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Nel documento Il castello di Pietrabuona (pagine 165-175)

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volto di ciascun evangelista e quello del santo monaco è caratterizzato puntualmente nei tratti fisionomici, mentre l’uso della colorazione delle lamine con smalti blu cobalto, ver- de brillante, giallo oro e violetto sfumato ci riportano alle coeve opere di oreficeria fio- rentina. Appare inoltre tale la dipendenza stilistica di questo esemplare dal crocifisso eseguito dallo stesso Ghiberti per la porta Nord del Battistero di Firenze, da far pensare ad una personalità all’interno dell’entouragedi quest’ultimo12.

Di pari passo, l’apertura culturale verso le novità senesi e fiorentine si affaccia anche nella produzione scultorea locale, in particolare in quella lignea, di cui rimane testimo- nianza nei numerosi esemplari diffusi un po’ ovunque nel territorio pesciatino e nella Valleriana. Dopo aver accolto e ripetuto, talvolta stancamente, le forme, i volumi, i mo- duli compositivi dell’arte di Nino Pisano fino almeno all’ultimo quarto del XIV secolo, a partire dalla fine degli anni Novanta si registra un lento ma progressivo mutamento di stile, in concomitanza con la presenza di opere di artisti di rilievo, quali il già ricordato Ghiberti e il senese Francesco di Valdambrino. Vale la pena ricordare che entrambi gli scultori si formarono in ambiti diversi – orafo il primo, scultoreo il secondo –, in due città toscane ben aggiornate sulla lezione tardogotica d’oltralpe: a Firenze, dove era già aper- to il cantiere della Porta della Mandorla nella fiancata settentrionale del duomo, e a Lucca, nella quale lavoravano personalità come Spinello Aretino e il miniatore Martino di Bartolomeo, autore della decorazione di cinque corali per la cattedrale. È necessario poi aggiungere che sia Ghiberti che Valdambrino parteciparono, nel 1401, al celebre concor- so per la porta Nord del battistero fiorentino, vinto poi dal primo; dopo tale data, la loro arte guardò a moduli che spesso trovano dei punti di tangenza, soprattutto nell’elegante gestualità e dinamismo delle figure, nonché nell’attenzione verso la natura. La tradizione tardo-trecentesca iniziava cioè a divergere in direzione di un linguaggio più moderno, nel quale assumeva valore soprattutto la gestualità affettuosa, sottolineata da intensi scam- bi di sguardi e dall’elegante posizione ad hanchementassunta dalle figure13. Ed è pro- prio in questo volgersi al XV secolo che va collocata la statua lignea del San Matteodi Pietrabuona, purtroppo posta in una infelice condizione di fruibilità e ricoperta da uno strato policromo sicuramente non originale, contraddistinta da toni bruni e riccamente decorata da numerosi ex votometallici a forma di cuore nella parte inferiore della veste (fig. 3). Il santo è rappresentato stante e in posizione rigidamente frontale, vestito con un abito dallo scollo molto ampio e dalle maniche larghe, con un mantello caratterizzato da fitte pieghe che scaturiscono dalla spalla sinistra e corrono lungo tutto il corpo, fino al fianco opposto. Le pieghe a canna della veste sono disposte a raggiera sulla parte bassa del ventre, sulle gambe e sulla manica a partire dalla piega del gomito destro. Piega che si fonde con l’orlo del manto togato, presentante un grande risvolto che dona ai panneggi sinuosità ed eleganza. Le braccia, che rivelano una corporatura esile ed una

postura rigida, sono strette e aderenti al corpo, mentre il volto, realizzato sulla base di uno schema semplice e di volumi elementari, è fisso ed immobi- le, contornato da una folta barba e da una capiglia- tura geometrica ed equilibrata. Il santo è sicuramen- te opera di un maestro locale, probabilmente legato alla sola area pesciatina: si tratta di una personalità che dimostra una aderenza totale ai moduli trecen- teschi pisani, maturati però alla luce delle prime ri- cerche di Francesco di Valdambrino. Nonostante la sua forzata rigidità, infatti, quest’opera appare ad- dolcita nelle forme; la resa delle ciocche dei capelli e della barba, così morbidamente appoggiate al volto, guarda certo al naturalismo dell’artista senese che molto lavorò a Lucca e nel suo contado14. Al mede- simo artista, ben riconoscibile dal modo particolare di drappeggiare le forme con festoni e pieghe a can- na, devono riferirsi anche un paio di statue lignee, una rappresentante un Giovane santo non ancora identificato – conservata al Museo civico di Pescia –, l’altra un San Martino, oggi nella chiesa parroc- chiale di Vellano. Esse sono il portavoce del percor- so di maturazione che l’anonimo scultore ha com- piuto tra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento; percorso nel quale il San Matteo di Pietrabuona va a collocarsi centralmente, apparen- do come il manufatto più pregevole a lui attribuito. Il rapporto che legava il paese di Pietrabuona all’ambito pesciatino e, tramite que- st’ultimo, a quello fiorentino e lucchese, si mantenne certamente immutato e costante per tutto il XV ed il XVI secolo. È il momento in cui la nobiltà di Pescia, sicura di una cre- scente disponibilità finanziaria costruita su una fortuna economica guadagnata in diversi settori manifatturieri (gelso, seta e carta), creò relazioni strette, soprattutto per via matri- moniale, con il patriziato fiorentino. La ricchezza e l’importanza di alcune commissioni, prime fra tutte quelle patrocinate dalle famiglie Cardini, Cecchi e Turini, quindi, si inseri- scono in un ambiente mecenatizio che mantenne vive le proprie peculiarità culturali, ag- giornandosi di volta in volta su quanto veniva proposto nei più significativi dibattiti figu- rativi del tempo15. Proprio per questa vivacità intellettuale e creativa della città pesciati-

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Capitolo II - Il castello di Pietrabuona

Fig. 3 - Scultore di ambito lucchese,San Matteo, primo decennio del XV secolo, Pietrabuona, chiesa dei Santi Matteo e Colombano (Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico e Artistico ed Etnoantropologico (SSPSAE) e per il Polo Museale della città di Firenze - Gabinetto Fotografico. Riproduzione fotografica n. 167685)

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na appare ancor più stridente il vuoto crea- tosi per il borgo di Pietrabuona nei con- fronti delle testimonianze artistiche attri- buibili al Quattrocento o al Cinquecento, in particolare quelle pittoriche16.

Siamo già alle soglie del Concilio di Trento ma, prima che il linguaggio artistico inizi a subire i mutamenti voluti dalla Chiesa cattolica in favore della chiarezza compositiva e del decoro, continuano ad esistere forme d’arte in linea con il predo- minante gusto manierista, in particolar mo- do negli arredi liturgici. È il caso del taber- nacolo eucaristico di Pietrabuona, fino agli anni Ottanta del Novecento ospitato nell’o- ratorio della confraternita, recentemente collocato nella sacrestia della chiesa par- rocchiale del paese (fig. 4). Intagliato nel legno, poi dipinto e dorato, esso è ascrivibi- le al nono decennio del Cinquecento sia per la tradizionale presenza del motivo a grottesche, sia per la novità dell’inserimen- to delle volute a ricciolo che incorniciano la sede dell’eucaristia. L’utilizzo della grotte- sca rientra in quella tipologia di decorazio- ne che si diffuse ampiamente a partire dal- la fine del XV secolo, e che deve la propria

origine ai dipinti parietali riscoperti a Roma negli ambienti della Domus Aurea neronia- na. Dopo una prima fase, il cui momento più importante è rappresentato dagli affreschi della Libreria Piccolomini nel duomo di Siena, opera del Pinturicchio, essa conobbe un’ulteriore diffusione grazie all’acquisizione di tale genere da parte di Raffaello e della sua bottega, soprattutto nella persona di Giovanni da Udine, nelle imprese decorative dei palazzi vaticani a partire dal 1516. Appunto a quest’ultimo momento si ispira colui che intagliò il tardo esemplare di Pietrabuona che, seppur nella sua qualità artistica non proprio eccellente, lungo le finte paraste ai lati della nicchia preposta ad ospitare il sa- cramento, ripropone in forme ieratiche e semplificate le figure di genietti miste a motivi a palmetta o a foglia d’acanto, conosciute grazie alle riproduzioni che all’epoca compari- Fig. 4 - Scultore di ambito toscano,Tabernacolo eucaristico, nono decennio del XVI secolo, Pietrabuona, ex Oratorio di San Michele, oggi

sacrestia della chiesa parrocchiale (Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico e Artistico ed Etnoantropologico (SSPSAE) e per il Polo Museale della città di Firenze - Gabinetto Fotografico. Riproduzione fotografica n. 290922)

vano su repertori a stampa. Con l’avvento del clima spirituale determinato dalla riforma luterana, che aveva generato forti tensioni religiose e morali e che la Chiesa di Roma aveva tentato di arginare e controllare promuovendo un programma di rinnovamento, la maggior parte degli arredi sacri rispondenti allo stile manierista andarono incontro alla distruzione, oppure a trasferimenti in cappelle e oratori minori, affinché gli edifici di culto maggiori si dotassero di nuova suppellettile, aggiornata secondo le nuove disposizioni conciliari. Fu probabilmente quanto accadde al tabernacolo di Pietrabuona, che si ipotiz- za fosse stato trasferito già agli inizi del Seicento nel locale dell’oratorio della confrater- nita, perché ritenuto ormai non più aggiornato secondo il gusto del tempo17.

A seguito del Concilio di Trento, svoltosi a più riprese tra il 1545 ed il 1563, furono elaborate direttive precise in cui venivano additati e censurati tutti gli eccessi e i virtuo- sismi del periodo precedente, affinché le arti fossero indirizzate verso un fine educativo e verso la riedificazione, il restauro e l’abbellimento degli edifici ecclesiastici. La Chiesa cattolica dette quindi inizio a un processo di epurazione dell’immenso patrimonio ico- nografico della tradizione cristiana, bandendo i soggetti che si prestavano a interpreta- zioni profane. Vennero privilegiati i temi adatti alla meditazione e alla penitenza, come i momenti più drammatici della passione di Cristo e gli episodi più edificanti di virtù cristiane. A Firenze l’adeguamento del linguaggio artistico agli ideali tridentini di con- venienza e verosimiglianza seguì due filoni principali: il primo si ricollegava ad esempi relativamente recenti – e mai dimenticati – di inizio secolo, cioè al classicismo devoto di Fra’ Bartolomeo e al patetismo affidabile di Andrea del Sarto, di cui si faceva “porta- voce” Santi di Tito. Il secondo filone, invece, orientava la scelta delle politiche figurative verso una visione più naturalistica dell’arte, in concomitanza con la riscoperta dell’im- portanza del colore e della luce, prerogativa della pittura veneta, recentemente rivalu- tata da alcuni pittori, quali Passignano e Cigoli18. Forse per la sua provenienza e for- mazione veronese, una volta giunto a Firenze nel 1578, anche Jacopo Ligozzi si inseri- sce in quest’ultimo ambito, ottenendo incarichi di notevole prestigio, sia da parte della famiglia granducale che da committenze religiose. Di lui dovette forse colpire la vena poetica, la serenità espressiva, la predisposizione al naturale, che sfociava nella minuta attenzione per i dettagli. Egli lavorò, sul finire del secolo, anche nella città di Lucca e da qui, nel 1593, si trasferì a Pescia, dove dipinse per la chiesa di San Francesco il

Martirio di Santa Dorotea. L’opera fu definita “stupenda” dall’erudito settecentesco Luigi Lanzi, nel suo volume Storia pittorica dell’Italia: “Il palco, il carnefice, il prefetto che stando a cavallo gli dà ordine di ferire, la gran turba dei circostanti in varie sem- bianze ed effetti, tutto l’apparato di un supplicio pubblico ferma e incanta ugualmente chi sa in pittura e chi non sa”19. Non sappiamo se in occasione dell’esecuzione della tela posta nella chiesa francescana di Pescia, Jacopo Ligozzi dipinse anche il Cristo 166

Bambino redentore, vero e proprio gioiello nascosto nella chiesa dei Santi Matteo e Colombano di Pietrabuona (fig. 5). Chiaramente ispirato alla tradi- zione iconografica del putto con il te- schio inteso come memento mori, il fanciullo riassume su di sé l’allegoria della redenzione e della vittoria sul peccato e sulla morte attraverso la ri- surrezione. Disposto frontalmente, in- dossa una ricca veste rossa su cui scende uno scapolare recante i simboli della passione. Il capo leggermente in- clinato poggia sul dorso della mano in attitudine meditativa, mentre il gomito poggia su un teschio; nella mano sini- stra, però, stringe il grande vessillo crociato del Cristo risorto e sotto i pie- di schiaccia il drago, simbolo del de- monio e della morte. Nonostante il te- ma raffigurato sulla tela possa indurre a pensare che tale soggetto potesse essere piuttosto singolare nella produ- zione pittorica del tempo, esso aveva al contrario ampia circolazione all’epo- ca: lo ritroviamo trattato anche in una rara acquaforte di Jacques Callot cui il dipinto è molto prossimo in quasi tutti i particolari. L’attribuzione al Ligozzi è comunemente accettata dalla critica, non soltanto per la presenza dell’arti-

sta a Pescia e a Lucca durante gli ultimi anni del Cinquecento e i primi del Seicento, ma soprattutto perché sono presenti nella tela talune peculiarità tipiche del repertorio li- gozziano, come il vaso di fiori ed il teschio20.

Pur rappresentando certamente un unicumnel paese di Pietrabuona, l’arrivo del qua- dro del pittore veneto fu il raffinatissimo punto di partenza di quella fase di aggiornamen-

to stilistico in chiave controriformata che, per la chiesa di San Matteo e Colombano, come 167 L’immagine descritta

Fig. 5 - Jacopo Ligozzi,Cristo Bambino redentore, 1595 ca., Pietrabuona, chiesa dei Santi Matteo e Colombano (Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico e Artistico ed Etnoantropologico (SSPSAE) e per il Polo Museale della città di Firenze - Gabinetto Fotografico. Riproduzione fotografica n. 290950)

per tutte le parrocchie della praepositura nul- liuspesciatina, durò almeno fino al quarto de- cennio del Seicento. La lenticolare attenzione al dato naturale, fin nei dettagli, specialmente nella resa delle vesti e dei gioielli che spesso connota la pittura di Jacopo Ligozzi, la ritro- viamo reinterpretata in chiave personalissima nella pala d’altare raffigurante l’Incoronazio- ne della Vergine, oggi nei depositi della Soprintendenza fiorentina in attesa di restauro (fig. 6). Firmata dal pittore pesciatino Ippolito Brunetti, la tela si inserisce stilisticamente e cronologicamente nelle ricerche pittoriche im- mediatamente successive alla permanenza del Ligozzi nell’area tra Pescia e Lucca. Tipica del Brunetti è una pittura piuttosto dura e taglien- te, soprattutto nella resa marcata e rigida del- le membra dei personaggi, dei profili dei volti, dei gesti e dei panneggi, in linea con quanto venne eseguito dallo stesso autore, per esem- pio, nella Sacra conversazionedipinta per il re- fettorio delle monache del convento di San Michele. Originario di Firenze, Ippolito si tra- sferì forse a Pescia con l’obiettivo di trovarvi un ambiente fecondo e ricco di committenze che invece la città granducale non forniva più. Fino al primo decennio del Seicento, infatti, egli lavorò costantemente per la Chiesa e la nobiltà pesciatina, lasciando i propri quadri anche nelle zone limitrofe: La Costa, Uzzano e, in Valleriana, San Quirico21.

Cronologicamente afferente a questo periodo è anche un crocifisso ligneo, intagliato secondo moduli stilistici vicini all’opera di Pietro Tacca, e riprodotto dagli artigiani locali anche per gli altri castelli della Valleriana (fig. 7). L’ampia diffusione di oggetti di questo tipo, tutti dipendenti dallo stesso modello, conferma l’ipotesi secondo la quale doveva esistere una attiva committenza locale che, non potendosi permettere di richiamare arti- sti di grande rilievo, si rivolgeva ad una produzione autoctona, consapevole delle più ag- giornate formule artistiche del tempo. La figura del Cristo, infatti, per le sue forme così

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Capitolo II - Il castello di Pietrabuona

Fig. 6 - Ippolito Brunetti,Incoronazione della Vergine, Fine del XVI-inizi del XVII secolo, Pietrabuona, chiesa dei Santi Matteo e Colombano (in restauro presso la Soprintendenza dei Beni Artistici di Firenze) (Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico e Artistico ed Etnoantropologico (SSPSAE) e per il Polo Museale della città di Firenze - Gabinetto Fotografico. Riproduzione fotografica n. 167683)

robuste e compatte si avvicina a quella di un al- tro esemplare, oggi conservato nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo di Sorana, che denuncia chia- ramente una ripresa della plastica tacchiana nella sua monumentalità dei volumi, nei tratti fisiono- mici ben definiti del volto di Gesù, nell’effetto di- namico ottenuto dalle pieghe del perizoma. La presenza di crocifissi attribuibili a Pietro Tacca, documentati nell’area pistoiese intorno al primo decennio del XVII secolo, fa ipotizzare che le maestranze attive nella Valleriana avessero cono- sciuto e studiato tali opere per poi reinterpretarle una volta tornati nei loro luoghi di origine22. La bella testa del crocifisso di Pietrabuona, affonda- ta nella curva creata dalle braccia, non fa pensare alla morte, ma ad un sonno pesante di un corpo ancora vivo; non c’è sofferenza nell’uomo appeso alla croce, ma la speranza serena della promessa della risurrezione23.

Dipinta da un anonimo pittore toscano, ma riferibile a modelli certamente non fiorentini, in- vece, è la tela raffigurante la Sacra famiglia, conservata nella canonica della chiesa parroc- chiale di Pietrabuona e databile intorno alla se- conda metà del Seicento (fig. 8). Il dipinto costi-

tuisce una delle più belle e letterali rielaborazioni offerte dagli artisti seicenteschi di un tema prettamente raffaellesco, quello della Madonna della cesta, la cui copia più cele- bre è di mano del Correggio. Tuttavia è il bolognese Annibale Carracci, cui la tela si ispira, a costituire il diretto riferimento, derivante in particolare da questo olio su rame, oggi alla National Gallery di Londra24. Si devono notare in esso la pienezza di sensi con cui quel modello viene restituito, calandolo entro una dimensione di affetti dome- stici e quotidiani. Interessanti sono anche gli scorci paesaggistici rivelati nello sfondo: paesaggi caldi, sfumati, di sapore estivo, che testimoniano l’alta qualità dell’invenzione paesistica in ogni singolo particolare25. La riproposizione di composizioni d’ispirazione carraccesca, tuttavia, non deve risultare eccezionale per questi luoghi. Anzitutto perché non si deve mai sottovalutare l’importanza del ruolo rivestito dalla circolazione di

stampe nell’area pesciatina, che sappiamo ricca di raffigurazioni realizzate con tale 169 L’immagine descritta

Fig. 7 - Scultore di ambito toscano (da Pietro Tacca), Crocifisso, primo decennio del XVII secolo, Pietrabuona, chiesa dei Santi Matteo e Colombano (Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico e Artistico ed Etnoantropologico (SSPSAE) e per il Polo Museale della città di Firenze - Gabinetto Fotografico. Riproduzione fotografica n. 290929)

tecnica26; in seconda istanza per la centralità dell’area della Valleriana come territorio di pas- saggio non solo tra Firenze e Lucca, ma anche come valico da e verso l’Appennino emiliano. Infine dobbiamo aggiungere come motivazione anche la grande fortuna che la pittura di Annibale e dei suoi allievi ebbe presso i con- temporanei per tutto l’arco del XVII secolo; for- tuna di cui è testimone in Valleriana anche un’altra opera, rappresentante l’Assunzione del- la Vergine, posta nell’abside della chiesa di Santa Maria Assunta di Stiappa, eseguita da un ignoto pittore lucchese che ha riletto con gran- de capacità alcuni moduli della pittura di Annibale Carracci e di Guido Reni.

Con quest’ultimo quadro si chiude l’analisi delle superstiti testimonianze artistiche presenti a Pietrabuona; testimonianze che pongono que- sto paese della Svizzera Pesciatina in una posi- zione culturale tutt’altro che marginale nel pano- rama artistico tra Trecento e Seicento. Opere di raffinata levatura come la croce astile attribuibile alla bottega del Ghiberti o il Cristo Bambino re- dentoredi Jacopo Ligozzi restano purtroppo ver- tici di una produzione mai più raggiunta27.

NOTE

* Dal contributo originario “L’immagine descritta” di Elisa Maccioni nel DVD allegato al volume.

1 ASLU,Commissione d’Incoraggiamento delle Belle Arti, in Inventari manoscritti, vol. XV, I, busta

n. 8, fascicoli 1-7 (serie “bacchette”).

2 Per un quadro riassuntivo concernente la Commissione d’Incoraggiamento delle Belle Arti, volu-

ta dalla duchessa Maria Luisa di Borbone, cfr. E. Maccioni,Commissione d’Incoraggiamento delle Belle Arti, in Viaggio in Valleriana, di A. Spicciani, Pisa 2008, pp. 177-197.

3 Cfr. par.L’oratorio di San Michele Arcangelo, in questo stesso volume.

4 Una esaustiva analisi storica dei territori di Pescia e della Valleriana in epoca medievale è stata

condotta da A. Puglia e da L. Bernardini in Pescia. Città tra confini in terra di Toscana, a cura di A. Spicciani, Milano 2006, pp. 17-84 e pp. 85-101. Per la bibliografia a riguardo si veda, nello stesso volu- me, F. Mari,Apparati, pp. 290-302.

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Fig. 8 - Artista di ambito toscano,Sacra famiglia, secon- da metà del XVII secolo, Pietrabuona, canonica

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