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Il ribaltamento del modello joyciano

2.5 The Dalkey Archive

2.5.2 Il ribaltamento del modello joyciano

Una delle figure più decisive nel complesso del romanzo è senz’altro quella di James Joyce, nei confronti del quale O’Brien mette in atto una vera e propria vendetta. In effetti, questo sentimento poteva facilmente alimentarsi nel cuore di uno scrittore costretto per tutta la sua carriera a confrontarsi con l’ingombrante riferimento ad un personaggio del calibro di Joyce. L’intera attività letteraria di O’Brien, così come la sua reputazione di artista, vennero sempre oscurate dall’ombra joyciana: frequenti erano i paragoni dei critici tra i due scrittori, così come pressante era il confronto tra le loro modalità narrative. Il peso di questa eredità non poteva lasciare indifferente l’ambizioso O’Brien, desideroso di conferire alla propria arte un carattere unico e di vederne riconosciute le peculiarità. Pertanto con il tempo non perse occasione di esprimere il proprio astio nei confronti di Joyce. In un articolo intitolato “A Bash in the Tunnel”, O’Brien realizza una vera e propria invettiva ai suoi danni.

Ciò che avviene in The Dalkey Archive rappresenta, tuttavia, un passo ulteriore nella messa in discussione della figura joyciana da parte del nostro autore. Sembrerebbe infatti troppo facile spiegare la totale demolizione di Joyce presente in quest’opera semplicemente sulla base del suddetto sentimento di rivalsa. Si è invece deciso di spostare l’attenzione su motivazioni più profonde, legate a scelte di vita di Joyce, assolutamente non condivise da O’Brien, anche se determinate da un punto di partenza comune: l’insofferenza nei confronti degli atteggiamenti adottati dall’Irlanda in seguito alla decolonizzazione. In un’ottica postcoloniale, infatti, l’atteggiamento di Joyce e quello di O’Brien appaiono assimilabili. Entrambi, infatti, rigettano il ripiegamento nazionalista e comprendono l’importanza di un’apertura all’esterno, all’Europa. È stato, infatti, riconosciuto come Joyce, oltre al rifiuto di un imperialismo soffocante, rappresentato dal governo britannico e dalla Chiesa cattolica, si fosse adoperato anche nel contrastare un nazionalismo etnocentrico e xenofobo, quello cioè più ossessionato dalla purezza culturale.64

64 Un buon esempio di questa avversione viene offerto nel dodicesimo capitolo di Ulysses, “Cyclops”,

in cui Joyce ironizza sulla visione monologica, ciclopica appunto, di un gruppo di nazionalisti irlandesi, che elogiano la purezza della cultura gaelica. L’effetto parodico viene accentuato quando questi iniziano ad annoverare tra gli illustri ed antichi eroi irlandesi Dante Alighieri, Napoleone Bonaparte o Cristoforo Colombo.

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D’altro canto, però, la reazione dei due scrittori a questo fenomeno e le scelte da loro compiute sul piano personale, sono profondamente differenti, in quanto O’Brien non condivide assolutamente la scelta joyciana dell’esilio e decide piuttosto di fustigare i mali dell’Irlanda osservandoli dall’interno. Joyce resta per lui l’emblema dell’intellettuale modernista la cui scelta artistica elitaria non può incidere nella realtà: da qui, la volontà di decostruire la figura e il mito joyciani attraverso la satira, che in

The Dalkey Archive si fa scoperta e particolarmente pungente. Essa attacca non

soltanto la persona ma anche le opere, attuando sulla persona di Joyce una vera e propria forma di tortura.

Innanzitutto il personaggio introdotto da Mick non ha niente a che fare con l’uomo descritto nelle biografie ufficiali, determinato e pieno di sé. Qui Joyce è un mite e remissivo barista di provincia, non particolarmente dedito all’alcool e, cosa ben più sorprendente, è un assiduo frequentatore delle celebrazioni eucaristiche. È quindi un cattolico fervente, che scrive addirittura pamphlets religiosi, desiderando segretamente di poter entrare nella Compagnia di Gesù. L’operazione di O’Brien è evidentemente quella di scardinare le certezze su Joyce consolidatesi negli anni, ma soprattutto di smentire tutti i principi che per cui aveva lottato per una vita intera.

La punizione più grande che potesse essere inflitta ad un artista così illustre non poteva che essere quella di privarlo del suo ineguagliabile dono, ovvero la capacità artistica. Il Joyce del romanzo rinnega la paternità di molte delle sue opere, ritenendole licenziose, e addirittura prova imbarazzo per l’attenzione che esse hanno ricevuto dalla critica. Ammette solo di aver composto Dubliners, ma in stretta collaborazione con l’amico Gogarty, non riconosce in Finnegans Wake il titolo di una sua opera e ammette addirittura di avere problemi di linguaggio. La totale distruzione di questo mito letterario avviene, però, nel momento in cui egli smentisce in maniera categorica di aver scritto l’opera per eccellenza del suo canone, Ulysses: “I have heard more than enough about that dirty book, that collection of smut, but do not be heard saying that I had anything to do with it”.65 Joyce racconta che quella pubblicazione a suo nome era avvenuta grazie ad una donna, Sylvia Beach, che, innamoratasi di lui, aveva deciso di renderlo famoso, attribuendogli quel libro, realizzato in realtà da “various low, dirty-

65 FLANN O’BRIEN, The Dalkey Archive, Flamingo, London 1993, p. 165. A questa edizione fa

riferimento la numerazione delle pagine riportate, dopo la sigla DA, in parentesi ad ogni citazione dal romanzo.

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minded ruffians, who had been paid to put this material together. Muck-rakers, obscene poets, carnal pimps, sodomous sycophants, pedlars of the coloured lusts of fallen humanity” (DA, p. 167). Allo scrittore era casualmente capitato di leggerne qualche frammento “about some woman in bed thinking the dirtiest thoughts that ever came into human head” (ivi) e ora non poteva esimersi dal denunciarne la volgarità e il cattivo gusto, tanto da definire il testo come “pornography and filth and literary vomit” (ivi). Il processo di demistificazione dell’arte joyciana consente a O’Brien di svilirne il mito, di mettere in dubbio la capacità del suo predecessore di ergersi a portavoce delle istanze di rinnovamento di un intero popolo.

Questo intento viene perseguito ulteriormente ribaltando a livello della finzione narrativa il rapporto che, nella realtà, Joyce aveva stabilito con la religione. Storicamente questi era sempre stato molto critico verso il mondo ecclesiastico: le relazioni con la Chiesa cattolica erano state sempre molto tese e si erano inasprite a tal punto da sfociare nella decisione giovanile di abbandonare la fede, pur non affrancandosi mai dall’ossessione religiosa. Sul finire di A Portrait of the Artist as a

Young Man, Joyce, tramite il suo alter ego Stephen, esprime perentoriamente la propria

posizione:

You have asked me what I would do and what I would not do. I will tell you what I will do and what I will not do. I will not serve that in which I no longer believe, whether it call itself my home, my fatherland, or my church.66

Il “non serviam” joyciano viene radicalmente smentito in The Dalkey Archive, in quanto il personaggio qui presentato è caratterizzato da un’ardente religiosità, tanto che le uniche opere da lui realizzate sono di stampo religioso, avendo egli addirittura deciso di unirsi all’ordine dei gesuiti. Il suo proposito è quello di riformare la Chiesa dall’interno, liberandola dall’idea dello Spirito Santo quale terza persona della Trinità. Per raggiungere questo scopo chiede di essere presentato ad un certo Father Cobble. Proprio l’incontro tra i due rappresenta il culmine umoristico dell’intero romanzo, in quanto il padre gesuita, data l’indisponibilità della comunità ad accogliere nuovi membri, dichiara di poter ammettere Joyce soltanto come rammendatore della biancheria intima dei confratelli. Il punto più basso dello svilimento dello scrittore è raggiunto: O’Brien, condannando Joyce ad un ruolo così mortificante, infligge la

66 JAMES JOYCE, A Portrait of the Artist as a Young Man, Penguin, Aylesbury 1971, p. 247.

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giusta punizione a colui che, a suo avviso, si era spinto “further than Satan in rebellion”.67 Il suo peccato era stato proprio quello di aver abbandonato la patria, quando essa avrebbe avuto più bisogno di un sostegno, per ripiegare totalmente sulla dimensione dell’arte, perdendo così il contatto con la realtà. Se, dunque, il primo O’Brien aveva apprezzato l’arte di Joyce per la sua determinazione a reagire alle imposizioni culturali messe in atto dal Celtic Revival, successivamente ne aveva evidenziato la presunzione nella volontà di trovare valori assoluti esclusivamente nell’arte, dimenticandosi della realtà.