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Il problema dell’esistenza del c.d vincolo conformativo

4.1. Problemi relativi al seguito legislativo dei referendum abrogativi

4.1.3. Il problema dell’esistenza del c.d vincolo conformativo

alla funzione di garantire adeguatamente il risultato positivo delle consultazioni referendarie, si deve ora dar conto, al fine di prenderne le distanze, di un ulteriore filone dottrinale che ritiene che all’effetto di vincolo a carattere preclusivo di cui si è detto della consultazione

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94 referendaria si accompagni anche un effetto di vincolo a carattere “conformativo”121

, in base al quale il legislatore successivo al referendum sarebbe altresì tenuto a darvi seguito, nel senso che sarebbe obbligato a porre in essere un’attività legislativa successiva alla consultazione referendaria, indispensabile, benché non presenti caratteri di necessarietà assoluta, a conservare la razionalità e l’unitarietà complessive della normativa di risulta: il referendum, così, anziché caratterizzarsi per il solo effetto abrogativo di cui alla lettera dell’art. 75 Cost., accompagnato dall’effetto di vincolo preclusivo conseguente di cui si è parlato, si presenterebbe come strumento capace altresì di imprimere direttive politicamente vincolanti nei confronti del Parlamento, per un intervento legislativo successivo per così dire di attuazione degli indirizzi provenienti dal risultato della consultazione referendaria. Il referendum, insomma, oltre che come strumento di correzione dell’indirizzo politico statale, si caratterizzerebbe per una funzione propositiva dell’indirizzo politico medesimo.

Ebbene, ci pare che l’obbligo del legislatore di conformarsi ai risultati referendari non sia, in realtà, giuridicamente fondato. Se esaminiamo infatti tali dottrine, esse si distinguono sostanzialmente al loro interno tra chi definisce tale obbligo come regola di correttezza costituzionale, e chi invece lo considera come giuridicamente vincolante. Il limite della prima prospettazione sta proprio nel collocare l’ottemperanza all’esito referendario nel novero delle regole extragiuridiche, di buona fede o di moralità, che in quanto tali non sono sufficienti a fondare un dovere in capo alle Camere, trattandosi di fonti informali del diritto costituzionale: le regole di correttezza costituzionale, infatti, si modellano differentemente a seconda del periodo e del diverso contesto politico in cui operano, e non sono allora in grado di esprimere un dovere univoco nei confronti dell’azione degli organi

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Cfr. E. Tosato, Sovranità del popolo e sovranità dello Stato, p. 26; F. Cuocolo,

95 dello Stato, ben potendo, al contrario, giustificare il rispetto o la violazione di ciascun esito referendario in relazione al momento politico o al diverso oggetto della consultazione122. Evidentemente, dunque, affermare un dovere di attuazione delle “direttive” referendarie quale dovere di correttezza costituzionale significa rimettere, in concreto, la scelta alla libertà - discrezionalità del Parlamento, il che, specialmente nei momenti in cui il sistema politico non presenta le caratteristiche di stabilità e unitarietà necessarie all’assolvimento di tale funzione, non garantisce affatto l’attuazione del supposto dovere di seguito del risultato delle consultazioni referendarie123.

La seconda prospettazione, invece, nel momento in cui afferma l’esistenza di un vincolo giuridico discendente dalle consultazioni referendarie, oltre a fare una ricostruzione che non trova corrispondenza in alcuna delle disposizioni costituzionali in materia di produzione normativa, è in evidente contrasto con il principio del libero mandato parlamentare di cui all’art. 67 Cost., che non tollera evidentemente alcuna forma di costrizione dell’attività legislativo - parlamentare.

In definitiva, non pare dunque dimostrata la teoria in base alla quale il referendum avrebbe la capacità di imprimere direttive politicamente, quando non giuridicamente, vincolanti al Parlamento in vista dell’attività legislativa successiva (al di là, dunque, del semplice effetto di vincolo c.d. preclusivo che si è inteso invece affermare e difendere nella sua effettività). D’altronde, la stessa giurisprudenza della Corte Costituzionale che si è esaminato, se afferma il divieto di ripristino, da parte del legislatore, della normativa abrogata in via referendaria, non ha mai fatto alcuna apertura rispetto alla supposta esistenza di un effetto di vincolo di tipo positivo, conformativo rispetto alla attività legislativa successiva, riconoscendo piuttosto, con forza, la libertà

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Cfr. G. Zagrebelsky, Manuale di diritto costituzionale, p. 284

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96 degli organi parlamentari: nel momento in cui afferma l’esistenza del divieto di ripristino, infatti, la Corte aggiunge subito che il legislatore può “correggere, modificare o integrare”124

la disciplina risultante dalla consultazione referendaria, riconoscendo così la complessiva libertà d’azione del Parlamento, che non risulta certo vincolata, allora, da supposte direttive provenienti dal risultato referendario, necessitanti di un’attuazione da parte dell’attività normativa successiva.

Pare allora, concludendo su questo punto, che l’effetto di vincolo c.d. conformativo che alcuni studiosi hanno rinvenuto discenda piuttosto dalla constatazione che in alcuni casi il legislatore ha in effetti ritenuto di dare seguito agli esiti referendari con una normazione successiva che, pur non apparendo indispensabile per la funzionalità della normativa di risulta, è stata ritenuta evidentemente necessaria dal Parlamento per garantire la unitarietà e la razionalità complessiva della normativa di risulta: è il caso, in particolare, della vicenda successiva al referendum abrogativo del 1993 di alcune disposizioni della legge elettorale per il Senato, comportante la generalizzazione del sistema elettorale maggioritario per l’elezione dei senatori nei collegi uninominali. In effetti, subito dopo la pubblicazione degli esiti del referendum, si aprì il dibattito parlamentare per l’approvazione di due nuove leggi elettorali per il Senato e per la Camera dei deputati, la quale non era stata toccata dal quesito ma che fu ritenuta tuttavia non estranea alla decisione referendaria, stante l’impianto interamente proporzionale che la caratterizzava; ciò anche su influenza del Presidente della Repubblica Scalfaro, il quale assunse fin da subito il ruolo di garante del rispetto della volontà popolare emersa dalla consultazione, affermando l’opportunità di una legge elettorale che avrebbe dovuto essere scritta “sotto dettatura” della volontà popolare. Lo stesso Presidente del Consiglio Ciampi, prendendo atto dello squilibrio tra i sistemi elettorali di Camera e Senato derivante dal

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97 referendum, sostenne che fosse “inconcepibile che due Camere – necessariamente complementari nell’approvare leggi, nel dare la fiducia al governo – [potessero] essere elette con sistemi diametralmente opposti”125

. Il risultato furono le due leggi elettorali n. 276 e 277 del 1993, che prevedettero per entrambi i rami del Parlamento un sistema di elezione prevalentemente maggioritario, pur corretto da una quota proporzionale per l’attribuzione dei seggi. Insomma, la teoria dell’effetto di vincolo conformativo finisce col rivestire di forme giuridiche comportamenti che sono qualificabili meramente come prassi, e non come espressione di regole che siano munite di un qualunque connotato di precettività: tale teoria, in definitiva, aggiunge un effetto ai referendum abrogativi che non trova fondamento in alcuna disposizione costituzionale né, tanto più, in alcuna pronuncia della Corte Costituzionale, risultando così fuorviante rispetto all’analisi degli effetti propriamente giuridici derivanti dalle consultazioni referendarie e che meritano dunque di essere effettivamente garantiti da strumenti giuridici adeguati.