• Non ci sono risultati.

La questione della legittimità dell’astensione e degli appelli a

Alla luce di una prassi simile, occorre innanzitutto chiedersi se l’appello a disertare le urne e l’astensione stessa siano comportamenti legittimi oppure no nel nostro ordinamento costituzionale, in particolar modo, per quanto qui interessa, in occasione delle consultazioni referendarie. Si è detto che l’astensionismo, susseguente a sistematici inviti a disertare le urne provenienti da molti dei principali attori politici, di volta in volta contrari all’abrogazione referendaria, costituisce, d’altronde, il principale fattore di depotenziamento della vitalità dell’istituto referendario: a fronte di un sempre crescente astensionismo fisiologico, è inconfutabile che i contrari ad una determinata richiesta referendaria abbiano buone possibilità di vittoria unendosi alla fetta sempre più ampia di elettorato politicamente non attivo, contribuendo così in maniera decisiva al sempre più raro raggiungimento del quorum di partecipazione di cui all’art.75, comma 4, Cost., che come si è visto è stato raggiunto soltanto una volta dal 1997 ad oggi.

61 In un contesto simile, l’istituto referendario ha evidentemente perso molta della sua vitalità originaria, risultando complessivamente depotenziato nei suoi scopi storicamente riconosciutigli, ossia di garantire un canale diretto di partecipazione popolare alla vita politica del Paese da un lato, e di consentire la correzione, in via diretta, di scelte politiche parlamentari che non rispecchiano gli orientamenti diffusi in via maggioritaria nell’opinione pubblica, dall’altro: la maggior parte delle richieste referendarie nascono sostanzialmente senza speranza di successo, dato che è sufficiente convincere una minoranza del corpo elettorale (sostanzialmente, alla luce della continua flessione della partecipazione politica, circa un quarto degli elettori), perché i fautori dell’abrogazione referendaria risultino sconfitti.

Così, è necessario interrogarsi, come puntualmente accade alla vigilia di ogni consultazione referendaria78, se siano legittimi il comportamento di chi si astiene dal voto e di chi invita a disertare le urne con l’obiettivo di non far

raggiungere il quorum per la validità della votazione, alla luce, in particolare, di tre dati normativi: l’art.48 Cost., che disciplina il diritto di voto; la disciplina del referendum abrogativo di cui all’art.75 Cost.; e l’art.21 Cost., che garantisce la libertà di manifestazione del pensiero.

Ebbene, da un punto di vista sostanziale è vero che la scelta di non partecipare al voto al fine di boicottare la consultazione referendaria e, conseguentemente, la stessa propaganda per la diserzione delle urne, costituiscono uno snaturamento della logica binaria sottesa ad ogni consultazione referendaria, che, “nell’ammettere solo l’opzione tra un

78

Fra i costituzionalisti è vivace il dibattito in materia: se Michele Ainis definisce l’astensione una frode alla Costituzione (La Stampa 12/05/2005), Antonio

Baldassarre deduce la piena legittimità degli inviti all’astensione e dell’assenteismo elettorale dalla garanzia costituzionale della libertà di voto e della libertà di espressione (La Stampa, 14/05/2005), mentre Gaetano Silvestri, pur affermando la liceità dell’astensione, dubita della correttezza democratica di tale comportamento (il manifesto, 15/05/2005)

62 Sì e un No, certamente esclude che si possa scambiare – come pure da parte di taluno è stato fatto – il No alla domanda referendaria con la posizione di chi si astiene dall’assumere qualsiasi decisione in merito”79

. Tuttavia, alla luce delle disposizioni costituzionali ora richiamate, occorre concludere per la liceità tanto del comportamento di chi si astiene, quanto dei richiami a disertare le urne, anche in occasione di una votazione referendaria.

L’art.48, comma 2, Cost. dispone che il voto è personale ed eguale, libero e segreto, e che il suo esercizio è dovere civico. Questa rappresenta una formula di compromesso tra chi in Costituente sosteneva l’obbligatorietà del voto e la sua sanzionabilità (in particolare la Democrazia Cristiana e gli altri partiti moderati, che volevano spingere a votare i ceti medi e conservatori, tradizionalmente meno propensi alla partecipazione politica) e chi invece era contrario all’obbligatorietà del voto (i partiti di sinistra ed in particolare il Pci, che ritenevano così di avvantaggiarsi della maggiore propensione al voto degli strati meno abbienti della popolazione); quella dell’affermazione di un dovere civico fu apertamente una scelta intermedia, che rinviava eventualmente ad un momento successivo l’opzione della obbligatorietà del voto, peraltro mai introdotta. Anzi, nel 1993 arrivò l’abrogazione dell'art. 115 del testo unico delle leggi per l'elezione della Camera, che prevedeva, per chi si asteneva, una sanzione consistente nella menzione "non ha votato" nel certificato di buona condotta: questa modifica, se da un lato rappresenta una scelta netta per la non obbligatorietà del voto, dall’altro non vale ad affermare la piena libertà del voto, andando piuttosto a superare la confusione concettuale in base alla quale sarebbe (stato) doveroso, in quanto sanzionato, soltanto il voto nelle elezioni e non anche quello nei referendum; come si è detto, infatti, in ogni caso il voto rappresenta un dovere costituzionale, il quale però non è sanzionato: quest’ultimo

79

63 aspetto, ed è quello che qui in particolare interessa, vale a individuare come pienamente lecita l’astensione, che tuttavia, è necessario precisare, non rappresenta una modalità di esercizio del diritto costituzionale di voto, essendo piuttosto un comportamento giuridicamente irrilevante, ossia, come ha precisato la Corte Costituzionale, “una forma di esercizio del diritto di voto significante solo sul piano socio-politico”80.

D’altronde, il voto implica una decisione, e il fatto di non recarsi alle urne è, semplicemente, una non-decisione: ciò vale tanto più in una consultazione come quella referendaria, in cui l’elettore è messo di fronte all’alternativa tra il votare “sì” oppure “no” alla proposta abrogativa, non rientrando invece nell’atto di votare chi si astiene dal voto. L’assenza di qualsiasi determinazione soggettiva, insomma, esula dal decidere a favore o contro una certa proposta, secondo il principio, valido d’altronde per qualsiasi deliberazione elettorale, secondo il quale la volontà della maggioranza si forma nel, e non anche al di fuori del, procedimento deliberativo: chi non partecipa al processo decisionale non sta, insomma, esercitando una libertà implicita nel diritto di voto, bensì è estraneo al suo esercizio.

L’astensione come comportamento lecito ma non come diritto, e quindi come comportamento privo di rilevanza giuridica, si è detto, è concetto che vale anche per le consultazioni referendarie: affermare, al contrario, che la non partecipazione al referendum sia anche un diritto sulla base dell’art.75 Cost., che disciplina il quorum strutturale come condizione di validità del risultato della consultazione diretta, significa non porre sufficientemente l’attenzione sulla ratio della disposizione in esame. L’introduzione di un quorum per i referendum abrogativi risponde, come si è detto, all’esigenza di evitare che una piccola minoranza dei cittadini potesse abrogare una legge approvata dalla maggioranza dei rappresentanti eletti in Parlamento: risponde, quindi,

80

64 al chiaro intento di contrastare l’astensione. Il non voto, quindi, è sì un’opzione del tutto legittima, in quanto, evidentemente, prevista dalla disciplina costituzionale del quorum strutturale, ma non per questo costituisce un diritto: altrimenti, se cioè affermassimo che la disciplina del quorum valga a fondare un diritto al non voto, ove il quorum non vi fosse (come avviene nel caso del referendum costituzionale) dovremmo giungere alla conclusione assurda per la quale l’astensione sarebbe illegittima e che, dunque, votare sarebbe obbligatorio.

Una conferma di quanto detto arriva anche dall’ordinanza del 7 dicembre 1999 con cui l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione ha affermato la legittimità della reiterazione del quesito proponente l’abrogazione della quota proporzionale nella legge elettorale della Camera, che proprio nell’appuntamento referendario del 1999 non aveva raggiunto il quorum strutturale: ciò in quanto, appunto, è stata rifiutata l’equiparazione giuridica tra il No all’abrogazione e l’astensione, la quale non è dunque considerabile come una forma di esercizio del diritto costituzionale di voto, bensì costituisce un comportamento non rilevante, pur se legittimo, e non tale quindi da essere ricompreso nella previsione dell’art.38 della l.352/1970 che dispone un divieto di reiterazione dei referendum nei cinque anni successivi in caso di vittoria del No.

Nella stessa direzione va anche la disciplina dell’accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie contenuta nella l.28/2000, che si limita a ripartire gli spazi radiotelevisivi per la campagna referendaria in modo uguale tra i favorevoli e i contrari al quesito, non contemplando dunque l’astensione come tipologia di voto referendario.

Detto della piena liceità dell’astensione nei referendum abrogativi, pur con le precisazioni concettuali fatte, resta ora da valutare la liceità del comportamento di chi fa propaganda per l‘astensione in occasione delle consultazioni referendarie, puntando dunque a contrastare il

65 quesito non già con un voto contrario all’interno del procedimento decisionale, bensì con la diserzione dalle urne, con l’intento di determinare l’invalidità del risultato della consultazione.

Ebbene, a far concludere per la legittimità anche di tale comportamento è l’art.21 Cost., che dispone inequivocabilmente che tutti hanno diritto di manifestare il proprio pensiero: l’invito a disertare le urne in occasione di un referendum abrogativo non fa certo eccezione. Occorre tuttavia approfondire due aspetti.

Innanzitutto, è chiaro che la manifestazione del proprio pensiero non può sfociare in comportamenti che incidano sull’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti: nel nostro ambito, non può concretizzarsi in azioni impeditive dell’esercizio del diritto di voto. Da questo punto di vista, è stata censurabile la massiccia campagna per l’astensione promossa in particolare dalle associazioni venatorie in occasione dei referendum sulla caccia e sull’uso dei fitofarmaci del 1990: la garanzia costituzionale della libertà del voto, impeditiva di qualsivoglia forma di coartazione del libero convincimento dell’elettore, è stata certamente violata dalle forme concrete che la propaganda antireferendaria ha assunto. Specialmente in Toscana, dove soprattutto nei piccoli centri della campagna urbanizzata la vocazione venatoria è fortissima, si è assistito a forme di controllo intracomunitario per tenere gli elettori lontani dalle urne, che si sono concretizzate in un clima intimidatorio di cui gli ambientalisti sono stati oggetto, avente l’obiettivo di far sì che la generalità della popolazione non andasse a votare: le ripetute denunce avanzate nei giorni precedenti il voto documentano pressanti richieste dei cacciatori ad amici e parenti perché consegnassero i certificati elettorali, nonché diffuse minacce di sorvegliare chi fosse andato a votare81, episodi certamente lesivi della garanzia costituzionale della libertà del voto, che esige che esso sia privo di qualunque forma di coazione della volontà dell’elettore.

81

M. Caciagli, P.V. Uleri (a cura di), Democrazie e referendum, pp.367 s. e nota a p. 368

66 In secondo luogo, il comportamento di chi invita gli elettori ad astenersi dal voto referendario merita di essere valutato in maniera parzialmente diversa a seconda di chi lo tiene: un conto è infatti l’appello fatto da un privato cittadino, altro è invece l’invito a boicottare una consultazione referendaria fatto da soggetti titolari di cariche pubbliche, ed in particolare dei più alti incarichi costituzionali. Abbiamo visto infatti come si siano succedute negli anni posizioni favorevoli all’astensione tenute ora dal Presidente dal Consiglio, ora, addirittura dal Presidente della Repubblica (è il caso di Cossiga in occasione del voto del 1991).

Ebbene, tenuto fermo che, in ogni caso, la propaganda per l’astensionismo rientra nella libertà di opinione e di espressione garantita dalla Costituzione all’art.21, è da ritenere che tale comportamento, ove sia tenuto da tale ordine di soggetti, si pone in contrasto con un dovere di correttezza costituzionale, che deve essere riconosciuto esistente in capo a questi ultimi alla luce di altri riferimenti costituzionali: in particolare, l’art.49 Cost., che impone ai partiti, e quindi anche ai soggetti titolari di cariche costituzionalmente rilevanti, di partecipare alla vita politica del Paese con metodo democratico, e l’art.28 Cost., che impone ai funzionari pubblici di agire in modo imparziale e responsabile. Da ciò si può ricavare un dovere di correttezza costituzionale, per tali soggetti, che impone loro di rispettare le regole democratiche e i diritti dei cittadini: da questo punto di vista si deve affermare che i titolari di organi costituzionali incontrano limiti più forti nella libertà di manifestazione del pensiero, che non incontrano invece i comuni cittadini82.

Allora, sembrano censurabili gli inviti a non recarsi alle urne, e quindi a non esercitare il diritto costituzionale di voto, del Presidente del Consiglio, e prima ancora del Presidente della Repubblica, che costituisce la carica istituzionale che per prima dovrebbe sottolineare la

82

Cfr., in questo senso, A. Morrone, E’ legittimo astenersi e invitare a disertare le

67 sacralità di ogni forma di partecipazione democratica, invitando sempre alla partecipazione politica attiva: è auspicabile dunque non avere nuovamente in futuro posizioni come quella, richiamata, del Presidente della Repubblica Cossiga, peraltro anche concettualmente errata, dal momento che andava nella direzione di invitare all’astensione qualificando quest’ultima come un “no” rafforzato, cioè detto due volte: il che non è vero, dal momento che, come si è spiegato e come ha precisato la Corte Costituzionale nella sentenza 173 del 2005, il non voto e il voto contrario non sono assolutamente comportamenti equivalenti, essendo il primo un atto che si pone al di fuori del processo decisionale, e quindi assolutamente irrilevante dal punto di vista giuridico.