l’animazione e i linguaggi del corpo Tiziano Battaggia
4. L’animazione e la comunicazione non verbale
Abbiamo visto che l’animazione si presenta come una dimensione ricca e artico-lata, e non solo per le modalità e le forme che assume, ma anche perché, in virtù del suo approccio alla globalità della persona, implica la messa in gioco di diversi linguaggi.
A causa della tradizione razionalistica imperante nel mondo occidentale e la conseguente opposizione tra anima e corpo, la comunicazione verbale è sempre stata avvantaggiata. Ai giorni nostri, però, il linguaggio verbale non riesce più a reggere il ritmo incalzante imposto dalle necessità medianiche. Il bisogno di fornire il massimo d’informazione nel tempo più breve e di persuadere, ci impo-ne l’immagiimpo-ne. Essa, per la sua universalità e facilità di comprensioimpo-ne, appare molto più efficace nel veicolare contenuti complessi in modo ricco e immediato. D’altra parte, spesso ne falsifica il significato, decontestualizzandolo dall’espe-rienza, in quanto mostra senza narrare. L’urgenza del mostrare prevale sul biso-gno di comprendere, la necessità di vendere elude l’esigenza di apprezzare, il de-siderio di consumare ostacola la volontà di contemplare e riflettere.
Attualmente, La valenza comunicativa del corpo, l’ineluttabilità di esprime-re, accogliere o respingere emozioni, la funzione di presentare se stessi, si risolve nel privilegiare il suo aspetto esteriore. Le diffuse manipolazioni dell’immagine corporea mirano a renderla conforme ai canoni culturali vigenti, alle caratteristi-che sociali maggiormente desiderate.
Restano sullo sfondo i gesti e i movimenti, le posture e i comportamenti spa-ziali, le espressioni del volto e gli sguardi. Ciò accade per la minore considera-zione che nutriamo verso di essi, perché non più curati e sperimentati nelle loro funzioni espressive, valenze sociali e estetiche. Non essendo più interpretati e in-terpretabili, il loro uso, la loro variegata ricchezza, patrimonio espressivo e co-municativo della natura umana, rischiano di estinguersi. S’impoverisce così il paesaggio sociale, il mondo che ci abita, fuori e dentro di noi, in particolare quel bambino interiore col quale è impossibile comunicare razionalmente e al quale è indispensabile per la nostra sopravvivenza dare espressione.
Lo studio del non verbale continua, comunque, ad avvalersi di significativi 58
contributi provenienti dall’etologia e dalla biologia. Gli studi evidenziano come la sua complessità ed efficacia nel genere animale non è per nulla inferiore rispet-to a quello umano. D’altronde, la comunicazione umana non può essere ridotta al solo linguaggio verbale; sono, infatti, manifesti i livelli d’interazione costante e dinamica tra parlato e agito.
Secondo Ettore Felisatti (2000) sono rinvenibili tre filoni portanti, all’interno dei quali si articola l’analisi e lo studio della comunicazione non verbale. Un’area centrata su il corpo e i suoi messaggi riguarda le tematiche della comunicazione in-terpersonale e sociale nelle dinamiche dell’interazione prossemica, della gestua-lità, della mimica e dei segnali del corpo (C. Darwin, K. Lorenz, D. Morris, E. T. Hall, R. A. Hinde e molti altri). Nell’ambito dell’animazione significa rico-noscere la corporeità come sfondo permanente e costante dell’azione situata del gruppo.
Un’altra area è centrata sul linguaggio psicomotorio nella dimensione integrata
men-te-corpo. L’interazione fra aspetti motori, emotivi, relazionali e cognitivi investe
la ricerca sulla corporeità come fattore determinante nella conoscenza e nel rap-porto se-mondo (H. Wallon, J. Piaget, R. Spitz, J. De Ajuriaguerra, M. Mer-leau-Ponty, J. Lacan, ecc.). Il principale contributo a questa corrente viene da L. Picq, P. Vayer, J. Le Boulch, A. Lapierre e B. Aucouturier. Le loro pratiche psi-comotorie sono un riferimento importante per l’animazione sia sul piano dell’in-tervento sia sul piano formativo. La capacità di accogliere e di rispondere, nel modo più adeguato, alla richiesta profonda dell’altro caratterizza la pratica psi-comotoria ed ha una funzione formativa, in quanto la ricca esperienza di comu-nicazione proposta impegna ciascun partner in una dinamica mirata al cambia-mento.
Infine, un’area centrata su la corporeità come espressione del corpo, inteso come prodotto delle capacità espressivo-comunicative proprie della dimensio ne corpo-rea, come nella danza, nel teatro gestuale, nella musicoterapia, nelll’art-therapy, nel training autogeno. Si fa riferimento a tutte quelle tecniche di analisi corpo-rea, che hanno influenzato notevolmente sia il settore delle pratiche rieducative e terapeutiche sia l’animazione.
In campo animativo il non verbale si colloca come fattore determinante per lo sviluppo di identità originali, e rivendica una propria autonomia da quell’in-tenzionalità educativa per la quale il non verbale è solo un mezzo, un ponte verso il linguaggio verbale e l’elaborazione astratta di idee e concetti. La corporeità co-me espressione di sé, è intimaco-mente legata all’elaborazione del mondo interno, per cui ciò che è il fuori, passa all’interno attraverso la sensazione che lo trasfor-ma in imtrasfor-magine, e ciò che è dentro si concretizza all’esterno nell’espressione del gesto, del segno, della voce, del suono… Questa creazione estetica, a partire dal compiacimento delle proprie tracce, conduce dall’animazione alla produzione ar-59
tistica e culturale. Quella corporea rappresenta, quindi, una dimensione forte del processo animativo, che mira allo sviluppo del potenziale del soggetto, perché implica il fondamentale comportamento comunicativo nella complessità del si-stema relazionale, e comprende il modo di porsi di ciascuno in ogni suo aspetto: movimento, postura, gesto, tono, mimica, prossemica, voce, sguardo… L’altro è percepito, vissuto e rispettato nella sua globalità espressiva, come essere di desi-derio, essere nell’azione. È il corpo fenomenico, per dirla con Merleau-Ponty (1965), il riferimento privilegiato dell’animazione: corpo come oggetto di esi-stenza e di esperienza, di dialogo con il mondo e nel contempo di presenza al mondo.
5. Il gioco
L’analisi di quelli che si configurano come gli sfondi relazionali dell’animazione, ci induce a considerare il gioco come una dimensione fondamentale. Una dimen-sione profondamente ricca e rilevante nell’età evolutiva, ma interessante anche per la sua persistenza nell’età adulta. Il gioco, infatti, non si esaurisce nel pas-saggio da una fase di sviluppo alla successiva, ma continua a colorare e riempire di sfumature tutta la vita. Ritroviamo il gioco in tutte le forme artistiche, dalla musica alla poetica, dalla scultura alla danza. Il gioco è creatività, è piacere, ma non solo.
Nonostante la sua straordinaria estensione semantica, per l’opinione pubblica in genere il significato di gioco è socialmente connotato: si contrappone, in mo-do più o meno variabile seconmo-do le circostanze, al lavoro e alla serietà della vita. La nostra società, nella sua tendenza a considerare qualsiasi attività in termini utilitaristici e competitivi, privilegia il gioco strutturato, quello nel quale lo scopo è acquisire particolari abilità, migliorare e mantenere nel tempo la propria forma fisica. Vedi i giochi sportivi, i vari corsi ai quali i bambini vengono ini-ziati ad esercitarsi per aderire ai modelli scelti per loro dagli adulti. Questi ulti-mi sono impegnati a loro volta nelle pratiche sportive preferite o negli innume-revoli corsi di attività fisica, fitness e wellness.
Nell’ambito dell’animazione s’intende però porre l’accento su un altro aspetto del gioco. Quello del gioco libero e spontaneo, che i bambini continuano a fare ma che spesso gli adulti non riescono a vedere; ma anche quello che gli adulti possono ancora sperimentare, sebbene non ne colgano sempre l’opportunità e le occasioni.
Se osserviamo un bambino, nella sua quotidianità, notiamo come il tempo che egli riserva al gioco è lunghissimo. In realtà egli gioca sempre, e le pause che è costretto a fare (pasti, riposo…), sono vissute come forzature da parte sua, la 60
cui attitudine è perciò giocare. Possiamo, allora, concepire il gioco come un mo-do di essere necessario per il soggetto in via di sviluppo, il suo momo-do di essere al mondo. Il sentimento di frustrazione e di dispiacere profondo che deriva dal non poter giocare è una dimostrazione di quanto il bambino soffra dell’impossibilità di soddisfare questo suo bisogno fondamentale.
Secondo D. Winnicott (1974) il gioco, col suo carico di realtà e rappresenta-zione, si svolge in una regione invisibile, nella quale gli oggetti vengono inve-stiti di affettività, una zona franca sede della creatività, che egli chiama potenziale o transizionale. È proprio questa capacità di giocare che permette al bambino di iniziare quel distacco dalla figura materna, che è fondamentale per la crescita. Per un animatore è importante riconoscere i temi che emergono dai giochi del bambino, perché corrispondono al suo vissuto particolare. Il gioco, infatti, va collocato, per poterlo comprendere, all’interno della globalità e della peculiarità di quel bambino, di quel gruppo, in relazione con l’età evolutiva che sta attra-versando e con le modalità espressive tipiche dei coetanei. Attraverso la
simula-zione, Il gioco del come sé, il bambino può reiterare eventi felici della propria
espe-rienza, rifornendosi così di fiducia e speranza nel futuro. Al tempo stesso, può ri-tornare a situazioni dolorose senza riviverle veramente, ma rielaborarle per atte-nuare timori e angosce. Attraverso l’imitazione si compie quel processo di adat-tamento del bambino alla realtà. Nei giochi di pratica, infatti, provando e ripro-vando i bambini combinano e trasformano vecchi schemi in comportamenti mo-tori sempre più complessi.
Si avvia, così, quel processo di concettualizzazione proprio dei giochi di gruppo, codificati da regole condivise, nei quali il proprio agire è rilevante quanto quello dei compagni di gioco. Quelle regole praticabili senza pericolo riproducono in modo ludico le regole della vita: come si entra a far parte di un gruppo; quali prove superare per appartenerci; come si gestisce un conflitto; come si decide chi è primo; quando è meglio ricorrere alla sorte per diminuire la responsabilità di ciascuno. Nel confronto con gli altri si apprendono identità e differenze, si tol-lerano le diversità, s’impara ad accettare vittorie e sconfitte.
Anche per Erikson (1981) il gioco rappresenta una frontiera tra finzione e realtà, in quanto ciò che si fa non è ciò che sembra. Se nel rispetto delle regole si acquisiscono consapevolezza e controllo di sé, nel gioco libero si sviluppano l’espressività e la creatività, che favorisce l’esplorazione e la ricerca di nuove so-luzioni a situazioni problematiche.
Il gioco è anche linea di confine tra gli aspetti istintuali, come scarico di ener-gie in eccesso, e quelli culturali, che ne fanno un mezzo di relazione, un occasio-ne di apprendimento e di creaziooccasio-ne per tutto l’arco della vita.
In questa prospettiva, l’animazione esplora l’insieme delle dimensioni del gioco, percorrendo anche i territori della festa, del rito e dello spettacolo. Va così 61
scoprendo e sperimentando le potenzialità di cambiamento sociale insito nell’a-zione ludica collettiva.
Il gioco, quindi, s’inserisce intenzionalmente nel processo animativo per sti-molare la creatività e l’operatività personale, per innescare nuove conoscenze, per apprendere comportamenti poco noti o poco usati. Il bambino, come l’adole-scente e l’adulto può così sperimentare atteggiamenti che lo coinvolgono anche e soprattutto a livello emotivo: un gioco scelto e accettato, qualsiasi sia il suo utente, offre sempre una possibilità di crescita.