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Sentenza dichiarativa di fallimento e comunicazione

4.2 Il procedimento camerale ibrido per la dichiarazione di fallimento

4.2.3 Sentenza dichiarativa di fallimento e comunicazione

Le innovazioni operate dalla riforma non sono mancata neanche in merito alla sentenza dichiarativa di fallimento, pronunciata in camera di consiglio. Innanzitutto occorre premettere come questa debba contenere, dato il richiamo alla disciplina ordinaria, tutti gli elementi imposti alla sentenza ex art 132 c.p.c oltre agli elementi specifici volti a dar seguito al diritto al concorso (la nomina del giudice delegato e del curatore, l’indicazione del luogo, giorno e ora

dell'adunanza dei creditori etc.). Le maggiori innovazioni introdotte dalla riforma riguardano però il regime di pubblicità della sentenza;

vediamo infatti che il regime precedente sanciva una mera comunicazione “per estratto” della sentenza al debitore e al creditore richiedente, contenente solo il nome delle parti, il

dispositivo e la data della sentenza; e oltre a tale comunicazione era prevista poi l'affissione della sentenza alla porta esterna del

tribunale e la pubblicazione nel foglio degli annunci legali della provincia. A questo punto bisogna rilevare come ex art. 18 il termine per proporre opposizione alla sentenza decorresse proprio

dall'affissione, un evento che l'interessato poteva tranquillamente ignorare. La riforma è dunque intervenuta su questi aspetti

problematici riscrivendo l’art 17 e garantendo una piena ed effettiva conoscenza della dichiarazione di fallimento: è stato abolito l'istituto dell'affissione ed ora è previsto che la sentenza debba essere

notificata al debitore e al pm, su richiesta del cancelliere, con le formalità di art 137 c.p.c rendendo il destinatario consapevole della sentenza in tutte le sue parti consentendogli di valutare

adeguatamente l'ipotesi della proposizione di un reclamo.

4.2.4 L'appello

Prima della riforma fallimentare si prevedeva un regime differenziato per il reclamo alla sentenza di fallimento e il reclamo avverso il decreto che respinge l'istanza di fallimento. Mentre il secondo era disciplinata e regolato con un chiaro rimando alla disciplina ex 737 e s.s dei procedimenti in camera di consiglio, il primo era inquadrato in un modello peculiare che definimmo misto per cui a una prima fase che si svolgeva con le forme della cognizione sommaria si

contrapponeva l'opposizione che celava un procedimento rispettoso delle garanzie del giusto processo a cognizione piena. In dottrina non mancarono discussioni in merito alla natura di tale procedimento, alcuni123sostenevano che, l’opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, costituiva un mezzo di impugnazione del tutto speciale che avviava un processo di cognizione di primo grado nel quale comunque trovavano applicazione le norme relative al processo

d’impugnazione del secondo libro del codice di rito (fatta eccezione per quegli aspetti espressamente disciplinati dalla legge fallimentare). Le ragioni addotte dai sostenitori di tale impostazione erano basate sul fatto che il giudizio introdotto dall'opposizione, aveva ad oggetto le medesime questioni che in camera di consiglio erano già state trattate per la pronuncia di fallimento. Altra parte della dottrina124 invece, riteneva che l’opposizione non andava considerata un'impugnazione ma anzi andava considerata una seconda fase richiamante le caratteristiche dell’opposizione al decreto ingiuntivo. Vedremo che con la riforma fallimentare si parificheranno i

provvedimenti conclusivi del procedimento per la dichiarazione di fallimento, riconoscendo ad entrambi l'idoneità al giudicato e

sottoponendoli a un gravame regolato nella stessa maniera. Tale fase del giudizio, inoltre, assumerà la qualificazione di un vero giudizio d'impugnazione richiamante la disciplina del procedimento ordinario e successivamente, in seguito alla riforma della disciplina

dell’appello di diritto comune (con la legge 07 agosto 2012, n. 134) si configurerà come un appello assolutamente unico nel sistema processualcivilistico.

Il Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, contenente la normativa fallimentare, ha subito due modificazioni: la prima da parte del D. lgs 09 gennaio 2006, n. 5, e una seconda da parte del D.lgs 12 settembre 2007, n. 169. A seguito della prima riforma l’impugnazione avverso la sentenza dichiarativa di fallimento si svolgeva attraverso le forme dell'appello secondo un'impostazione che sembrava coerente, dal punto di vista sistematico, con quel giudizio di primo grado che dietro la denominazione camerale celava un vero e proprio giudizio a cognizione piena, governato da un rito speciale. Nel secondo

124 DENTI, Riv. Trim., 1951, pp. 997 ss., PICARDI, La dichiarazione di fallimento,

intervento correttivo invece si decise di adeguare il gravame alle forme speciali del primo grado, dato che l'art 18 l. fall prevedeva attraverso l'espressione “reclamo” il richiamo alle forme camerali. In realtà anche in questo caso, come nel primo grado, il legislatore ha disciplinato un rito camerale che risulta essere tale solo nel nomen in quanto non richiama la disciplina dell’art. 739 e ss. c. p. c., ma, fa riferimento a regole che richiamano le forme ordinarie della cognizione piena. Nonostante dunque l'uso del termine “reclamo”, che fa riferimento alla disciplina del rito camerale prevista in c.p.c, l’impugnazione avverso la sentenza dichiarativa di fallimento non segue tali regole ma introduce un procedimento di gravame, regolato

ex novo, plasmato sul modello camerale ibrido.

A questo punto è utile rilevare come tale appello, nato

originariamente come richiamo alla disciplina dell'appello ordinario rimanga estraneo alla riforma della disciplina dell'appello comune diventando un mezzo di impugnazione assolutamente unico. Con la legge 07 agosto 2012, n. 134 infatti la disciplina dell'appello comune ha subito la novellazione

dell’art 342 c.p.c “L'appello si propone con citazione contenente le

indicazioni prescritte dall'articolo 163. L'appello deve essere motivato. La motivazione dell'appello deve contenere, a pena di inammissibilità:

1) l'indicazione delle parti del provvedimento che si intende

appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado;

2) l'indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata. (2) Tra il giorno della citazione e quello della prima udienza di trattazione devono intercorrere termini liberi non minori di quelli previsti dall'articolo 163-bis.” e l'introduzione dell’art 348 bis c.p.c

“Fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza

l'inammissibilità o l'improcedibilità dell'appello, l'impugnazione è dichiarata inammissibile dal giudice competente quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta.”. Quest'opera di riforma

compiuta dal legislatore, rappresenta una prosecuzione di quanto attuato nella legge 26 novembre 1990, n. 353, in tale sede il legislatore intervenne sull'art 345 c.p.c portando alla sua attuale formulazione (“Nel giudizio d’appello non possono proporsi

domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate

inammissibili d’ufficio. Possono tuttavia domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché́ il risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa. Non possono proporsi nuove eccezioni, che non siano rilevabili anche d’ufficio. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova, salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Può sempre deferirsi il giuramento decisorio) delineando già allora l'appello

come un giudizio volto a una revisione della prima istanza in quanto chiuso rispetto a ogni elemento di novità .Ma è solo con la riforma del 2012 che si rese effettiva la transizione dell'appello dai mezzi di gravame (volti a offrire un rinnovato giudizio sul diritto e sulla sua fattispecie), alla categoria dei mezzi di impugnazione in senso stretto (che introducono un giudizio basato sulla sentenza impugnata e sulle censure e i vizi che vengono denunciati): infatti la riforma oltre all'inammissibilità in caso di una mancata indicazione dei motivi dell'appello, prevede addirittura la necessità di un'esposizione talmente approfondita e chiara di questi, da consentire al giudice il compimento di un giudizio prognostico sulla ammissibilità o meno di

questo. In dottrina, molti125 hanno rilevato come l’art 18 e la

previsione del “reclamo” escluderebbe l'applicazione analogica della disciplina dell'appello (come riformata) e assicurerebbe dunque un effetto pienamente devolutivo dell'impugnazione. Nell'affrontare tale argomento bisogna partire dall'analisi dei c2 e c9 dell’art. 18, della legge fallimentare:

Il secondo comma, nel novero degli elementi necessari del ricorso introduttivo prevede:” l’esposizione dei fatti e degli elementi di

diritto su cui si basa l’impugnazione, con le relative conclusioni “(punto tre) è l’indicazione dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e dei documenti prodotti” (punto quattro). Mentre il

nono comma, stabilisce che la memoria, presentata dalla parte resistente, debba contenere” l’esposizione delle difese in fatto e in

diritto, oltre che l’indicazione dei mezzi di prova e dei documenti prodotti “. Proprio partendo da questa formulazione di tali commi la

dottrina ha sostenuto la derogatorietà della disciplina fallimentare rispetto all’art. 345 c. p. c., secondo e terzo comma, in quanto non si fa menzione di quei limiti che quest’ultimo contiene riguardo la possibilità di nuove allegazioni e deduzioni istruttorie. Dalla lettura del secondo comma, punto quattro, e del comma nono bisogna infatti dedurre che è consentita al ricorrente la produzione di nuovi

documenti e mezzi di prova dato che è necessario indicarli (ove fossero gli stessi del primo grado il giudice ne avrebbe già la piena disponibilità) così come al resistente è permesso di introdurre difese nuove. Tale orientamento venne poi confermato dalla corte di cassazione che venne chiamata a pronunciarsi sulla possibilità per il debitore, rimasto contumace nella fase prefallimentare, di proporre in sede di reclamo le sue difese; la corte si espresse favorevolmente

125 C. CECCHELLA, in R. VACCARELLA, F. P. LUISO, Le impugnazioni civili,

stabilendo che:” nel giudizio d’impugnazione avverso la sentenza

dichiarativa di fallimento, quanto ai procedimenti in cui trova applicazione la riforma di cui al d. lg n. 169 del 2007, che ha modificato l’art. 18 della legge fallimentare, ridenominando tale mezzo come reclamo in luogo del precedente appello, l’istituto, adeguato alla natura camerale dell’intero procedimento, è

caratterizzato, per la sua specialità̀, da un effetto devolutivo pieno, cui non si applicano i limiti previsti, in tema di appello, dagli artt. 342 e 345 c. p. c., pur attenendo il reclamo ad un provvedimento decisorio, emesso all’esito di un procedimento contenzioso svoltosi in contraddittorio e suscettibile di acquisire autorità̀ di cosa

giudicata; ne consegue che il debitore, benché́ non costituito avanti al tribunale, può indicare anche per la prima volta, in sede di reclamo, i mezzi di prova di cui intende avvalersi ..”

Per quanto concerne invece “l'indicazione dei motivi” ex art 18 2° comma l.fall, la dottrina ha sostenuto come tale espressione sia volta a fissare un parametro per l'effetto devolutivo, limitando di fatto la cognizione della corte d'appello; questo orientamento venne poi confermato dalla cassazione che sul punto affermerà che: “ai sensi

del comma due, punto tre, della legge fallimentare, il reclamo deve contenere l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa l’impugnazione, con le relative conclusioni, e dunque solo entro tali limiti la Corte d’appello può riesaminare la decisione del

tribunale, non potendo essere messi in discussione i punti di detta sentenza (ed i fatti già accertati in primo grado) sui quali il reclamante non abbia sollevato censure di

sorta”126. Di conseguenza bisogna ritenere la cognizione del giudice di secondo grado vincolata a tali censure, senza, che si abbia una

126 Corte di Cassazione, nella pronuncia 28 ottobre 2010, n. 22110, in Giust.

riconsiderazione di tutta la controversia dato che altrimenti la

previsione del N 4° di 2° comma art. 18 perderebbe ogni significato. Anche la disciplina fallimentare quindi prevede un obbligo di motivazione per il reclamo, obbligo che comunque non raggiungerà il rigore sancito dalla disciplina ordinaria, infatti sarà sufficiente indicare i capi della sentenza impugnati e l'indicazione dei contenuti sostitutivi che si richiedono al giudice (senza bisogno di indicare vizi e censure). A seguito di tali osservazioni appare evidente come il nuovo reclamo fallimentare, risulti di fatto molto più garantista rispetto a quello ordinario. Questa peculiarità trova sicuramente giustificazione nella natura del procedimento per la dichiarazione di fallimento, ove sono coinvolti interessi generali che non consentono quindi di porre eccessive limitazioni formali all'accertamento della verità sostanziale. Di conseguenza proprio nell'ambito dei

procedimenti camerali, additati in origine come inadeguati a garantire la tutela dei diritti soggettivi e considerati non conformi a costituzione troviamo oggi l'impugnazione più garantista di tutto il sistema processualcivilistico, ove si consente al giudice di accertare la verità attraverso un gravame pieno volto a rinnovare il giudizio sull'oggetto del primo grado e non a sindacare sui vizi e censure della sentenza (come nell'appello ordinario).

CAPITOLO III: Il RITO CAMERALE NEL DIRITTO