo

senso, possono essere interpretate le norme in materia di partecipazione al procedimento amministrativo — in particolare l’articolo 9 della l. n. 241/90 — e gli articoli 144 e 48 dei Regolamenti di (rispettivamente) Camera e Senato, laddove sono stati, almeno formalmente, ammessi momenti istituzionalizzati di ascolto dei rappresentanti di interessi durante le procedure istruttorie di policy-making. Sempre in questa direzione, possono essere interpretate le disposizioni in materia di AIR e VIR così come formulate dalla l. n. 256/05. Il fulcro della problematica, pertanto, si spiega in una duplice accezione, di natura assiologica e poi pratica: in mancanza di una disciplina generale, la fisiologica percezione negativa del lobbismo ha, di fatto, ammorbato ogni utilizzo di questi strumenti, neutralizzandone l’efficacia sul piano sostanziale. Un timore del tutto ingiustificato, che oltre a manifestare una certa ritrosia, rischia di entrare in cortocircuito con gli obblighi di trasparenza imposti non solo dallo Stato Costituzionale di diritto, ma anche dall’attuale normativa anticorruzione che, dal 2013, presidia il corretto svolgimento dell’azione pubblica e dei comportamenti dei decisori.

Fortunatamente, l’introduzione dei registri per i rappresentanti d’interessi, istituiti presso il MISE nel 2016 e la Camera nel 2017,

ha invertito questa tendenza, apparsa per lungo tempo irresistibile. Tali strumenti, oltre a poter essere considerati a tutti gli effetti i primi tentativi di disciplina diretta del fenomeno in Italia, segnano infatti la definitiva professionalizzazione del lobbista nel nostro ordinamento, ponendo le giuste basi per garantire una solida partecipazione influente degli interessi particolari all’interno dei processi decisionali, secondo modalità e forme trasparenti e intellegibili agli stakeholders. Un risultato di assoluta rilevanza, figlio di un processo evolutivo del quale anche i legislatori regionali si sono rivelati sorprendenti attori protagonisti. La manifestazione di una cultura politica volta alla trasparenza e alla partecipazione di questi enti sub-statali ha, di fatto, conseguito la produzione di sistemi di regolazione del lobbismo, piuttosto minimali ma strutturati, in funzione supplente rispetto a quella del policy-maker nazionale. Un impulso “dal basso” — partendo dalla L.R. Toscana 5/2002 fino alle recenti esperienze di Calabria e Lombardia — coerente con la natura stessa dell’attività di lobbying, che, pur superando in parte l’opacità dei meccanismi di deliberazione delle decisioni pubbliche, necessita ancora di ampi correttivi, soprattutto in termini di onere di rendicontazione e contabilità.

La questione, invece, ha assunto ulteriore connotazione con riguardo ai meccanismi di consultazione previsti dalle authorities. L’ampio strumentario disposto dalle AI a favore di rappresentanti e cittadini, in termini non solo di procedure notice and comment, ma anche di consultazioni pubbliche e di tavoli tecnici, ha così permesso negli ultimi anni un vero e proprio flusso informativo bidirezionale tra settore pubblico e privato, configurando un sistema di governance capace di soddisfare la cura dell’interesse pubblico con la sinergica partecipazione dei soggetti interessati alle materie di competenza delle singole Autorità.

Per quanto concerne, invece, l’esperienza europea, il dato che caratterizza la complessa architettura regolatoria disposta da Commissione e Parlamento è quindi individuabile nel profondo deficit democratico che da sempre connota l’Unione. Una questione questa — da sempre oggetto di dibattito tra i giuristi continentali — che ha spinto il legislatore europeo ad affrontare la problematica del lobbying in maniera pioneristica, veicolando quello che può apparire come un elemento nocivo per la democraticità del sistema — ossia l’esistenza di influenze esterne e lobby in grado di condizionare il processo di policy-making europeo — in uno strumento in grado di compensare la mancanza di una input

legitimacy. E così, le istituzioni europee hanno disposto strumenti di regolazione di tipo soft, in grado non solo di recepire le istanze della società civile nel suo complesso, ma anche di incontrare il consenso dei regolati: è in questo senso che vanno letti i precedentemente analizzati accordi interistituzionali del 2011 e del 2014, che pur prevedendo una mera facoltatività del registro unico istituito da Commissione e Parlamento, hanno altresì ridefinito i canoni stessi del lobbying europeo, introducendo meccanismi premiali per coloro che desiderano aderirvi. Tutto questo ha indiscutibilmente significato un avanzamento della disciplina, la quale seppur non ancora in grado di “competere” con gli strumenti elaborati dal sistema statunitense in quasi un secolo di riflessione giurisprudenziale e dottrinale, ha recentemente posto le giuste premesse per un significativo upgrade. L’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e del rivoluzionario articolo 11 TUE, nonostante l’iniziale scetticismo da parte della dottrina, ha infatti permesso di superare le riserve poste a lungo tempo dai servizi legali del Parlamento europeo, in termini di base giuridica e proporzionalità, rispetto a quei due ordini di strumenti — il nuovo codice di condotta per i MEP, già entrato in vigore e la proposta di un registro unico obbligatorio per Parlamento, Commissione e

Consiglio — in grado di fornire quel carattere di vincolatività necessario per il rispetto dei maggiori obblighi di disclousure, imposti con l’Iniziativa Europea sulla Trasparenza del 2005. Tali meccanismi, qualora adeguatamente integrati e completati nella loro disciplina, ammetteranno una pacifica ridefinizione della politica europea, in termini di partecipazione e sviluppo orizzontale. Una rivoluzione che, salvo clamorosi ripensamenti, appare sempre più prossima al suo manifestarsi.

Il senso di queste esperienze, così riassunte, rende complessa l’individuazione di una one best way per la regolazione dell’attività lobbistica. I paradigmi emergenti da questo schema così articolato permettono, però, di mettere in luce un aspetto incontrovertibile: dopo anni d’inerzia e tentativi di oscurantismo, il tema dell’incisività degli interessi privati nel processo di policy-making sta finalmente ottenendo le doverose attenzioni da parte dell’ordinamento italiano ed europeo. Una conquista non solo per chi opera professionalmente nel settore delle public affairs, ma anche per chi, credendo nelle fondamenta stesse della Democrazia, vede nella partecipazione influente della società civile al processo decisionale un’occasione unica per il miglioramento della qualità

della legislazione. Dopotutto, come affermava Toqueville, “quando il cittadino è passivo, la democrazia si ammala”.

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