E SPAZI A VERDE (2° parte)
1. TERRITORIO AGRICOLO E PAESAGGIO
1.3. Il territorio agricolo come segno di cultura
La tesi che si presenta in questo punto è del seguente tenore: il territorio agri-colo o, se si preferisce, con un'accezio-ne di più ampio respiro, il territorio
extra-urbano nella sua totalità, è un se-gno di cultura. Poco importa che gli specifici segni che lo connotano siano opera dell'uomo o che siano riferibili, in tutto od in parte, a componenti na-turali.
La tesi non può prescindere, nel suo sviluppo, da una considerazione preli-minare, per certi versi scontata, per al-tri assai meno. Riprendendo un'osser-vazione già tratteggiata a proposito del territorio extra-urbano, si ricorda che il territorio agricolo è in primo luogo uno spazio produttivo.
Il suolo, che è il cuore della produzio-ne agricola, vieproduzio-ne lavorato, concimato, irrigato, seminato, piantato, o sempli-cemente usato per quel tanto o poco che può produrre, com'era nel caso dei pascoli originari, poi anch'essi assettati con opere permanenti per governare con più profitto la resa.
Figg. 3/7. L'antico centro rurale ha solitamente nella chiesa parrocchiale
il polo dell'attenzione simbolica.
In terre di feudo un altro simbolo importante è H castello o la dimora nobiliare,
il palazzo o la villa.
Qui abbiamo una grande chiesa ed una villa barocche, oltre il castello, riplasmato in residenza:
un complesso architettonico emergente sul vecchio borgo agricolo, segno di prestigio, potere, ricchezza, dominio sulle modeste case che ancora compongono l'agglomerazione originaria. (Vide, pr. TorinoI.
In quanto spazio produttivo il territo-rio agricolo è un bene economico che va utilizzato al meglio. Un concetto, questo, che sembra tanto ovvio da non meritare ulteriori commenti. Eppure ovvio non è, come ben dimostra lo sfa-scio di tante parti del territorio, causa-to dalle urbanizzazioni selvagge, o, al-l'opposto, dall'abbandono, che è
pre-messa all'inselvaticamento di regioni un tempo operose.
Va dato atto che porzioni consistenti del territorio agricolo, con le quali si devono fare i conti in questo estremo scorcio di secolo, sono profondamente cambiate, specialmente nel corso degli ultimi decenni.
Aree sempre più vaste sono state inte-ressate dai fenomeni urbanizzativi, i cui segni figurali si colgono un poco ovunque, anche a notevole distanza dai luoghi d'onde traggono origine i feno-meni stessi.
Nel territorio agricolo si sono sostitui-ti, accostasostitui-ti, sovrappossostitui-ti, ai segni tra-dizionali, altri di gran lunga più forti incidenti e vistosi, spesso sconvolgenti nei confronti dei primi.
Ai guasti figurali recati dall'intrusione violenta dei nuovi segni nel preesistente tessuto territoriale, si sommano i danni prodotti dal disordine, dalla imperizia, dalla rovinosa rapidità degli interventi effettuati nel periodo recente, in gran-dissima misura estranei ai reali interes-si del mondo agricolo.
Molto semplicemente si è abusato per dritto e per rovescio del territorio, sen-za pensare minimamente agli effetti: un atteggiamento suicida, che ha invi-schiato parecchi paesi, e particolar-mente quelli che per abito culturale erano meno preparati a reggere l'onda d'urto provocata dalle trasformazioni indotte da un'industrializzazione inten-sa ed accelerata. In tali paesi il territo-rio agricolo era considerato, da politi-ci, imprenditori, proprietari, persino da frange non minoritarie della cosid-detta «cultura» che conta, spazio da sfruttare in massimo grado, senza troppo sottilizzare sull'uso che se ne faceva o che si intendeva farne. Poche plaghe sono uscite indenni dal-l'applicazione di questa regola, umoro-sa di terribili guai sul piano ecologico, economico, sociale, come ben hanno dimostrato i fatti che ne sono seguiti, e di cui paghiamo, e chissà per quanto tempo ancora pagheremo, le conse-guenze.
V'è peraltro da rilevare come, dopo anni di incuria e disattenzioni nei con-fronti del territorio agricolo, finalmen-te si stia registrando una inversione di tendenza. L'agricoltura è nuovamente
considerata un settore di tutto rispetto e il mestiere dell'agricoltore, del con-tadino, è rivalutato nella professiona-lità e nel prestigio della gente. Si discute a destra ed a manca di politi-che agrarie, di provvidenze e di modi per aumentare la produttività, la sicu-rezza e il benessere sociale dei produt-tori, i margini di utile attraverso la commercializzazione dei prodotti, per promuovere e diffondere l'impiego di tecniche d'avanguardia, le ricomposi-zioni fondiarie, il recupero alla produ-zione delle terre incolte, ecc. Insom-ma, ci si è accorti, seppure in ritardo, che dell'agricoltura non si può fare a meno.
Ed anche il territorio, che del settore è materia prima e laboratorio di perma-nente sperimentazione, è riproposto al centro delle cure ed è tutto un a f f a n n o per cercare le maniere, gli strumenti, i mezzi capaci di utilizzarlo con intelli-genza e la dose di perizia che esso ri-chiede.
Il cenno all'intelligenza e alla perizia non è casuale. Non basta, infatti, che del territorio agricolo si faccia un uso corretto, rapportabile alle «naturali» capacità produttive del suolo, quali ri-sultano dalle analisi compiute con me-todi scientifici dagli esperti del settore: occorre anche, con uguale impegno, porre attenzione al fatto che il territo-rio agricolo, almeno nei paesi di antica antropizzazione, è un bene con robuste e diffuse valenze culturali. In un certo senso è il segno della storia. Ne sono testimonianza i segni, e sono tanti, che ancora si colgono, isolati o associati che siano, e — globalmente — il pae-saggio agrario, risultanza di sofferte vicende plurisecolari, del succedersi di storie che hanno coinvolto generazioni di uomini, ricchezze e miserie, potenti e vagabondi, sapienti e analfabeti, fa-cendoli tutti — chi più chi meno — compartecipi del susseguirsi delle tra-sformazioni, sedimentate nella miriade di segni, appunto, che ne ricordano le azioni5.
In quanto espressione di cultura il ter-ritorio agricolo è un bene che non può essere trasformato purchessia, badando esclusivamente al profitto che se ne può trarre e trascurando o ignorando le preesistenze.
garantisce al coltivatore i guadagni che gli spettano.
Se cosi fosse, però, molte delle preesi-stenze che appaiono come significanti del territorio agricolo, non possono es-sere considerate immodificabili. Non lo sono le colture, né le antiche divisioni dei terreni coglibili nei fossati, nei re-cinti, nei filari di alberi e di siepi, e neppure le strutture insediative, peral-tro essenziali nel connotare parecchi degli odierni paesaggi agrari.
Si pensi, al riguardo, a tante parti del-la regione piemontese, il cui volto è stato pressoché totalmente mutato ne-gli ultimi dieci-vent'anni, pur rimanen-do quasi intatto il loro carattere agri-colo.
Campi diventati pascoli permanenti, stalle e tettoie prefabbricate erette per il riparo degli animali, campi e prati trasformati in frutteti; ampi tratti di baraggia dissodati e ordinati in risaia, vigneti trasformati in noccioleti, filari di gelsi in filari di pioppeti, prati in pioppeti, pioppeti in risaia. Sono rima-sti i sedimi delle antiche strade vicinali e poderali, ma nemmeno sempre, men-tre nelle montagne la scomparsa o la labile traccia di sentieri e mulattiere ri-marcano il lungo abbandono, al pari dei muri a secco che delimitavano i fondi chiusi dei campi di segala e di orzo; delle baite e di interi villaggi ca-denti; dei terrazzi dei vigneti. Trasfor-mazioni pesanti hanno subito i fabbcati, talora sfasciati nelle strutture o ri-dotti a ruderi perché inservibili, talal-tra sostituiti dalla villetta e dalla stalla prefabbricata, o completamente rifatti per adattarli ai nuovi bisogni.
Ancora più marcate le trasformazioni degli antichi borghi, villaggi e casali che costellano poggi e crinali di colline e versanti di monti, si snodano a grani di rosario nei fondovalle delle Alpi, si svolgono a rete in ampi tratti della pia-nura, segnando il paesaggio di tratti inconfondibili. Quel tal paesaggio che, nell'espressiva immagine dell'ambascia-tore veneto Foscarini nel lontano 1743, dava al Piemonte «l'aspetto di per gran quantità di miglia una sola città»6.
Orbene, la più parte dei luoghi ove so-no borghi, villaggi e casali è stata sot-toposta ad un trattamento intensivo di Il nocciolo della questione sta nel saper
conciliare le esigenze produttive, condi-zionate dal mercato, dai mezzi tecnici, dal contesto sociale e politico, con quelle derivanti dal rispetto delle pre-esistenze, che è problema squisitamente culturale, prima ancora che normativo o di piano. La questione ha sollevato e solleva perplessità, spesso opposizione da parte dei diretti interessati (il mon-do agricolo in genere), solitamente po-co inclini a sottostare ai po-controlli e alle direttive che a rigore ogni norma e pia-no comporta.
Si obietta, non del tutto a torto, che la produttività del settore agricolo non può prescindere da una larga disponi-bilità ad adeguare le colture alla do-manda, quindi ad impiegare con la ne-cessaria elasticità i terreni alle coltiva-zioni che il mercato richiede. Tanto maggiore è questa disponibilità, in uno con la suscettività di un'area ad acco-gliere coltivazioni diverse, tanto più si
| Tigg. 8/14. Borghi e villaggi, in montagna, ] sembrano aggrappati alla roccia:
] aggregati di cellule quasi sempre j di piccole dimensioni, i tetti a capanna | coperti di «/ose», serrati in uno spazio I ridotto all'osso, paiono fondersi nell'ambiente, I tra te rocce, i prati, i boschi.
j Nel villaggio montano anche il segno più distintivo, I 'a chiesa, è assorbito dal tutto,
condivide esteriormente la sorte comune. IStroppo, fig. 8; Crissolo borgo, figg. 9-10; alcuni nuclei di Caste/magno, figg. 11, 12, 13, 14: pr. Cuneo).
riplasmazione come mai in passato, anche quando era massiccia la crescita demografica o erano percorsi da di-struzioni e rovine per cause di guerra (ed il Piemonte, tra Sei e Settecento, di eventi del genere ne subì parecchi e di gravità eccezionale). Si è riplasmato dentro l'originaria struttura, demolen-do e ricostruendemolen-do, ristrutturandemolen-do e riammodernando senza troppi riguardi i vecchi edifici, si è a man bassa co-struito a ridosso e nel contorno, sciori-nando nell'uno e nell'altro caso i triti e tristi repertori dell'edilizia più conven-zionale, sconcertante nella sua ripetiti-va banalità7.
Il risultato di questi interventi docu-menta quali e quanti guasti irreparabili si possono recare all'ambiente, agli an-tichi e delicati profili, alle superfici d'assieme, agli spazi esterni che erano di sostegno — nella loro integrità pae-sistica, topografica e colturale — alla struttura insediativa.
Ovvio che tali guasti abbiano a spicca-re maggiormente nei territori orografi-camente accidentati, dove il paesaggio, percepibile da angolazioni, punti e li-nee d'osservazione che riflettono con-dizioni altimetriche differenti, comuni-ca immagini e induce sensazioni di va-ria forza e intensità.
Siffatte situazioni sono particolarmente frequenti in Piemonte, regione notoria-mente complessa sotto il profilo oro-grafico. Intere subregioni storico-geo-grafiche8 ne sono interessate: da quelle collinari del Basso ed Alto Monferra-to, dell'Astigiano, delle Langhe, del Canavese centrale, del Verbano e del Cusio, delle propaggini preappennini-che del Tortonese, del Novese e dell'O-vadese, a quelle montane dell'arco al-pino e dell'appennino ligure, delle fa-sce di piano prospicienti i colli langa-roli e monferrini lungo i fronti fluviali del Tanaro e del P o rispettivamente, e quelli prealpini tra Cuneo e Torino e tra Ivrea e la Valsesia.
Qui, più accentuatamente che altrove, sono evidenti, e di immediata percezio-ne, gli stravolgimenti apportati al pae-saggio agrario della regione: talvolta macroscopici ed estesi, tanto da ren-derlo pressoché irriconoscibile nel giro di pochissimi anni, talaltra concentrati su aree ristrette, coincidenti o di poco
più ampie delle originarie strutture ag-glomerate, o allungate su un'unica di-rettrice, com'è nel caso delle valli. Questi disastri, paesaggistici ed ecolo-gici insieme', non escludono affatto che ancora sussistano, un poco ovun-que, le condizioni per riannodare le trame sfilacciate del paesaggio agrario, restituendogli qualità non solo formali di dignitosa vivibilità, senza con ciò ri-nunziare agli adattamenti richiesti dagli aggiornamenti tecnologici, produttivi, culturali, propri dei dinamismi di cui si nutre una società in evoluzione. Personalmente ritengo, anzi, che altre ed ulteriori trasformazioni interverran-no in futuro. È addirittura probabile che ci si trovi alla vigilia di consistenti modifiche del territorio agricolo: la legge sui patti agrari appena approva-ta, i movimenti di opinione pubblica contro la fame nel mondo da un lato e per una più genuina qualità dei pro-dotti agricoli dall'altro, la stessa spie-tata concorrenza del mercato a scala internazionale, le imporranno. Tant'è, quindi, che si prenda atto fin d'ora, nella consapevolezza che il guidarle ed orientarle, salvaguardando nel contem-po le residue tracce del paesaggio sto-rico, ripaga abbondantemente il sacri-ficio della rinunzia ad una piccola parte delle libertà individuali10 e dei maggiori costi economici che la collet-tività nazionale sarà costretta ad accol-larsi.
Un paesaggio «civile» nella globalità dei suoi componenti, implica infatti dei costi aggiuntivi sulle varie operazioni che si debbono compiere per realizzar-lo. Una di tali operazioni, elementare quanto trascurata, consiste nell'analisi storico-critica delle preesistenze, natu-rali ed antropiche, finalizzata alla indi-viduazione degli oggetti e degli ambiti da tutelare, alla determinazione dei li-velli della tutela e, congiuntamente, al-la precisazione dei caratteri e delle mo-dalità d'intervento da praticare in ogni parte del territorio.
Altri costi si renderanno necessari per esplicare attivamente la conservazione di quegli oggetti ed ambiti particolar-mente significanti dal punto di vista culturale e per i quali il livello della tutela è più elevato. Tra i tanti pro-ponibili se ne citano alcuni, scelti fra
quelli che ricorrono di più in Pie-monte:
a) aree rappresentative di antiche e ir-ripetibili pratiche colturali (ad esem-pio, terrazzamenti a vigneto nell'alta collina e nelle medie e basse valli alpi-ne; campi chiusi presso e attorno a vil-laggi montani; baite, nuclei di insedia-menti temporanei a pascoli d'alta quo-ta; brani di boschi cedui in aree colli-nari a colture legnose specializzate); b) strutture insediative isolate e perti-nenze vegetali significative di modelli sociali estinti o in via di estinzione (ad esempio, ville e castelli con i relativi parchi; le «vigne» della collina torine-se; le cascine a corte della pianura; i pioppi piramidali che segnano l'accesso a cascine e ville della pianura); c) aree che ricordano eventi storici im-portanti, quali battaglie delle guerre sabaude e della lotta partigiana in Pie-monte, episodi salienti delle lotte val-desi;
d) strutture insediative o complessi di strutture insediative isolate e / o enu-cleate, e le relative aree di contorno, che documentano aspetti rimarchevoli della cultura religiosa (ad esempio, Santuari, Sacri Monti, Calvari, ma an-che la fitta rete di cappelle campestri e piloni votivi sette-ottocenteschi che an-cora ornano molte strade della campa-gna piemontese);
e) strutture insediative isolate che testi-moniano l'esistenza di attività econo-miche definitivamente scomparse, in aree agricole di antica industrializza-zione (ad esempio, antiche fornaci di laterizi e di calce; fucine; mulini ad ac-qua, filatoi).
La serie dei tipi di oggetti e aree da considerare agli effetti della conserva-zione potrebbe continuare: elementi tutti del paesaggio agrario che si vor-rebbe integri nella fisicità della materia che li forma, in quanto segni concreti e rappresentativi delle culture che li han-no prodotti. Ad essi vanhan-no aggiunti quegli insiemi di aree ed oggetti isolati nei quali i componenti naturali sono esclusi ed il peso della presenza del-l'uomo è irrilevante o inesistente: se ne parlerà più avanti, trattando dei parchi e delle aree naturali.
Conservare nei loro contenuti sostan-ziali, oltre che negli aspetti formali, gli oggetti e gli ambiti che si collocano in ognuno dei molti tipi possibili, è un'af-fermazione di principio sulla quale si scontrano, da sempre, i protezionisti e le forze sociali interessate. L'interroga-tivo, a chi spetta l'onere della conser-vazione, è rimasto a tutt'oggi senza ri-sposte soddisfacenti.
Di prima intenzione parrebbe che, es-sendo i destinatari della conservazione i cittadini nella loro totalità, debba es-sere la collettività ad assumersi per in-tero l'onere relativo acquisendo i beni da conservare e provvedendo in seguito a mantenerli con opportune operazioni di ripristino, di restauro, di adattamen-to ad usi confacenti alle loro peculiari-tà tipologiche e strutturali. In teoria la soluzione è ineccepibile. D'altronde, decenni di politica vincolistica a carico dei privati, proprietari di beni « protet-ti » " , dimostrano, nei risultaprotet-ti ottenu-ti, quanto poco siano serviti i vincoli ai fini della salvaguardia del patrimonio culturale del paese. Né si può addossa-re la colpa di questo stato di cose ai soli privati, trasgressori, troppo spesso impuniti, delle normative e dei provve-dimenti di vincolo. Altrettante colpe-volezze si debbono attribuire allo Sta-to, responsabile diretto dell'applicazio-ne delle leggi di tutela, ma rivelatosi incapace di gestirle, com'era suo preci-so dovere, con un'organizzazione degli istituti all'uopo preposti efficiente ed adeguata, negli organici e nei mezzi, ai compiti assegnatigli. E colpe ancora maggiori hanno i partiti politici ed il parlamento per la distrazione con cui hanno affrontato il problema, rinvian-do da legislatura a legislatura l'aggior-namento di leggi vecchie di oltre qua-rant'anni e lesinando sui fondi di bi-lancio destinati ai beni culturali, come hanno ripetutamente rilevato i pochi parlamentari che di volta in volta si sono occupati dell'argomentò. Ma, a parte le doglianze e le recriminazioni, sussistono difficoltà oggettive alla pra-ticabilità della tesi della pubblicizzazio-ne gepubblicizzazio-neralizzata dei beni in questiopubblicizzazio-ne, almeno per un periodo non breve. Schematicamente sono:
— l'enorme quantità di beni che for-mano il patrimonio storico-artistico,
ambientale, paesaggistico, archeologico di un Paese dalla storia plurimillenaria come l'Italia, a fronte dell'esiguità del-le risorse finanziarie realisticamente di-sponibili12;
— la mancanza di un censimento rile-vativo dei beni da conservare, da cui far discendere una stima quanto meno sommaria e delle destinazioni possibili, in rapporto alla domanda attuale e prevedibile, e degli oneri che la loro conservazione dovrebbe comportare1 3; — la coesistenza, nel territorio agrico-lo, di beni architettonici e di beni fon-diari, destinati — questi ultimi — ad utilizzazioni economiche in un settore di attività (l'agricoltura) che solo in via eccezionale è esercitato dalla mano pubblica14.
Se, dunque, si esclude la tesi dell'ac-collamento all'ente pubblico dei costi complessivi della conservazione, è leci-to chiedersi chi mai vi potrà rimediare e in quali modi. I privati no di certo, beninteso con le dovute lodevoli ecce-zioni, a meno di una modifica radicale degli attuali regimi di vincolo. Né è pensabile che Stato, Regioni ed enti lo-cali riescano di punto in bianco ad avere tanta grintosa autorità da co-stringerli ad osservare un obbligo, che è di legge, disatteso dai più per troppi anni e che gli stessi enti garanti del suo adempimento, quando proprietari, cosi spesso disattendono per la cronica in-sufficienza di mezzi in cui si dibat-tono1 5.
Ecco allora prospettarsi l'esigenza di un concorso di impegni, pubblici e privati, tesi a promuovere ed a realiz-zare la salvaguardia attiva di tutto il territorio agricolo e, in particolare, delle valenze culturali che su esso insi-stono.
Può a tal fine intervenire Io Stato con esenzioni fiscali calibrate sui costi delle operazioni conservative e con mutui agevolati a favore di Enti pubblici e privati e di privati singoli che si impe-gnino a conservare i beni in proprietà; sempre lo Stato può svolgere un'azione fondante di indirizzo e coordinamento nei confronti delle Regioni, ad iniziare dal procurare metodologie rilevative e di analisi idonee a definire senza ambi-guità i criteri da adottare sia nella fase di censimento dei beni sia in quella, di
gran lunga più onerosa, della scelta dei beni da sottoporre a conservazione prioritaria.
A loro volta le Regioni possono inter-venire assegnando debito spazio, nella programmazione regionale, al tema dei beni culturali ambientali ed alla cura del paesaggio agrario, segnalando a Stato e Comuni i beni da salvaguarda-re e ponendo finalmente mano al cen-simento di detti beni, avvalendosi in toto delle competenze che gli spettano in materia1 6, facendosi partecipi di un'azione promozionale diffusa,