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Due viaggi per l’Italia: la «via» della Resistenza di Giovanni Arpino e l’avventura linguistica di Tommaso Landolfi.

La natura, le ombre (qui in particolare Chiusaforte con il suo presente e il passato sulla

II. Gli Autor

4. Gianni Rodari poeta per bambin

5.2 Due viaggi per l’Italia: la «via» della Resistenza di Giovanni Arpino e l’avventura linguistica di Tommaso Landolfi.

Nel 1960 la guerra fredda si è ormai conclusa e non è un caso che proprio alla sua risoluzione, e a ridosso delle celebrazioni del centenario dell’Unità d’Italia, lo scrittore e giornalista Giovanni Arpino riesca a pubblicare un testo come Le mille e una Italia403 (è il numero 5 della collana «Libri per Ragazzi» di Einaudi ideata e diretta da Daniele Ponchiroli), che inaugura, tra l’altro, la scoperta della Resistenza da parte dei bambini e dei ragazzi. Se la letteratura destinata agli «adulti» ha infatti potuto ricordare le vicende e il tema della lotta partigiana, attraverso le pagine di Elio Vittorini, Italo Calvino, Giuseppe Berto, Cesare Pavese, Roberta Viganò e Beppe Fenoglio404, la letteratura per l’infanzia, se si eccettuano pochissimi testi di non larga diffusione, ne era stata esclusa. La storia narrata da Arpino, organizzata in ventitré capitoli, è quella del viaggio di un giovane siciliano dodicenne, Riccio Tumarrano, attraverso la penisola per raggiungere il padre che lavora come minatore al traforo del Monte Bianco. Ma il viaggio reale, e potremmo dire, classico, quello dell’attraversamento della penisola da Sud a Nord (quello cioè compiuto dagli esuli napoletani nel 1848 fino alla Torino sabauda, quello dell’esercito alleato contro i tedeschi e i

402 Il vaporetto, cit., pp. 24 e 21.

403 Riproposto recentemente da Lindau nel 2011, nell’occasione del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia

condue interviste di Giovanni De luna e Mariarosa Masoero.

404 Con Uomini e no (1945); Il sentiero dei nidi di ragno (1947); Il cielo è rosso (1947); La casa in collina (1947-48); L’Agnese va a morire (1949); I ventitré giorni della città di Alba (1952) e Primavera di bellezza (1959).

fascisti, e l’esodo del popolo contadino negli anni del boom economico verso le grandi città industriali) - con la sua strada e i paesaggi attraversati - diventa occasione per un altro viaggio, stavolta immaginario e iniziatico, all’ incontro con i grandi personaggi che hanno fatto la storia d’Italia, non solo scrittori e poeti, come Giovanni Verga, Dante, Giacomo Leopardi, Luigi Pirandello, ma anche artisti come Michelangelo e uomini illustri di ogni epoca da Annibale a Garibaldi, da Savonarola a Machiavelli, a Galileo, da Cavour a Mussolini, ai Fratelli Cervi, Gramsci, Piero Gobetti.

Gli inserti in versi non sono regolari, si trovano in quattro diversi capitoli, che l’autore fa proferire a Vincenzo Padula (capitolo II; 12vv.), Burchiello (capitolo X; 44vv.), Galileo (capitolo XVII; 31 vv.) e Gramsci (capitolo XXI ; 168 vv.). Eccettuato Vincenzo Padula, che oltre ad essere stato un patriota calabrese è stato anche poeta, e Burchiello (Domenico di Giovanni, detto il B.), poeta fiorentino del XV secolo, - probabile omaggio, quest’ultimo, al genere della poesia giocosa e fantastica, - gli altri due personaggi hanno un rapporto meno diretto con la poesia. Lo scarto fra le aspettative del lettore a che sia un poeta a parlare in versi e la scelta invece di mettere in bocca a personaggi illustri come Galileo e Gramsci il linguaggio della poesia, come non ci aspetteremo, ci fa riflettere sulla funzione (o meglio le funzioni) affidata a quest’ultimo dall’autore. Ma cosa hanno in comune eventualmente due personaggi illustri così diversi e distanti cronologicamente, come Galileo e Gramsci ? A ben guardare i versi che si trovano nel XVII capitolo vengono definiti come una «canzonetta» - versi liberi a rima baciata - che l’operaio Marcantonio, che lavora nell’officina di Galileo, canta di continuo (tanto che anche il protagonista Riccio confessa di averla imparata). Marcantonio afferma di averla sentita cantare dal suo padrone e per capirne la valenza conviene riportarla per intero:

Com’erano furbi gli antichi!

Mangiavano la pelle e buttavano i fichi, la pastasciutta, per poterla salare, l’affondavano nel mare,

col veleno dei serpenti si curavano il mal di denti: erano certi di avere ragione e chi protestava finiva in prigione. Dicevano: «è questione di fortuna, c’è chi nasce con sette camicie e c’è chi nasce senza averne una. Con la fortuna e l’acqua corrente non c’è forza competente». Così chi era detto sfortunato senz’appello era condannato. Però non avevano previsto

che il mondo avanza anche senza essere visto: un passo oggi, un altro domani,

i fenomeni più strani

non fan più paura, non son più un mistero. E oggi non può più dirsi vero

che il fulmine sia l’ira di Giove: è solamente elettricità,

rapida se ne va, e poi piove. Si cominciò col dubitare e si finì con l’imparare. Quindi io dico: credo solo a quello che vedo. A chi nega che la terra gira rispondo : poche prediche e lagne, dimòstramelo sulle lavagne !

(pp. 157-158)

Strofe in cui vediamo affiorare il laicismo quasi militante dell’autore.

Ma analizziamo ora l’incontro con Gramsci, nel XXI capitolo, quando Riccio arriva a Torino, e insieme attraversano la città. La passeggiata diventa allora un’occasione preziosa per fare il punto sulla storia e sui suoi mancati protagonisti. Gramsci, il «professore», introduce con queste parole il lungo racconto che farà in versi (si tratta di 168 versi liberi): «Ora, Riccio, ti racconterò una storia, con poche domande e nessuna risposta. Così, andandotene da questa città, porterai con te qualcosa che nessuno potrà mai toglierti». Ed ecco che il panorama si apre su un momento molto doloroso e difficile della storia d’Italia: «Nel millenovecentodiciassette, d’agosto, / Torino lavorava per la guerra». Dopo aver passato in rassegna la Torino operaia che lavora per la guerra, mentri i fratelli sono al fronte, ricorda come quella guerra «non finiva mai» e così operai, donne, ragazzi riempiono le strade protestando e ribellandosi: «[…] la morte aumentava, il pane calava/ le armi partivano, i fratelli non tornavano,/ e un giorno gli operai, stanchi e affamati,/ chiusero la fronte in una brutta ruga/ e dissero: - Oggi in fabbrica non s’entra!». È il 21 agosto 1917 quando si esauriscono le scorte di farina. Il 23 agosto viene indetto uno sciopero generale: inizia così una strenua rivolta della popolazione che durerà cinque giorni e che verrà domata nel sangue da parte delle autorità il 28 agosto, quando verrà annunciato che finalmente la città è ritornata “lodevole” (ma alle giornate di lotta seguirà una scia repressiva che porterà all’arresto di molti operai e all’invio al fronte di quelli esonerati perché addetti alla produzione bellica). Gramsci rievoca quelle giornate attraverso un grido corale di cibo, pace e giustizia («Dissero: - Vogliamo pane, e con loro lo dissero/ anche le donne uscite dalle case/ e i vecchi lo dissero e lo dissero i ragazzi,/ e ogni strada di questa lodevole città/ fu piena di gente che gridava: - Pane!») e dopo giorni di battaglie «più dure che sul Carso», combattute da una massa che non ha capi, colori, piani, ordini, riparo, amici, né aiuti contro generali e borghesi, poliziotti e soldati armati di fucili, la città « lodevole » riprende le sue attività. Ma nel cuore di ognuno come su pietra è inciso il nome di ciascuno:

[…]

Così la lodevole città

riprese a vomitare dalle officine le sue lucide macchine,

e i portici persero il ricordo dei cori che cantavano: - Rivoluzione! Ora, tu dimmi, perchè questa storia non ha pagine dentro i libri di scuola? Ma basta con le domande! Ricordiamo solo una cosa: i nomi di guerra conquistano marmi, conquistano i fogli bianchi dei libri, diventano nomi

che cominciano tutti con le lettere maiscole. Diamoci da fare, tu io tutti,

oggi, domani, ogni anno, per sempre, perché anche i bei nomi di pace

abbiano il loro posto nella nostra memoria. Nessun marmo per loro, ma la pietra dei nostri cuori che non dimenticano. (pp.)

Se con Galileo Arpino esalta il progresso, la caparbietà del lavoro, (e del dubbio - che fa impare -) contro i fumi oscurantisti della «fortuna» o delle fedi religiose, con Gramsci arricchisce il discorso con un nuovo invito, quello impegnato e politicamente (eticamente, diremmo) orientato di prendere in considerazione la storia singola, che poi è quella che fa la Storia: non i nomi incisi nel

marmo o nelle pagine dei libri, ma quelli - ancora anonimi - da scolpire nel cuore. Il ricordo, espresso in versi, assume così forte valenza etica e valore di monito e incoraggiamento all’Italia tutta.

È soprattutto un viaggio di conoscenza, come gli suggerisce Giovanni Verga, il primo personaggio incontrato, che lo esorta con queste parole: «Va’ avanti. Il nostro è un paese che si comincia a conoscere solo da vecchi: tu sei fortunato a attraversarlo tutto mentre sei un ragazzo. Hai un bell’occhio coraggioso, Riccio: usalo. L’occhio sincero che sa vedere è un patrimonio, e più il mondo intorno si fa difficile, più quel patrimonio ti serve». D’altronde, è necessario ricordarlo, l’esordio letterario per ragazzi di Arpino era stato proprio sul tema del viaggio, con il romanzo, di gusto però fantascientifico, Rafè e Micropiede pubblicato anche questo presso Einaudi nella collana “Libri per Ragazzi” (n. 3, Torino 1959); un libro dalla scrittura accattivante, che narra le vicende di un ragazzo che va per il mondo cercando un luogo migliore dove vivere, ma alla fine scopre che il posto migliore è la propria casa.

Il titolo e la narrazione non lineare di Le mille e una Italia rinviano all’istanza fiabesca (e Mariarosa Masoero ci ricorda il dialogo dell’autore con Italo Calvino405), ma proprio tali peculiari caratteristiche hanno in parte deluso una certa critica marxista e non solo. Pino Boero ricorda infatti:

[…] nel 1960 Ponchiroli inserì come numeri 5 e 6 della collana Le mille e una Italia di Giovanni Arpino e Filastrocche

in cielo e in terra di Gianni Rodari, due libri che, da punti di vista diversi, segnarono una svolta nella produzione per la

gioventù al punto da preoccupare i critici di Schedario, rivista “ministeriale” di quel tempo pubblicata dal Centro Didattico Nazionale di Firenze, che al testo di Arpino dedicarono una recensione che, letta con gli occhi di ieri (e di oggi), aveva, nella sua ambiguità, tutto il sapore della stroncatura: per Schedario Le mille e una Italia rappresentavano una “novità”: il viaggio fantastico del giovane protagonista (Riccio ragazzo siciliano attraversa la penisola e incontra i grandi personaggi della storia d’Italia che non sono solo i santi, i poeti e gli eroi della nostra storia nazionale, ma anche i fratelli Cervi, i partigiani delle Langhe, Piero Gobetti e i tanti diversi malati di “febbre della Verità”) non poteva “essere inquadrato in un’epoca della storia”, era “didatticamente sbagliato” perché generava “confusione nella cronologia storica” e quindi diventava “incomprensibile” al giovane pubblico. Il fatto, poi, che le forze dell’ordine fossero viste storicamente come difensori dei “ricchi” e dei “potenti” diventava addirittura un difetto di carattere “etico”; naturalmente anche lo stile difettava perché alla “mano felice” di alcuni passaggi si contrapponeva una “certa pesantezza” di scrittura.406

Le tre filastrocche in ottonari a rime baciate di Tommaso Landolfi, Sale e pepe, Ta Tarà Tatà e

Grande filastrocca negativa con tocco finale apparvero fra il 1967 e il 1968 in volumi collettivi

curati da Giovanni Arpino.407 Landolfi aveva già pubblicato, a partire dalla fine degli anni Trenta

405 Cfr. nota 14.

406 Pino Boero, C’era una volta “Libri per ragazzi”, in «Andersen», 5 dicembre 2016 (cfr:

http://www.andersen.it/viaggitaddeo/).

407 Le nuove filastrocche, illustrazioni di Maria Luisa Gioia, per la collana “I Gemelli” di Rizzoli nel 1968, con testi di

Gianni Rodari, Marcello Argilli, Laura Grande, Alessandra Lundry Bonsanti, Luigi Santucci, Franco Bedulli, Giovanni Arpino, Pier Aldo Marasi, Vezio Melegari. Da ricordare come Franco Bedulli fosse in realtà lo pseudonimo di Daniele Ponchiroli, e come sotto tale nome avesse pubblicato il romanzo per ragazzi Le avventure di Barzamino (1965, illustrazioni dell’autore) e avesse illustrato Il tramviere impazzito di Marina Jarre e Le storie di Papà di Augusto Monti.

Ma Ponchiroli è stato anche caporedattore per Einaudi e l’ideatore e il curatore per diciotto anni, dal 1959 al 1977 della collezione “Libri per Ragazzi”, che vantava importanti e illustri presenze, fra le quali Le straordinarie avventure di

Caterina di Elsa Morante (1959, il numero 1 della collana), e ancora Le mille e una Italia di Giovanni Arpino,

Filastrocche in cielo e in terra di Gianni Rodari (1960, numeri 5 e 6 della collana), Marcovaldo di Italo Calvino (1963,

con e illustrazioni di Sergio Tofano): Cfr. Pino Boero, Carmine De Luca, La letteratura per l’infanzia, cit., p. 253 e pp. 300-302 e Pino Boero, C’era una volta “Libri per ragazzi”, cit. Luigi Santucci aveva esordito nel 1942 con il saggio

Limiti e ragioni della lettertura infantile e nel 1966 la raccolta per bambini Poesie con le gambe corte (disegni di Maria

Enrica Agostinelli, Mursia, Milano 1966). Lo scrittore e poeta Pieraldo Melegari pubblicherà nel 1971 La rivolta dei

burattini (disegni di Lodovico Mosconi, Rizzoli, Milano); Vezio Melegari, scrittore, umorista e giornalista, contribuisce

alla fondazione del “Premio Bancarellino” dedicato alla letteratura per ragazzi (1957) e collabora alla programmazione televisiva scrivendo programmi come “Qui comincia la storiella” e “Avventure in libreria”, al «Corriere dei Piccoli», in particolare con una rubrica di approfondimento insieme a Gianni Rodari e Dino Buzzati.

una serie di volumi di racconti (Dilogo dei massimi sistemi, 1937; Il mar delle blatte e altre storie, 1939, e La spada 1942; Ombre, 1954; Tre racconti, 1964; Racconti impossibili, 1966), romanzi (La pietra lunare, 1939; Le due zittelle, 1946; Racconto d’autunno, 1947; Cancroregina, 1950) e testi diaristici (come La bière du pecheur, 1953; Rien va, 1963; Des mois, 1967), mostrando come gusto per il meraviglioso e virtuosismo linguistico costituissero i due poli attorno a cui l’autore di Pico Farnese aveva costruito solidamente la sua avventura letteraria. Anche nell’ambito della poesia per bambini, Landolfi, pur perseguendo una necessaria scorrevolezza e leggibilità, necessarie a un giovane pubblico, ci offre un divertito e sonoro impasto linguistico, ora arcaizzante ora fantastico, su temi che non rinunciano ad evocare una loro morale.

Leggiamo ad esempio le strofe seguenti, intitolate Sale e pepe:

C’era un bimbo corto e matto, corto, matto ed arfasatto, che soffiava a pepe e a sale nella tromba delle scale, che ridendo sale e pepe annodava il crine e il refe, che tirava i baffi al gatto, che correva col lepratto, stuzzicava la Mammona e ballava la ciaccona, che strappava ai prati l’erba, che mangiava l’uva acerba, che del mare sopra i flutti camminava a piedi asciutti, che per l’aria andava a volo e prendeva nasi a nolo, che col vento mormorava e col sole leticava, che nell’oro del mattino piluccava il fiorellino, che le nuvole arruffava e i ruscelli disviava, che sonava il tumistufi coi ranocchi e con i gufi, che indossava la cipolla e mangiava la cocolla, che picchiava in testa i chiodi, che filava i cento nodi, che fischiava, che berciava, che imbrogliava la matassa, che batteva la grancassa, che ruggiva e che ronfava - ma ogni cosa che faceva, sale e pepe ci metteva. Che scompiglio e che tormenti per gli amici e pei parenti! Lo potete immaginare, non sapevan cosa fare. Ma passarono anni ed anni, cominciarono i malanni,

finché un giorno: «Ehi tu quel desso, tu bambino corto e matto,

corto, matto ed arfasatto,

non lo vedi che tu stesso sale e pepe ti sei fatto?. . . » . Il bambino lì per lì

il discorso non capì, e poi più non ci pensò e daccapo imperversò. Ma passarono anni ancora, è lontana ormai l’aurora, sì l’aurora lieta e cara che la barca spinge a mare, che fiorisce, canta e invita, sì l’aurora della vita ... L’altro giorno nello specchio mi son visto: oh che passione! Ho le rughe, sono vecchio, ho una faccia da minchione. M’è rimasto solo sale, non però dentro la testa, che sarebbe meno male, ma soltanto in cima ad essa . . . Certo non è un bell’affare, c’è da urlare e lacrimare; ed invece, udite mò il consiglio che vi do. Corran pure in frotta gli anni, gli anni con i loro affanni: voi restate corti e matti, corti, matti ed arfasatti, e non fate, in barba ai guai, e non fate (udite, amici,

ciò che un vecchio afferma e dice) e non fate senno mai!

È interessante sottolineare, com’è evidente soprattutto nella chiusa finale, l’invito ad approfittare della giovinezza, anzi a non perdere mai le caratteristiche folli, bislacche, persino crudeli della giovinezza, che ci conduce oltre i riverberi leopardiani - poeta caro a Landolfi - fino a recuperare alcuni toni anarcoidi e libertari à la Gatto.

Nella Grande filastrocca negativa con tocco finale, l’autore snocciola un’ampia e divertita serie di negazioni:

Non la bruna pentola, non il tegamino, non la bionda mestola, non il padellino, non l’archipenzolo,

non il mortaio, non la lunga pendola,

chiudendo con la classica conta: «Non manca nessuno? Beh, allora contiamo. / Quaranta, cinquanta, / sessanta e settanta… / La senti la pica che ride e dà volta?... / E uno, due, tre… / Stavolta / Sta-vol- ta toc-ca a… / te!»

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