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Il paesaggio sardo nella cartografia storica

Representations of historic rural landscape: retabli, cabrei and cadastre in Sardinia

R OBERTO I BBA Università di Cagliar

2. Il paesaggio sardo nella cartografia storica

Le prima cartografia storica della Sardegna risale al XIV secolo, quando per necessità nautiche vengono realizzati i primi portolani. Lo spazio riservato a elementi paesaggistici è tuttavia molto limitato: le informazioni grafiche si concentrano soprattutto sulla definizione costiera. Anche la cartografia del XV e del XVI secolo è molto avara nella definizione del paesaggio: le carte sono prodotte soprattutto per esigenze militari e sottolineano elementi idrografici, orografici, stradali, oltre a città, forti e castelli. Le rappresentazioni cartografiche della Sardegna della prima età moderna sono legate all’umanista cagliaritano Sigismondo Arquer, che realizza la carta in allegato alla sua Historia della Sardegna scritta per la

Rappresentazioni del paesaggio agrario storico: retabli, cabrei e catasto in Sardegna

ROBERTO IBBA

Fig. 2: Particolare del Retablo di Tuili.

Fig. 3: Particolare della stampa di Cominotti (1828) che raffigura le campagne di Codrongianus (SS).

Cappellino, inviato nell’Isola da Carlo V e Filippo II con il compito di censire e riorganizzare i forti militari sardi.

La Sardegna di Asquer sarà poco considerata, perché sull’autore cala il silenzio “religioso” dopo la sua condanna a morte per eresia: la sua opera e una maldestra riproduzione della sua carta sono plagiate dall’inquisitore bolognese Leandro Alberti. La carta del Cappellino ha indirettamente maggiore fortuna: nonostante le imprecisioni viene presa a modello prima dal frate domenicano Egnazio Danti che, aggiungendo alcuni elementi, la ripropone nella galleria della carte geografiche del Vaticano, poi diventa la base per la cartografia prodotta da Giovanni Antonio Magini. La volontà di diffondere immagini imprecise è frutto di un’attenta politica influenzata dalla paura del “turco” che mira a nascondere i veri dettagli militari (forti, baie, approdi) e a rappresentare un’isola più densamente popolata pronta a difendersi militarmente da un possibile attacco ottomano [Zedda Macciò 2008, 656-660].

È lo strano destino della cartografia sarda, sottolineato da Isabella Zedda Macciò: rendere segreto ciò che nasce per essere pubblico e rendere pubblico ciò che nasce segreto [id. 639].

Occorre attendere diversi decenni per avere altre rappresentazioni del paesaggio rurale sardo, che tuttavia non sono esaustive per comprendere il complesso modo di “possedere” la terra in Sardegna. Il sistema fondiario sardo in età moderna è basato sul

fundamentu del villaggio: lo spazio vitale che la comunità ha in dotazione per

l’insediamento e la produzione. Questo sistema inizia ad affermarsi nel XIV secolo, durante la guerra per il controllo dell’Isola tra il Giudicato d’Arborea e i catalano-aragonesi. Il Codice Rurale del giudice arborense Mariano IV e la Carta de Logu (fine XIV secolo), emanata dalla figlia Eleonora, giudicessa reggente, codificano gli usi fondiari sardi impostando il controllo delle campagne sulle comunità di villaggio.

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Fig. 4: Mappa elaborata da Sigismondo Arquer (metà XVI secolo), Collezione Cartografica RAS.

L’atavico scontro tra la pastorizia errante e l’agricoltura, che la legislazione giudicale prima e quella del Regno di Sardegna poi cercano di risolvere, permane per tutta l’età moderna. L’alternanza dei campi tra viddazzone (parte coltivata) e paberile è la soluzione comunitaria all’uso della terra per evitare la supremazia della pastorizia errante sull’agricoltura. Altri spazi ritagliati nel fundamentu sono i prati destinati al sostentamento degli animali da lavoro, gli orti e le vigne (su cui è riconosciuto il diritto di possesso esclusivo). A scardinare l’idea, quasi mitologica, di un possesso originario comunitario ed egualitario, ci sono i chiari richiami documentali (atti notarli e testamenti) che già alla fine del XVI secolo rivelano la forte presa fondiaria di alcuni individui, o gruppi parentali, che possono vantare un possesso stabile della terra (individualismo possessivo), seppure sottoposto alle regole comunitarie [Ortu, 1996].

L’affermazione di una élite rurale, aristocratica e borghese, nelle campagne sarde ha un suo principio nell’età spagnola, e una sua “consacrazione” dopo il 1720, quando il Regno di Sardegna passa in mani sabaude [Sotgiu, 1984]. I Savoia, nel loro tentativo di rendere maggiormente produttiva un’isola che non hanno mai profondamente amato, attivano, soprattutto dalla seconda metà del Settecento, una serie di azioni riformatrici che interessano il credito agrario (monti frumentari), le università di Cagliari e di Sassari, il governo locale (consigli comunitativi).

L’impianto ideologico delle riforme è dato dal Rifiorimento della Sardegna, proposto nel

miglioramento di sua agricoltura (1776), del padre gesuita piemontese Francesco Gemelli,

che nella trattazione evidenzia tutti i limiti da abbattere per far “rifiorire” l’isola: il superamento del feudalesimo, l’abolizione degli usi comunitari della terra, la scarsità dei

Rappresentazioni del paesaggio agrario storico: retabli, cabrei e catasto in Sardegna

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mezzi e degli animali da lavoro, l’irrigazione pressoché inesistente e la difficoltà nel trasporto dei prodotti. L’impostazione fisiocratica del Gemelli è sostenuta anche da funzionari sardi come Giuseppe Cossu, protagonista della riforma dei monti frumentari, che scrive anche opere per il miglioramento dell’agricoltura sarda. In quegli stessi anni è pubblicata un’opera dal sapore opposto: Agricoltura di Sardegna (1780), dell’aristocratico sassarese Andrea Manca dell’Arca. Dal trattato emerge una chiara idea di governo del territorio e dell’azienda: Manca ritiene che il sistema della viddazzone sia l’unico praticabile in Sardegna, con la possibilità di chiusure solo per colture orticole o viticole. Questa posizione si pone in antitesi alle idee piemontesi di razionalizzazione e di riforma dell’agricoltura sarda. Un altro tratto evidente è la ricerca spasmodica dell’ordine: tutto può essere costruito e tutto deve avere un suo posto razionale. Si tratta di una razionalità aristocratica, intesa come governo sulla natura da parte dell’uomo.

L’effetto del riformismo sabaudo si manifesta concretamente nei primi decenni del XIX secolo: la nascita della Reale Società Agraria (1804), l’Editto degli Ulivi (1806) e il famigerato Editto delle Chiudende (1820-23) vanno nella direzione, auspicata dai sovrani piemontesi, dell’affermazione della proprietà perfetta e della nascita di una borghesia rurale fedele alla corona.

Un’efficace sintesi grafica di questo momento è il cabreo delle proprietà di don Matteo Paderi di Villanovafranca. I Paderi si affermano tra la Marmilla e il Parte Montis durante il XVIII secolo: un ramo, quello di Vincenzo, ha la sua base operativa nel villaggio di Mogoro, l’altro ramo, di Matteo, si stabilisce a Villanovafranca.

Matteo Paderi riceve l’onorificenza dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e istituisce una commenda mauriziana dedicata alla S. Vergine dei sette dolori [Devoti, Scalon, 2014]. L’usanza aristocratica di istituire commende per salvaguardare una parte importante del patrimonio e sottrarlo alla divisione tra gli eredi si diffonde in Sardegna già nel XVIII secolo, ma la commenda Paderi assume particolare importanza sia per l’istituzione abbastanza tarda (1822-23), sia per la accuratezza nei dettagli riportati nel cabreo compilato e illustrato dal regio misuratore Pasquale Piu.

Nel cabreo sono elencati 76 frazioni per complessivi 212 ettari, un’ampia abitazione con locali rustici e una macina per l’olio: la rappresentazione grafica si avvicina più alla tecnica catastale ottocentesca, che alle alla tradizionale produzione del secolo precedente [Zedda Macciò 1997, 454-459].

Bisogna attendere la metà dell’Ottocento per avere una cartografia della Sardegna costruita su basi scientifiche, grazie all’opera del generale Alberto La Marmora e del maggiore Carlo De Candia, che per primo definisce i confini delle comunità e suddivide tra terreni privati, comunali e demaniali. Questa classificazione resta tuttavia imperfetta in quanto sacrifica e comprime tutti gli altri modi di possedere la terra che non sempre rispondono a criteri di geometricità: cussorgie pastorali, diritti d’uso ademprivile, forme collettive di possesso [Ortu 2014, 194].

La legge del 1851 dispone la compilazione del catasto sardo: tecnici agrimensori vengono inviati in tutti i villaggi della Sardegna per raccogliere i dati e costruire il catasto particellare. Tralasciando le polemiche sugli errori, volontari o involontari, e sull’esosità delle imposte fondiarie, l’esito grafico ci restituisce, soprattutto in alcune aree a vocazione cerealicola come la Marmilla, una proprietà frammentata anche se concentrata in poche mani aristocratico-borghesi. I confini tracciati nelle mappe sono talvolta invisibili nelle campagne, caratterizzate ancora dal paesaggio dell’open field.

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Fig. 5: Cabreo della commenda mauriziana di don Matteo Paderi (Villanovafranca) [Zedda Macciò, 1997].

Fig. 6: Archivio di Stato di Cagliari, Ufficio Tecnico Erariale Cagliari, Sanluri, fraz. Z. Fig. 7: Sanluri nella stampa di Cominotti (1827).