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Poeti contemporanei che scrivono anche per i bambini Il tango condiviso di Pierluigi Cappello

Infanzia e poesia dal 1945 in Europa e in Italia Questioni e generi.

8. Poeti contemporanei che scrivono anche per i bambini Il tango condiviso di Pierluigi Cappello

Toti Scialoja, Quando la talpa vuol ballare il tango.

Non è un caso se abbiamo deciso di inaugurare questo capitolo dedicato ai poeti contemporanei che hanno scritto poesie anche per bambini, con Pierluigi Cappello (1967-2017). La piccola e bellissima raccolta, Ogni goccia balla il tango (trentatré rime dal sottotitolo Rime per Chiara e altri pulcini, Rizzoli, Milano 2014), splendidamente illustrata da Pia Valentinis, fin dal titolo richiama infatti la raccolta di Toti Scialoja Quando la talpa vuol ballare il tango (1997), mentre la dedica si riallaccia ad altre scritture dedicate, come quella di Nico Orengo (A-Ulì-Ulè, 1972) e dello stesso Scialoja.235 Richiami espliciti, questi iniziali, e indicazioni ben evidenti di appartenenza, nel segno del gioco236, certo, considerando gli autori a cui Cappello fa un cenno di

235 Sulla questione della dedica e delle storie pensate e scritte per un lettore bambino preciso si rivia a Giuseppe

Pontremoli, Chi sono?, in Elogio delle azioni spregevoli, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2004, pp. 103-118, in particolare pp. 109-110.

236 E al proposito, nella nota finale del libro Cappello afferma: «Eccole qui le “poesie”, Chiara, e sono tutte tue, perché

vengono da quel giorno di marzo quando tu mi hai chiesto di scriverne una per te. È andata così, ricordi? Era il tuo ultimo anni alla materna, quando ancora mi chiamavi zio Pi, e la maestra ti aveva dato una poesia da imparare a

saluto, ma soprattutto nel segno della continuità e della tradizione. Prima di addentrarci in questa raccolta danzante, vorremmo lasciare allo stesso poeta le parole (e i versi) di presentazione. Si tratta di Ombre, una di quelle poesie che era solito leggere, con una voce pacata, mite, ferma, accompagnandola con un movimento delle mani, leggero e delicato, quasi ne seguisse il ritmo:

Sono nato al di qua di questi fogli lungo un fiume, porto nelle narici

il cuore di resina degli abeti, negli occhi il silenzio di quando nevica, la memoria lunga

di chi ha poco da raccontare.

Il nord e l’est, le pietre rotte dall’inverno l’ombra delle nuvole sul fondo della valle sono i miei punti cardinali;

non conosco la prospettiva senza dimensione del mare e non era l’Italia del settanta Chiusaforte

ma una bolla, minuti raddensati in secoli nei gesti di uno stare fermi nel mondo

cose che avevano confini piccoli, gli orti poveri, le cataste di ceppi che erano state un’eco di tempo in tempo rincorsa di falda in falda, dentro il buio. E il gatto che si stende in questi posti, sulle lamiere di zinco, alle prime luci di novembre, raccoglie l’aria di tutte le albe del mondo; come i semi dei fiori, portati, come una nevicata leggera ho sognato di raggiungere i miei morti

dove sono le cose che non vedo quando si vedono Amerigo devoto a Gina che cantava a voce alta alla messa di Natale, il tabacco comprato da Alfredo e Rino che sapeva di stallatico, uomini, donne scampati al tiro della storia

quando i nostri aliti di bambini scaldavano l’inverno e di là dalle montagne azzurrine, di là dai muri oltre gli sguardi delle guardie confinarie

un odore di cipolle e di industria pesante premeva, la parte di un’Europa tenuta insieme

da chiodi ritorti e bulloni, martelli e chiavi inglesi. Il futuro non è più quello di una volta, è stato scritto da una mano anonima, geniale

su di un muro graffito alla periferia di Udine,

il futuro è quello che rimane, ciò che resta delle cose convocate nello scorrere dei volti chiamati, aggiungo io.

E qui, mentre intere città si muovono sulle piste ramate degli hardware

e il presente irrompe con la violenza di un tavolo rovesciato, mio padre torna per sempre nella sua cerata verde

bagnata dalla pioggia e schiude ai figli il suo sorridere come fosse eternamente schiuso.

Se siamo ancora cosa siamo stati,

io sono lo stare di quell’uomo bagnato dalla pioggia, che portava in casa un odore di traversine e ghisa

e, qualche volta, la gola di Chiusaforte allagata dall’ombra

memoria per la Festa del papà. A te però quelle rime non piacevano. In più ti eri anche ammalata, tosse e raffreddore, come se fosse una reazione allergica – ho fantasticato allora – alla poesia. Così ti ho detto che ci sono persone allergiche a certe parole scritte in certo modo, che non vogliono farsi imparare. Scherzavo. Mica tanto. Non è colpa delle parole. Magari è perché chi le ha scritte le ha messe in un posto dove non vorrebbero stare. In ogni caso, le parole che dovevi imparare tu facevano proprio starnutire. […] A me, di tutto questo, resta una piccola certezza, che diventa una grande speranza: anche un bambino capisce che la poesia non è solo gioco con le parole, e che lì dentro c’è qualcosa di più, che ha a che fare con i suoi sensi, la sua immaginazione e la sua anima. Certo, pare che le parole, in una poesia, siano manipolate, spinte, fatte saltare per aria come in un gioco, ma non devo dirti io, Chiara, tesoro, che c’è gusto quando si gioca perchè ci sono tutte le fantasie, le paure, i rischi della vita. La differenza è che lì, nel gioco, sono molto più intensi, e per fortuna (o sfortuna?) si può tornare indietro»: ed. cit., p. 72-77.

si raduna nei miei occhi da occidente a oriente, piano piano a misura del passo del tramonto, bianco;

e anche se le voci del mondo si appuntiscono e qualcosa divide l’ombra dall’ombra

meno solo mi pare di andare, premendo un piede dopo l’altro, secondo la formula del luogo, dal basso all’alto, seguendo una salita.237

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