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LE TRASFORMAZIONI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

Nel documento Cronache Economiche. N.003, Anno 1982 (pagine 33-36)

P. Clemente

1. Anche se le urgenze del presente spesso non consentono di soffermarsi nella misura desiderata a riflettere su quanto ci sta intorno, tuttavia vi sono circostanze che, o per ragioni di più se-reno riesame del proprio operare o per la novità imprevista dei problemi, fini-scono con l'obbligarci a pause di medi-tazione. Ed è gran bene che ciò acca-da, specie in relazione all'opportunità di dare senso organico o più generale a singoli e puntuali avvenimenti. Cosi al pubblico operatore, sia esso ammini-stratore o semplice funzionario, con-viene di tanto in tanto fare il punto su talune tematiche, anche di principio, che sembrano meglio caratterizzare lo svolgimento della funzione amministra-tiva o, con termine totalizzante, del-l'attività politica in senso lato. Si tratta quanto meno di problemi che si pon-gono come aspetti riflessi di ottiche politico-amministrative, largamente ed efficacemente interagenti nella fase di concreta attuazione della amministra-zione attiva. Ad un siffatto approccio gnoseologico sembra doveroso acco-starsi specialmente oggi, proprio per-ché si opera in evidente presenza di fe-nomeni di rigetto per tutto quanto sa di pubblico, motivati soprattutto dalla carenza di oggettive condizioni che giu-stifichino l'ingresso massiccio della mano pubblica nei più svariati e diver-sificati settori della vita d'ogni giorno. Giunti a questa prima considerazione, un'altra subito avanza: da anni si di-scute sulla riforma dello Stato, sia esso concepito quale organizzazione centra-le (sono tante centra-le tesi e centra-le pocentra-lemiche sul come emendare la Costituzione, per as-sicurare più omogeneità e maggior go-vernabilità alla guida del Paese), sia in-vece guardato nel suo significato più ampio di «Stato delle autonomie». Quando la problematica di cui discor-riamo viene affrontata sotto quest'ulti-mo profilo, appare abbastanza interes-sante il dibattito in corso a livello poli-tico e di dottrina, per produrre idee e formulare proposte in ordine alla atte-sa riforma delle autonomie stesse. Il nucleo fondamentale del problema è, come è noto, quello di dare al governo locale un assetto armonico rispetto al dettato costituzionale, coerentemente interpretato, spogliato quindi di quelle

bardature assillanti che la visione fasci-sta dello Stato aveva allestito. Tuttavia la riforma, di cui spesso si parla ma di cui con altrettanta frequenza non si ve-de il seguito concreto, è ferma al palo: ed ogni sua periodica indicazione di li-nee contrasta con quanto la precedente aveva lasciato intuire. In una dinamica siffatta ogni intervento parziale e setto-riale (come ad esempio l'attuazione dell'ordinamento regionale, oppure il trasferimento di competenze ai comuni di cui al D.P.R. 616/77) finisce con il porre in essere linee evolutive della concezione statuale che vanno innanzi-tutto vagliate e quindi verificate e me-ditate per trarne la filosofia e le logi-che di coerenza logi-che stanno loro dietro. Siamo a questo punto arrivati al noc-ciolo della questione che più ci preme: quale Stato, quale ordinamento politi-co-amministrativo si sta imponendo nel nostro Paese? La prima risposta che ci viene in mente, abbastanza scontata, è quella di uno Stato voluto dalla Costi-tuzione. Ebbene parrebbe proprio che le cose non stiano esattamente come si suppone. Da più parti, specie nella re-cente dottrina, si viene affermando la tesi di un'evoluzione della legislazione nazionale, tendenzialmente diretta a scostarsi dal modello costituzionale (si-stema pluralistico di soggetti pubblici o di amministrazioni separate) per creare una forma di amministrazione «inte-grata» (questo è il termine usato) che concepisce lo svolgimento delle funzio-ni ammifunzio-nistrative come sistemi policen-trici settoriali.

2. Diciamo qualcosa in proposito, par-tendo dalla produzione normativa degli ultimi anni, ed in particolare dal D.P.R. 24 luglio 1977 n. 616. È ormai pacificamente ammessa l'importanza del tutto eccezionale che tale provvedi-mento ha assunto nell'organizzazione della funzione pubblica in Italia: parti-to come legge di riordino e completa-mento dell'ordinacompleta-mento regionale (ve-dasi opportunamente la L. 382 del 1975), è approdato ad effetti molto più incisivi e pregnanti, specie per quanto attiene l'attribuzione diretta di funzio-ni ai Comufunzio-ni. Caratteristica del D.P.R. in esame è quella di aver asse-gnato ai destinatari del trasferimento e

delle deleghe soprattutto funzioni di «amministrazione» (Comuni e Regio-ni), in parte riducendo lo spazio per le funzioni di «legislazione» (Regioni). A parte il diverso atteggiarsi della legge stessa nell'operare i suddetti trasferi-menti (in maniera minuta e dettagliata per i Comuni, per settori omogenei per le Regioni), se per le autonomie locali la scelta del D.P.R. 616 poteva essere concepita come primo passo verso la tanto attesa riforma, per le Regioni es-sa ha costituito un pees-sante arretramen-to non solo rispetarretramen-to al quadro delle competenze designato dalla Costituzio-ne, ma soprattutto rispetto al potenzia-le sviluppo potenzia-legislativo ivi prefigurato (anche sulla base di talune interpreta-zioni della carta stessa, intesa come «pagina bianca» aperta a successive più univoche indicazioni). In particola-re è venuta meno una delle tesi abba-stanza correnti presso la dottrina pre-valente, quella del possibile riconosci-mento alle Regioni di un loro potere legislativo per la redistribuzione delle funzioni amministrative fra esse stesse, Province e Comuni.

Ma la scelta del D.P.R. citato va an-che guardata sotto un diverso profilo, quello relativo ad un'evoluzione che porta si a sempre più «amministrativiz-zare» la Regione, ma anche ad impor-re una trasformazione della pubblica amministrazione italiana verso l'artico-lazione delle funzioni fondata su un si-stema organizzatorio tripolare (Stato, Regioni, Province/Comuni): quel mo-do nuovo di operare detto appunto &e\V amministrazione integrata. Che ta-le evoluzione sembri irreversibita-le lo la-sciano supporre altre leggi nazionali di settore intervenute nel contempo (la legge 183 del 1976 in tema di interventi straordinari nel Mezzogiorno, la 335 sempre del 1976 in materia di bilancio e contabilità regionali, la 984 del 1977 in materia di agricoltura (legge quadri-foglio), la 468 del 1978 in materia di bilancio e contabilità dello Stato, la 457 sempre di quell'anno in materia di edilizia residenziale, la 833 ancora nel 1978 sulla riforma sanitaria, la 312 del 1980 in materia di assetto retributivo e funzionale del personale pubblico. Se questa sembra essere ormai la filo-sofia retrostante alla più recente

pro-duzione legislativa nazionale in tema di autonomie locali e di loro funzioni, v'è da dire che l'osservazione porta a ri-flessioni di più vasta portata, che at-tengono tanto al ruolo stesso della leg-ge — sia statale che regionale — quan-to ai rapporti fra leggi e funzioni am-ministrative assegnate.

È facilmente intuibile che una cosa so-no il ruolo della legge e i rapporti fra leggi gerarchicamente diverse nell'am-bito di un modello di amministrazione policentrica e tendenzialmente integra-ta, altra i rapporti correttamente tra loro esperibili entro un modello di am-ministrazione separata.

Come anche non identici appaiono sia la posizione degli enti chiamati ad ope-rare nello stesso settore amministrativo sia le modalità organizzatorie secondo le quali ciascuna funzione va esercita-ta: nel caso di amministrazioni separa-te può bastare un coordinamento di ti-po legislativo ed un conseguente con-trollo di legittimità sugli atti; nel caso di amministrazione policentrica occor-rono procedure complesse, articolate e integrate.

Infine importante è anche il problema della distribuzione delle risorse, sia sot-to il profilo del come vengono assegna-te alle diverse funzioni (leggasi: settori funzionali della pubblica amministra-zione), sia sotto quello della attribuzio-ne delle stesse ai diversi soggetti parte-cipanti al procedimento complesso uni-funzionale.

Il che deduce subito un ulteriore pro-blema, anzi il vero problema di fondo, contro il quale vanno scontrandosi teo-rie e proposte diverse nello studio della riforma delle autonomie locali: quello del più corretto modo di omogeneizza-re la rappomogeneizza-resentanza politica e l'auto-nomia di soggetti diversi con l'esercizio di funzioni integrate a vari livelli. Già il «rapporto Giannini» (preparatorio ai lavori della Commissione parlamentare chiamata ad esprimere parere sul D.P.R. di riordinamento regionale) da-va chiara sensazione della rileda-vanza del problema, ammettendo onestamente che «l'ottica codificata nella Costitu-zione è ormai travolta; il rapporto Sta-to-Regione non è più quello di un con-trollo di legittimità dello Stato sugli at-ti delle Regioni e di una potestà

nor-mativa delle Regioni, in un quadro di livelli separati. Il quadro è ormai quel-lo di implicazioni reciproche nella atti-vità di programmazione, ed in genere di interessi pubblici a funzioni ripartite (sanità, casa, ecc.) e di concertazione nelle altre». Ma appunto per queste ra-gioni appare ineludibile una precisa ri-sposta all'apparente antinomia tra rap-presentanza politica ed integrazione amministrativa.

3. Che in Italia di risposte chiare e precise ci sia un gran bisogno è certez-za non solo di oggi: che tali risposte possano essere date tempestivamente è invece dubbio. Una cosa tuttavia appa-re sicura, e cioè che se si vuol ragiona-re in termini di logica sistematica, il sempre maggior estendersi dell'Ammi-nistrazione integrata comporta profon-de revisioni sia nella struttura che nel modo procedimentale dello Stato, cosi come in quelli dell'ente locale. Sul pri-mo versante è difficile non cogliere l'i-nadeguatezza, ai fini dell'efficienza e dell'efficacia generali del sistema, del-l'attuale organizzazione per «ministe-ri», proprio perché viene sostanzial-mente elusa l'esigenza dell'integrazione in chiave di cooperazione fra enti chia-mati a gestire vari spezzoni di una uni-ca funzione. Ma analogo discorso va fatto sull'altro versante, quello delle autonomie locali, per le quali è neces-sario avere coscienza dell'evoluzione in atto e quindi della esigenza di appre-stare, con legge generale o continuan-do sul terreno della normativa di setto-re, un quadro di competenze nonché gli strumenti organizzatori e procedi-mentali idonei a sostenere il sistema in-tegrato che si intende attuare.

Ed allora si ritorna al tema centrale della riforma delle autonomie locali e dei principi a cui informarla. In propo-sito può sostanzialmente affermarsi che i due poli entro cui dottrina ed operatori del settore vedono collocata la riorganizzazione delle autonomie so-no da un lato la programmazione ge-nerale, articolata per livelli, e dall'altro la programmazione di settore. La pri-ma visione porta in fondo ad una riaf-fermazione del modello costituzionale dell'autonomia, riunificando la molte-plicità settoriale delle funzioni con

l'u-nità dei titolari nel loro esercizio; tut-tavia è difficile sostenere che tale tipo di programmazione sia efficace oltre determinate soglie, in generale quelle delle scelte macro-economiche ed inter-settoriali. La seconda, quella della programmazione settoriale, è certa-mente la via pragmatica e più efficien-tistica, ma comporta una lettura costi-tuzionale dell'art. 128, da solo o insie-me agli artt. 117 e 118, abbastanza moderna e per certi versi ardita. Il nodo da sciogliere sta qui: avere co-scienza della ineluttabilità di una scel-ta, qualora si vogliano contemperare % esigenze di funzionalità con quelle di autonomia.

Del resto la dottrina, specie quella fa-cente capo alla scuola torinese — che ha il merito di aver per prima colto ed evidenziato gli aspetti retrostanti della evoluzione in atto —, è abbastanza univocamente indirizzata su questa strada. Riportiamo qui, a conferma dell'assunto, quanto F. Pizzetti chiari-va in un suo intervento al Convegno sullo «Stato delle autonomie», svoltosi a Torino nel novembre del 1980: «In altri termini la tesi che si vuole soste-nere è questa: la quantità stessa delle funzioni amministrative trasferite o de-legate alle Regioni, ovvero assegnate ai Comuni, è tale da aver per un verso reso irreversibile il cammino verso un sistema di amministrazione integrata e, per l'altro, di aver rotto inevitabilmen-te l'unità dell'amministrazione regiona-le e locaregiona-le. In seguito cioè al trasferi-mento di tali funzioni (processo del re-sto tutt'altro che esaurito, come testi-moniano le leggi di settore sopracitate) non è più possibile pensare all'ammini-strazione comunale, provinciale e re-gionale come ad amministrazioni uni-tarie... Ormai pare necessario prender atto, come da sempre è per lo Stato, che anche per questi Enti l'unità del-l'amministrazione non sussiste più sul piano delle funzioni e permane solo con riferimento ai soggetti, questi si unitari, ai quali le singole attività fan-no capo».

4. Di riflessione in riflessione siamo giunti, sembra, a porre in evidenza tre concetti che, a questo punto del discor-so, possono assumersi come assiomi.

a) l'articolazione della pubblica ammi-nistrazione, quale delineata per sommi capi dalla Costituzione, basata sulla tradizionale organizzazione per sfere di competenza, è ritenuta modello orga-nizzatorio superato e desueto: si viene imponendo un modello di amministra-zione integrata, articolato su vari livelli di esercizio di funzioni settorialmente organizzate;

b) per dare significato generale ed or-ganizzativo a questa tendenza occorre avere il coraggio di scelte precise, con chiara coscienza delle loro implicazio-ni: in particolare occorre rivedere l'ot-tica organizzativa generale della pub-blica amministrazione, sostituendovi al principio gerarchico quello della pro-grammazione (generale, per i rapporti intersettoriali; settoriale, per la defini-zione dei procedimenti e per l'esercizio delle funzioni);

c) occorre accettare una lettura aperta della Costituzione, nella parte riservata ai principi informatori delle autonomie locali, vedendovi i soli fondamenti es-senziali dell'organizzazione, non le de-finizioni precise: il che consente — co-me operando su «tabulae rasae» — un'interpretazione riformatrice e mo-derna.

Sono evidentemente tre elementi tutti essenziali, e ciascuno interagente nei confronti degli altri, ai fini della tanto attesa riforma della pubblica ammini-strazione. Ma non è l'indicazione delle linee di riforma: del resto non è certo nostra ambizione quella di indicare qui soluzioni concrete per addivenire solle-citamente alla stessa. Ci sembra tutta-via atto di onestà aver contribuito a meditare in modo unitario su temi spesso oggetto di riflessioni scoordina-te fra loro.

IL PIEMONTE

Nel documento Cronache Economiche. N.003, Anno 1982 (pagine 33-36)