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A livello strutturale, nelle opere di O’Brien sono molti gli elementi che contribuiscono a trasmettere livelli ulteriori di significato e che soprattutto assumono un valore determinante per l’interpretazione del testo. Per tale motivo, anche nella stesura di questo romanzo, O’Brien sceglie nuovamente di non lasciare nulla al caso ma, al contrario, di studiare bene ogni dettaglio a cominciare dal paratesto, capace di trasmettere molteplici valenze intertestuali e macrotestuali. La prima componente da prendere in considerazione è senz’altro il titolo, che essendo l’elemento più diretto con il quale il lettore entra in contatto, deve risultare accattivante per suscitarne l’interesse. Per questa nuova realizzazione letteraria l’autore opta per The Hard Life, mettendo in piedi un curioso gioco di rimandi tra le sue opere. Non può essere infatti un caso il fatto che il sottotitolo del romanzo precedente, The Poor Mouth, fosse proprio “A bad story about the hard life”. L’ultima fatica di O’Brien si propone, quindi, come una continuazione, quanto meno nelle intenzioni, della precedente. La volontà è sempre quella di rappresentare le difficoltà affrontate dalla popolazione, mettendone duramente alla prova la resistenza, ma soprattutto la capacità di reagire. Lo scrittore, però, non intende dare nuovamente spazio alle avversità legate ad una condizione di indigenza materiale, come quella illustrata in The Poor Mouth per gli abitanti di Corkadoragha. Sceglie piuttosto di dare corpo ad un disagio ben più radicato, ad una povertà di affetti, di interessi e di passioni, che va ben oltre il mero problema economico e che difficilmente può essere estirpata.

Dall’inizio alla fine della narrazione domina un’atmosfera di profondo squallore che caratterizza non solo i personaggi con le loro infime ossessioni, ma anche la società, incapace di emanciparsi da questa condizione. Altrettanto vale per le ambientazioni, che diventano palcoscenico privilegiato di circostanze sordide. Anche per questo, O’Brien ritiene opportuno aggiungere un sottotitolo che rimandi a questo stato di cose, optando per “An Exegesis of Squalor”. Pure in tale elemento del paratesto è possibile riconoscere un riferimento ad un altro romanzo precedente, The Third

Policeman, in cui si è visto come lo scrittore avesse cercato di destrutturare le modalità

intrinseche all’attività esegetica, pervadendo l’intera opera con precarie e discutibili interpretazioni dell’opera deselbiana. The Hard Life riprende questo motivo portando avanti un tentativo di analisi e di interpretazione della realtà, cercando anche di

esplicitare ciò che si nasconde dietro le cose non dette, dietro chi, temendo le parole, si autocensura, celando la propria vera natura in un pudore linguistico al quale non corrisponde altrettanta pudicizia e limpidezza interiore.

Un esempio di ciò si ha osservando l’atteggiamento di Finbarr nei confronti della sessualità. Il personaggio sembra mostrare una ritrosia molto innocente, evitando di affrontare in maniera diretta qualsiasi aspetto concernente il sesso, non pronunciando cioè mai parole ricollegabili a questa sfera. Ciò non implica, tuttavia, che i pensieri o gli atteggiamenti del giovane rispecchino questa pudicizia esteriore ed è lui stesso ad ammetterlo dopo aver tentato biecamente di sedurre Penelope:

What was the meaning of this thing sex, what was the nature of sexual attraction? What was Annie doing late at night, standing in a dark place with young blackguards? Was I any better myself in my conduct, whispering sly things into the ear of lovely and innocent Penelope? Had I, in fact, at the bottom of my heart dirty intentions, some dark deep postponed only because the opportunity had not yet presented itself (HL, p. 111).

Lo scopo che si pone il romanzo è quindi di smascherare lo squallore che si nasconde dietro ogni tentativo di edulcorare la realtà o la propria vera natura.

Un caso ancora più eclatante è quello che riguarda un vero e proprio tentativo di esegesi biblica da parte di Manus, che cerca di interpretare razionalmente una circostanza piuttosto controversa tra le vicende presentate nella Genesi, sulla quale Collopy e Father Fahrt avevano deliberatamente glissato:

- Excuse me, Father Fahrt. - Yes, Manus?

- The wife of Adam in the Garden of Eden was Eve. She brought forth two sons, Cain and Abel. Cain killed Abel but afterwards in Eden he had a son named Henoch. Who was Cain’s wife?

- Well, Father Fahrt said, there has been disputation on that point already.

- Even if Eve had a daughter not mentioned, she would be Cain’s sister. If she hadn’t, then Cain must have married his own mother. Either way it seems to be a bad case of incest.

- What sort of derogatory backchat is that you are giving out of you about the Holy Bible? Mr Collopy bellowed (HL, p. 54).

Trasformare il racconto del Giardino dell’Eden in una sordida storia di incesto è forse uno dei mezzi più efficaci utilizzati da O’Brien per dare voce alla volontà esegetica del libro, che intende smascherare il degrado insito nella società irlandese. La reazione piccata di Collopy alla conclusione di Manus è però abbastanza esemplificativa dell’atteggiamento negazionista adottato dalla maggior parte dei rappresentanti nazionali i quali, pur di non ammettere di aver ceduto ad un inarrestabile declino

morale, preferivano nascondersi dietro parole altisonanti ma vuote e atteggiamenti ipocriti e preconfezionati.

L’apparato paratestuale è piuttosto ricco e, aldilà del titolo e del sottotitolo, anche altri elementi come la dedica, l’avvertenza al lettore e l’epigrafe giocano un ruolo importante nelle dinamiche interpretative. La dedica, ad esempio, già introduce l’atmosfera che si respirerà all’interno del romanzo insieme ad alcune caratteristiche chiave della narrazione. Qui l’autore si rivolge a Graham Greene, che in passato era stato uno dei pochi estimatori di At Swim riconoscendone la carica rivoluzionaria, e afferma: “I honourably present to GRAHAM GREENE whose own forms of gloom I admire, this misterpiece”. L’autore dà immediatamente sfoggio della sua capacità di dominare il linguaggio e divertirsi con esso, creando il pun finale attraverso un cambio vocalico che trasforma il termine “masterpiece” in “misterpiece”. In questo modo O’Brien fa un’apparente professione di modestia, dando quasi l’impressione di non sentirsi all’altezza delle aspettative del suo fedele ammiratore, rinunciando all’idea di poter realizzare un capolavoro o di ritenersi un autore, preferendo riferirsi a sé con il titolo di “mister”. Questo atteggiamento così dimesso sembra non avere nulla a che fare con la sua vera personalità: egli non si era mai fatto grossi scrupoli nel riconoscere le proprie doti artistiche, ritenendosi perfino vincente nel confronto con Joyce. Potrebbe semplicemente aver aderito pertanto alle modalità previste dal cleuasmo, figura retorica particolarmente cara agli oratori che usavano sminuirsi attraverso professioni di umiltà soltanto per attirare più facilmente le simpatie dell’uditorio.5 O’Brien si pone forse in questa posizione dimessa per cercare di non infastidire ulteriormente il lettore con inutili autocelebrazioni, date le tematiche un po’ delicate che sta per toccare. Attirandosi la loro simpatia, può pure sperare di riuscire nell’intento di condividere i principi polemici offerti nel romanzo.

Le atmosfere cupe caratterizzanti la scrittura di Greene (forms of gloom), verso le quali O’Brien mostra ammirazione, vengono rievocate attraverso la radice “mister”,

5 Altro elemento a conferma di questa ipotesi potrebbe essere il fatto che uno dei più sublimi esempi

di cleuasmo è rappresentato all’interno delle Lettere Provinciali di Blaise Pascal, opera nella quale l’autore francese interroga dei sapienti teologhi con simulata umiltà. Non a caso Pascal è anche l’autore della citazione posta ad epigrafe di The Hard Life. Inoltre le Lettere Provinciali rappresentano uno dei maggiori esempi di polemica teologica dell’età moderna, in cui l’autore si scaglia contro i gesuiti. Esattamente quello che fa anche O’Brien nel suo romanzo, dove abbondano le critiche rivolte a quest’ordine.

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con la quale lo scrittore sembra voler mostrare la volontà di indagare il “mystery” dell’uomo e della realtà, ovvero quella parte oscura che viene tenuta sempre nascosta, ma che è tassello integrante dell’essere e del mondo. Anche il traduttore Daniele Benati nella versione italiana del romanzo sottolinea abilmente l’atmosfera “gloomy” che caratterizza l’opera grazie alle frequenti immagini di degrado, mantenendo il gioco linguistico ideato da O’Brien e traducendo “misterpiece” con “cupolavoro”.6 Infine il prefisso “mis-”, tipicamente usato per indicare negazione o errore, potrebbe richiamare il tema dell’errore, anch’esso leitmotiv di The Hard Life. In errore cadono spesso i personaggi: a volte per lacune di memoria, altre per ignoranza o perché ostentano una falsa cultura, diventando così oggetto di scherno per l’autore e testimonianza dei limiti che affliggevano il contesto irlandese.7

Con l’avvertenza rivolta ai lettori, invece, si afferma nuovamente lo humour dello scrittore. Essa infatti recita: “All the persons in this book are real and none is fictitious even in part”. Si offre qui una parodia della formula tradizionale usata per sottolineare la fictionality di personaggi ed eventi di libri o film e che, tra l’altro, era stata inserita all’inizio di At Swim. Lo scopo di O’Brien è probabilmente sempre quello di mostrare la sua volontà di opporsi alla norma, di combattere un sistema nel quale si sente limitato e che vorrebbe sovvertire. Proprio quello che avrebbe voluto fare con il “sistema Irlanda”, a suo avviso guasto e bisognoso di una nuova spinta propulsiva. Ciò che a lui premeva non era più la realizzazione di un’opera “entirely fictitious”, in cui il potere dell’immaginazione regnasse sovrano e che potesse dimostrare le sue straordinarie doti di scrittore, come era avvenuto negli anni giovanili. Con l’avanzare dell’età e con il raggiungimento di una maggiore maturità e consapevolezza artistica, l’asticella si era alzata e aveva sentito la necessità di approdare ad un tipo di narrativa più realistica, usando personaggi e fatti concreti, nei quali qualsiasi lettore potesse riconoscersi. La realizzazione letteraria assunse insomma per O’Brien una funzione molto più educativa che estetica, poiché egli desiderava che i lettori potessero rivedersi nella realtà romanzesca, prenderne consapevolezza e imparare magari anche a metterla in discussione. Solo parlando dei mali concreti che affliggevano l’Irlanda, incarnandoli

6 FLANN O’BRIEN, Vita dura, trad. it. Daniele Benati, Neri Pozza Editore, Vicenza 2009.

7 Mr. Collopy, ad esempio, commette errori fin dal suo ingresso nella narrazione quando, ostentando

erudizione, pretende di spiegare ai ragazzi il significato dei loro nomi. In particolare per Manus afferma: “in the Latin Manus means big” (HL, p. 17), confondendosi evidentemente con il termine esatto “magnus”.

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in personaggi più o meno riconoscibili, si sarebbe potuto trovare una soluzione comune per debellarli.

L’avvertenza però può anche essere interpretata come un modo per mettere in risalto la complessa contaminazione tra fact e fiction che si sviluppa all’interno del testo. Nel momento in cui un lettore si appresta a leggere un romanzo, sa bene che non tutto può corrispondere alla realtà, trattandosi comunque di un’opera di finzione. La possibilità però di imbattersi in personaggi o fatti riconducibili alla sfera del reale o al proprio background di vita e di esperienze può offrire uno stimolo in più per lasciarsi coinvolgere dalla lettura.8

L’ultimo elemento del paratesto da prendere in considerazione è l’epigrafe, nella quale viene proposta una citazione tratta dai Pensées del filosofo francese Blaise Pascal, testo che nelle intenzioni dell’autore doveva essere una monumentale opera apologetica, in cui si difendeva il Cristianesimo dai suoi principali nemici. Prima ancora di conoscere la vera e propria epigrafe, pur citandone solo la fonte, è possibile creare un collegamento con uno degli argomenti centrali dell’acceso dibattito che intercorre tra Mr. Collopy e Father Fahrt. Il primo, infatti, vede come principale minaccia al Cristianesimo e ai suoi valori non tanto gli ebrei, gli atei, i musulmani o i libertini, presi di mira da Pascal, quanto piuttosto la dilagante corruzione dell’ordine dei gesuiti, al quale appartiene il secondo. Vista da questa prospettiva, O’Brien potrebbe avere sfruttato la modalità apologetica di Pascal per un tentativo di risanare la Chiesa d’Irlanda, da difendere dalla sempre più ingombrante presenza gesuitica.

L’epigrafe vera e propria, comunque, evidenzia anche altri aspetti e recita: “Tout le trouble du monde vient de ce qu’on ne sait pas rester seul dans sa chambre”. In questo passo il filosofo francese addebita la ragione dell’insoddisfazione e della mediocrità umana a quell’atteggiamento di perpetua inquietudine, d’incessante ricerca di qualcosa all’interno di una realtà caotica, che spinge a trascurare il momento della contemplazione e soprattutto della ricerca di se stessi. È quello che sembra accadere a Manus, spinto dalla sua esasperata intraprendenza ad affrontare sempre nuove sfide. Questa inquietudine perenne è la causa della sua incapacità di sostenere relazioni umane stabili e disinteressate, ma soprattutto delle principali disgrazie della sua

8 Non a caso il Papa che accoglie a Roma Mr. Collopy e il suo seguito è Pio X, che esercita il suo

pontificato proprio negli anni in cui è ambientata la vicenda.

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famiglia. Un atteggiamento più contemplativo gli avrebbe forse permesso di comprendere meglio la strada da percorrere e fin dove potersi spingere con le proprie capacità.

Con i Pensées Pascal aveva inoltre cercato di persuadere tutti gli infedeli della superiorità del Cristianesimo sulle altre fedi per indurli alla conversione. Questo aspetto pare rispecchiarsi ironicamente nell’attività quasi profetica di Manus, che però si applica principalmente a convertire lo scettico fratello alla sua dottrina imprenditoriale e a convincere gli ingenui clienti dell’efficacia delle sue invenzioni. L’epigrafe rimanda anche chiaramente all’atteggiamento dello studente in At Swim-

Two-Birds, che aveva scelto volontariamente di isolarsi dal mondo per dedicarsi

all’attività letteraria, in piena osservanza delle modalità previste dalle “Bardic Schools”, dove tutta l’opera creativa si concentrava all’interno delle camere da letto. Probabilmente O’Brien sta implicitamente avvertendo il suo lettore che, con The Hard

Life, intende tornare a consacrarsi a un’attività letteraria più tradizionale, circoscritta

e solitaria come quella romanzesca, rispetto all’eccessiva socialità di quella pubblica di carattere giornalistico. Per Pascal, però, l’isolamento doveva andare di pari passo con la rinuncia alle lusinghe dell’immaginazione e forse per questo in The Hard Life lo scrittore opta per uno stile molto più serio e concreto, distante dalle fantasticherie giovanili.

Se si volesse invece ulteriormente ampliare l’interpretazione di questo elemento del paratesto, si potrebbe leggerlo anche come un tentativo di realizzare un’indagine psicologica di Joyce. Quest’ultimo, forse tormentato da una profonda inquietudine e insoddisfazione per le dinamiche interne alla nazione, e sentendo la necessità di affrancarsi dalle catene che lo legavano alla madrepatria, aveva scelto di abbandonarla per diventare un artista maturo, di lasciare la sua “stanza” (l’Irlanda appunto) per confrontarsi con il mondo. La decisione di recidere le proprie radici rappresentava per O’Brien, rimasto invece ostinatamente ancorato alle origini, un tradimento della propria identità e della propria essenza, che non poteva non generare un profondo senso di turbamento nell’animo di Joyce.

L’ultima nota di rilievo di questa epigrafe parte sempre da una considerazione collegata al contenuto dei Pensées, in cui l’autore aveva operato una suddivisione tra le cause della miseria umana e gli elementi che invece ne avrebbero garantito la

grandezza.9 Il fatto che O’Brien avesse optato per una citazione tratta proprio dalla sezione sulla “Misère de l’Homme”, poteva essere un primo indizio dello scopo di questa nuova indagine contenuta nel romanzo: evidenziare l’immiserimento di un’umanità prigioniera delle proprie ossessioni e incapace di trovare conforto nella serena accettazione dei propri limiti, condannata per questo a vivere in una tragica situazione di squallore materiale ma soprattutto morale.