• Non ci sono risultati.

La giurisprudenza relativa ai limiti di origine pretoria

2.2. I profili problematici della giurisprudenza costituzionale

2.2.2. La giurisprudenza relativa ai limiti di origine pretoria

almeno in alcuni casi, la sostanziale arbitrarietà della giurisprudenza costituzionale di ammissibilità, che a nostro avviso ne sottolinea la necessità di una profonda ridefinizione, nell’ottica di un suo maggiore self-restraint. Emblematica è, al riguardo, l’evoluzione della casistica relativa al requisito attinente alla formulazione del quesito e, come si è visto, elaborato nell’ambito della decisione-quadro 16 del 1978, della omogeneità del quesito: originariamente esso è stato declinato nei termini di una preclusione per i quesiti recanti una pluralità di domande eterogenee prive di una matrice razionalmente unitaria, tali da pregiudicare la libertà di voto, in quanto in tali casi, forzatamente, l’interesse prevalente ad abrogare o a mantenere determinate discipline comporterebbe l’accettazione dell’abrogazione o del mantenimento di altre norme rispetto alle quali invece, ove esse fossero state oggetto di un quesito autonomo, avrebbe prevalso nell’elettorato la volontà

31 opposta52. Nel tempo, la Consulta ha tenuto, al riguardo, orientamenti diversi, in alcuni casi specificando il limite in questione, facendolo così oggetto di una valutazione più stringente e addirittura arrivando ad elaborare ulteriori criteri connessi, attinenti anch’essi alla formulazione del quesito, in altri casi adottando invece un atteggiamento di minor rigore nell’interpretazione dell’omogeneità, dando così luogo a una giurisprudenza sostanzialmente incoerente, in certe occasioni perfino tra decisioni rese nella stessa data.

In effetti, già con la sentenza 27/1981, la Corte dichiarò l’inammissibilità del quesito radicale sulla caccia53

proprio fondandosi su un’interpretazione stringente del limite dell’omogeneità che dette luogo alle aspre critiche dei radicali, i quali, riferendosi alla sostanziale imprevedibilità della giurisprudenza costituzionale, parlarono di “Corte di regime” e di “Corte beretta”54

rispetto al diritto dei cittadini di esprimersi mediante consultazione popolare diretta. Qui la Corte ampliò l’omogeneità del quesito sviluppandolo negli ulteriori requisiti della semplicità, chiarezza ed inconfondibilità dello stesso, rispetto ai quali l’omogeneità si porrebbe come strumentale, al pari della completezza del quesito, che garantirebbe anch’essa la libertà del voto imponendo di inserire nella formulazione della richiesta tutte le disposizioni che si ricollegano ad uno stesso principio. In tale sentenza, dunque, l’omogeneità è estesa a tal punto da affiancarle criteri ulteriori che, negli anni, saranno richiamati in molte altre occasioni, al fianco dell’omogeneità, per fondare dichiarazioni di inammissibilità delle richieste referendarie: si pensi alla sentenza 47/1991, che dichiarò l’inammissibilità della richiesta, avanzata nel 1990 dal Comitato per il referendum elettorale di Mario Segni, sulla legge elettorale dei comuni,

52

M. Luciani, Omogeneità e manipolatività delle richieste di referendum abrogativo

tra libertà di voto e rispetto del principio rappresentativo, in AA.VV., Il giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo, p. 78

53

Avente ad oggetto l’abrogazione di alcuni artt. della legge 968/1977 recante principi generali sulla disciplina della caccia

54

32 anche, appunto, per l’assenza di chiarezza che “rischierebbe di venire pregiudicata dalla mancata inclusione di porzioni normative anche brevissime, allorché queste - di per sé destinate a perdere ogni ragione di sopravvivenza nell’eventualità di un'abrogazione delle parti espressamente indicate nel quesito - potrebbero, con il loro mantenimento formale durante il vaglio referendario, suscitare dubbi sull'effettivo intento dei promotori”; oppure si consideri la sentenza 23 del 1997, sull’ammissibilità di una delle venti richieste referendarie avanzate dai radicali nel 1995, in cui l’inammissibilità fu dichiarata anche per carenza di chiarezza del quesito, argomentando che “l'abrogazione delle norme sottoposte a referendum sarebbe incoerente e contraddittoria con la permanenza di altre alle prime strettamente connesse” (con esplicito richiamo alla sentenza 29 del 1981).

Il requisito dell’omogeneità è stato poi ulteriormente specificato ed ampliato dalla Corte nell’ambito del controllo di ammissibilità del quesito proposto nel 1982 da Democrazia Proletaria, avente ad oggetto lo Statuto dei Lavoratori per estendere le garanzie a tutela dell’attività sindacale anche alle imprese con meno di 15 dipendenti, e dichiarato in effetti inammissibile per carenza di omogeneità della richiesta, intesa come “nesso inscindibile di coerenza logica e sostanziale” tra le diverse proposte avanzate, a scapito ancora una volta della libertà di voto, in quanto l’elettore sarebbe altrimenti “costretto a fornire una risposta unica in sede di espressione del voto. Ben potrebbe cioè l'elettore condividere l'una o l'altra delle soluzioni abrogative ma non tutte, mentre dovrebbe invece necessariamente rispondere "sì" o "no" in relazione al loro complesso”55

.

La continua rimodulazione del criterio in parola non finisce affatto qui: con la sentenza 29 del 1987, avente ad oggetto il quesito avanzato da radicali e liberali per la modifica del sistema di elezione della componente togata del Consiglio Superiore della Magistratura, la Corte

55

33 Costituzionale ampliò il concetto dell’omogeneità fino a farlo coincidere con un divieto di quesiti esposti ad ambiguità di significato, cioè incapaci di esprimere l’”evidenza del fine intrinseco dell’atto abrogativo”: la Consulta in particolare considera che il referendum abrogativo è, nel nostro sistema costituzionale, una fonte del diritto dello stesso rango della legge ordinaria, e che così “come il legislatore rappresentativo ispira e coordina la sua volontà ad un oggetto puntuale, così la volontà popolare deve poter ispirarsi ad una ratio altrettanto puntuale”56, individuando proprio nell’omogeneità come in questa sede declinata la garanzia di siffatta ratio.

Ma è dall’esame di alcune sentenze successive che emerge tutta l’ambiguità ed incoerenza della giurisprudenza costituzionale in sede di giudizio di ammissibilità delle richieste referendarie. Se l’evoluzione giurisprudenziale fino ad ora considerata si caratterizza per una continua espansione del concetto di omogeneità, successivamente assistiamo ad incoerenti oscillazioni nell’interpretazione dello stesso, ampia in alcuni casi, più blanda in altri: una delle prime decisioni che vanno in quest’ultima direzione è la sentenza 28 del 1993, avente ad oggetto una richiesta referendaria sulla disciplina delle sostanze stupefacenti e psicotrope, in cui si fa meramente riferimento ad una non assoluta eterogeneità, ma è soprattutto dall’esame di due sentenze del 2003 che emerge tutta l’imprevedibilità della giurisprudenza della Corte in materia, la quale si rende addirittura protagonista di orientamenti contraddittori in decisioni rese nella stessa data. Si sta facendo riferimento alle sentenze 41 e 45 del 2003, relative a due richieste referendarie presentate entrambe da Rifondazione Comunista, Fiom, e dalla corrente della sinistra dei Ds Socialismo 2000, e riguardanti lo Statuto dei lavoratori; con la prima si intendeva estendere la tutela reale in caso di licenziamento illegittimo, che era garantita dall’art.18 della l.300/1970,

56

34 anche alle imprese con non più di quindici dipendenti, mentre con l’altra si volevano estendere anche a queste ultime i diritti connessi all’esercizio dell’attività sindacale sul luogo di lavoro. Per quanto ci interessa, il primo quesito contemplava altresì l’abrogazione della disposizione della l.108/1990 che esclude l’estensione dell’obbligo del datore di lavoro di reintegrare il lavoratore illegittimamente licenziato ai “datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, ovvero di religione o di culto”; dal canto suo, invece, il secondo quesito contemplava altresì l’abrogazione del terzo comma dell’art.35 dello Statuto dei lavoratori, proponendo così l’estensione della disciplina dell’attività sindacale anche alle imprese di navigazione. Ebbene, del tutto criticabilmente, la Corte Costituzionale ha, da un lato, dichiarato ammissibile il quesito relativo alla tutela reale in caso di licenziamento illegittimo, mentre ha deciso per l’inammissibilità dell’altro quesito, dimostrando di dare due interpretazioni diverse, l’una meno, l’altra più rigorosa al criterio dell’omogeneità nell’ambito di due decisioni assunte appunto in sequenza nello stesso giorno57.

Con la sentenza n.41, in effetti, la richiesta è stata giudicata omogenea benché essa contemplasse l’estensione della tutela reale anche ai lavoratori dipendenti da datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di tendenza, considerando che “la domanda di abrogazione in esame chiarisce la propria obiettiva ratio unitaria consistente nell’estensione della garanzia della reintegrazione e del risarcimento del danno contenuta nell’art. 18 dello statuto dei lavoratori, in modo da comprendere in essa anche l’ambito in cui oggi vale la tutela obbligatoria”; e che, quindi, “il quesito è omogeneo, pur concernendo altresì la disposizione che esclude l’applicabilità della garanzia di stabilità reale per i dipendenti da datori di lavoro, non imprenditori, che esercitano un’attività di tendenza. L’esistenza di una

57

A. Pertici, Il giudice delle leggi e il giudizio di ammissibilità del referendum

35 matrice razionalmente unitaria è comunque assicurata dall’obiettivo comune di estendere l’ambito di operatività della garanzia reale in settori nei quali essa attualmente non opera”. Se qui, dunque, l’obiettivo di estendere l’art.18 dello statuto a settori in cui valeva la tutela obbligatoria assicura, secondo la Corte, la struttura omogenea del referendum benché esso contemplasse altresì tale particolare categoria di lavoratori, con la sentenza 45, invece, la soluzione adottata nella sentenza 41 è sostanzialmente, e sorprendentemente, contraddetta: in questa pronuncia, infatti, il quesito relativo all’attività sindacale nei luoghi di lavoro è dichiarato inammissibile proprio per carenza di omogeneità, a causa della comprensione, nella richiesta, dell’art.35 dello Statuto dei lavoratori per intero, compreso il terzo comma che esclude dall’ambito di applicazione della disciplina le imprese di navigazione, argomentando che “il terzo comma ha un contenuto più ampio ed eterogeneo rispetto a quello dei primi due [che escludono l’applicabilità della disciplina dell’attività sindacale all’interno delle imprese industriali, commerciali e agricole sulla base delle dimensioni delle relative unità produttive]. Esso, infatti, comprende la diretta applicabilità di alcune disposizioni […] nei confronti del personale navigante cui l’ordinamento ha riservato una disciplina specifica. Ne consegue che la proposta referendaria concentra in un quesito unico disposizioni disomogenee, riguardo alla cui abrogazione gli elettori devono essere lasciati liberi di orientarsi autonomamente ed eventualmente in modo difforme”.

È proprio sulla base di tale argomentazione che si misura l’incoerenza delle valutazioni della Corte nelle due decisioni prese in esame: tanto ai datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, ovvero di religione o di culto, inclusi nel quesito giudicato con la sentenza 41 del 2003, quanto alle imprese di navigazione da ultimo considerate, l’ordinamento riserva una regolamentazione specifica, eppure soltanto il primo dei

36 due quesiti è stato giudicato ammissibile in quanto omogeneo: nella sentenza 41 la Corte ha individuato una ampia matrice razionalmente unitaria, quella dell’estensione della tutela reale ad ambiti in cui non era prevista, tale da pervadere l’intero quesito anche nella parte in cui includeva le organizzazioni di tendenza, a differenza di quanto fatto nella sentenza 45 (ricordiamolo, resa addirittura lo stesso giorno), in cui invece l’inclusione di imprese operanti in settori oggetto di disciplina differenziata è stata giudicata contrastante col requisito dell’omogeneità, benché ben poteva essere individuata anche in questo caso una matrice razionalmente unitaria nell’estensione di una determinata disciplina (qui, i diritti connessi allo svolgimento dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro) a tutte le imprese.

Nelle decisioni più recenti che hanno preso in considerazione il requisito dell’omogeneità della richiesta, poi, la Consulta ha confermato l’estrema flessibilità dei propri orientamenti: nella sentenza n.24 del 2011 l’omogeneità del quesito, nei termini della matrice razionalmente unitaria dello stesso, è stata individuata nella unitarietà della disciplina di cui si richiede l’abrogazione, mentre con la sentenza n.28 dello stesso anno il riferimento è alla stretta connessione tra le disposizioni di cui si propone l’abrogazione, “in quanto accomunate dalla eadem ratio”58. Con la successiva sentenza n.174 del 2011 si va poi ad invertire ulteriormente la rotta, quando la matrice razionalmente unitaria del quesito è indicata come requisito autonomo e valutata congiuntamente a quello dell’omogeneità.

È indiscutibile che una tale giurisprudenza, che possiamo definire senza dubbio, almeno con riguardo a questi casi più clamorosi, schizofrenica, vada a scapito del principio di affidamento dei promotori, e di tutti i cittadini, rispetto al controllo di ammissibilità della Corte Costituzionale, rendendo non più procrastinabile un intervento del legislatore che ridefinisca tale competenza della

58

37 Consulta entro confini più certi e allo stesso tempo più garantisti del diritto dei cittadini di esprimersi mediante consultazione popolare diretta, consentendo di mettersi dietro le spalle orientamenti giurisprudenziali che frappongono ostacoli all’operatività dell’istituto referendario in taluni casi ai limiti dell’arbitrario.

In effetti, un altro ambito in cui emerge un’interpretazione eccessivamente rigorosa dei limiti di ammissibilità del referendum abrogativo è quello delle leggi a contenuto costituzionalmente vincolato, altro limite, come abbiamo visto, introdotto dalla sentenza- quadro 16 del 1978; esso comprendeva, nella sua lettura giurisprudenziale originaria, le leggi che rappresentano l’”attuazione integralmente necessitata delle disposizioni costituzionali”59

, in quanto unica legittima attuazione della Costituzione, tale che, se si incidesse su una tale legge mediante abrogazione, in tal caso referendaria, si andrebbe indebitamente ad incidere sullo stesso dettato costituzionale, del quale una legge a contenuto costituzionalmente vincolato è sostanzialmente riproduttiva. Se l’inclusione di tali leggi dal novero di quelle che non possono costituire oggetto di richiesta referendaria pare in effetti pacifica, ciò che si contesta è il successivo e progressivo, ancora una volta, ampliamento del limite in questione ad opera della giurisprudenza della Consulta, che, oltre a ridurre ulteriormente l’ambito di operatività del referendum abrogativo ben oltre il disegno costituzionale, evidenzia una netta distorsione sia della natura e funzione dell’istituto nel nostro ordinamento, che dello stesso giudizio di ammissibilità, con particolare riferimento al suo oggetto.

Ciò che si vuole sottoporre a critica è l’inclusione nella categoria in questione anche delle leggi costituzionalmente necessarie, che sono, sì, anch’esse di attuazione di norme costituzionali, ma che rispetto alle altre non rappresentano l’unica modalità astrattamente possibile e legittima di esecuzione, dal momento che corrispondono a disposizioni

59

38 della Costituzione che tollerano più forme possibili di attuazione: recano insomma una disciplina che non può mancare, apprestando “quel minimo di tutela che determinate situazioni esigono secondo Costituzione”60, ma il cui contenuto non è anch’esso imposto, bensì è rimesso alla discrezionalità del legislatore.

Compiendo un’inversione di rotta rispetto alla sentenza 26 del 1981, in cui dispose l’irrilevanza, ai fini del giudizio di ammissibilità di una richiesta referendaria, dell’eventuale incostituzionalità della normativa di risulta sotto il profilo, in particolare, dell’abrogazione “della necessaria garanzia di situazioni costituzionalmente protette”61, la Corte Costituzionale con sentenze successive dichiarerà l’inammissibilità di alcuni importanti quesiti referendari proprio in quanto vertenti su leggi, erroneamente ricondotte tra quelle a contenuto costituzionalmente vincolato, che danno attuazione a principi, diritti, e disposizioni organizzative contenute in Costituzione di cui garantiscono l’effettività, ma che non rappresentano appunto l’unica modalità ipotizzabile di esecuzione del testo costituzionale. Il confine tra le due categorie di leggi, in effetti, è andato dissolvendosi già a partire dalla sentenza 27 del 1987, con la quale la Corte si pronunciò, in maniera positiva, sull’ammissibilità di un quesito presentato dai partiti radicale e liberale in materia di giustizia, particolarmente sull’abolizione della disciplina, contenuta nella l.170/1978, della Commissione parlamentare inquirente; ebbene, in tale sede, nel novero delle leggi a contenuto costituzionalmente vincolato vengono ricomprese quelle, sempre di attuazione, che rappresentano "una scelta politica del Parlamento che poteva anche essere diversa senza che ne resti elusa o violata la volontà della norma costituzionale”, leggi “la cui eliminazione ad opera del referendum, priverebbe totalmente di efficacia un principio o un organo costituzionale la cui esistenza é

60

Corte Costituzionale, sentenza 26 del 1981

61

39 invece voluta e garantita dalla Costituzione”, “di modo che la loro abrogazione si tradurrebbe in lesione” di una norma costituzionale62

. La definitiva inclusione delle leggi costituzionalmente necessarie tra quelle sulle quali il referendum abrogativo non è ammissibile si è avuta con due sentenze del 1997, in cui la Consulta ha dimostrato di non operare alcuna distinzione con la categoria delle leggi a contenuto costituzionalmente vincolato: in effetti, prima con la sentenza 17 e poi con la sentenza 35, l’inammissibilità del quesito è stata dichiarata in quanto l’abrogazione avrebbe privato di efficacia la necessaria tutela di situazioni costituzionalmente garantite, benché la legislazione coinvolta dall’iniziativa referendaria non costituisse l’unica possibile modalità di attuazione di tali situazioni. In particolare, con la sentenza 17/1997, la Corte dichiarò l’inammissibilità del quesito referendario di iniziativa regionale per l’abolizione del Ministero della Sanità, in quanto la relativa disciplina è volta dare attuazione al diritto alla salute, costituzionalmente garantito, giudicando appunto “inammissibile un quesito che proponga al corpo elettorale di pervenire, attraverso la soppressione di un intero Ministero, alla eliminazione di funzioni che siano costituzionalmente necessarie, e come tali non possano essere soppresse senza con ciò stesso ledere principi costituzionali”; salvo poi concludere che “la richiesta di abrogazione totale per referendum delle norme che prevedono l'esistenza del Ministero della sanità, coinvolgendo anche l'esercizio di funzioni amministrative costituzionalmente necessarie, non può essere ammessa, in quanto incide su norme a contenuto costituzionalmente vincolato”: è evidente la confusione concettuale della Consulta, che amplia indebitamente tale ultima nozione a tal punto da ricomprendervi anche disposizioni di legge che, in realtà, non sono costituzionalmente imposte quanto al loro contenuto, bensì rappresentano solo una delle possibili modalità di attuazione di istituti garantiti dal testo costituzionale.

62

40 La medesima fusione dei due concetti è poi operata anche con la sentenza 35/199763, in cui la Corte si è pronunciata in maniera negativa sull’ammissibilità della richiesta referendaria radicale tesa alla liberalizzazione dell’interruzione volontaria della gravidanza, in quanto, in particolare, l’abrogazione avrebbe posto nel nulla una disciplina di necessaria attuazione dei diritti, costituzionalmente garantiti, alla vita, alla salute, e alla tutela della maternità e dell’infanzia: la Consulta ha ritenuto, erroneamente, che un eventuale esito positivo di tale referendum “travolgerebbe pertanto disposizioni a contenuto normativo costituzionalmente vincolato sotto più aspetti”64

. Una matura distinzione tra le due categorie delle leggi costituzionalmente necessarie e di quelle a contenuto costituzionalmente necessario si è avuta solo con la sentenza 45 del 2005, in cui la Corte, pronunciandosi sulla ammissibilità della richiesta referendaria relativa alla l.40/2004, ha dimostrato, di fatto, di sottrarre a referendum abrogativo tutte le leggi di attuazione di principi, diritti e istituti costituzionalmente garantiti: qui si afferma, per la prima volta espressamente, che un quesito che abbia ad oggetto un’intera legge (definita appunto costituzionalmente necessaria) che appresti il livello minimo di tutela legislativa richiesta da determinate situazioni secondo Costituzione, è inammissibile, benché la disciplina in questione non contenga l’unica forma astrattamente possibile (e dunque imposta) di attuazione costituzionale. Su questo punto la Corte tornerà più volte in seguito, da ultimo con la sentenza 13 del 2012 con cui ha definito i giudizi di ammissibilità relativamente a due quesiti sulla legge elettorale delle Camere: qui è ulteriormente precisato che l’abrogazione referendaria di una legge costituzionalmente necessaria,

63

La quale, dichiarando l’ammissibilità del quesito, ha operato un mutamento giurisprudenziale in materia di interruzione volontari della gravidanza rispetto alla sentenza 26 del 1981 che invece dichiarò inammissibile la richiesta radicale analoga: M. D’Amico, Una lettura della disciplina dell’interruzione volontaria della

gravidanza in una problematica decisione di ammissibilità del referendum, in Giur. Cost., 1997, p.1139

64

41 è ammissibile solo in caso di referendum parziale, il quali garantisca un livello minimo di tutela di situazioni costituzionalmente garantite. Tale giurisprudenza merita di essere sottoposta a critica, in quanto tale ampliamento della categoria delle leggi a contenuto costituzionalmente vincolato allarga, ancora una volta, indebitamente le maglie dell’inammissibilità dell’istituto referendario, limitando il diritto dei cittadini di esprimersi mediante consultazione popolare a nostro avviso oltre il disegno costituzionale, contribuendo così in maniera decisiva al depotenziamento dell’istituto nel tempo.

Ma oltre a questo, la considerazione delle leggi costituzionalmente necessarie, al pari di quelle cc.dd. comunitariamente necessarie, contribuisce ad una sorta di snaturamento intrinseco del referendum abrogativo, in quanto spalanca di fatto le porte, legittimandolo, al