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2. APPRENDERE E INSEGNARE CON TESTA, CUORE E MANO

2.1 Come l’apprendimento modifica il cervello

2.2.2 L’intelligenza emotiva

Aver presentato, seppur brevemente, il concetto di intelligenza, ha fatto emergere un costrutto sempre più dibattuto in ambito scientifico, quello dell’intelligenza emotiva. Come già ricordato, fino alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, la ricerca psicologica ha progressivamente riconosciuto un posto privilegiato all’argomento dell’intelligenza, ma solo a partire dagli anni ’70 si ha cominciato a dirigere il focus sull’ambito delle emozioni, grazie agli studi di Ekman (1973), attraverso l’integrazione delle due sfere d’interesse. Come evidenziato nel paragrafo precedente, Gardner ritiene che le emozioni siano un fattore appartenente alla sfera cognitiva di ognuno e che interagiscano in ogni momento con la persona. L’intelligenza emotiva, secondo lo psicologo, non si riferisce ad un dominio singolo, ma rappresenta una componente trasversale alle intelligenze multiple. Se fino a pochi anni fa, si parlava di intelligenza e di specifici test per valutarla, in quanto preziosi strumenti predittori di numerosi fattori, tra cui il successo scolastico, oggi, sempre più spesso, viene chiamata in causa l’intelligenza emotiva. Secondo la vecchia concezione, un elevato quoziente intellettivo avrebbe dovuto corrispondere ad una elevata prestazione scolastica, poiché non venivano presi in causa fattori psicologici strettamente legati al processo di apprendimento, quali la motivazione, il senso di autoefficacia, le capacità personali e, non per ultima, la sfera emotiva. Anche in ambito neurologico, la ricerca, grazie alle tecniche di neuroimmagine, ha dimostrato la presenza di un’intelligenza distinta dal quoziente intellettivo e maggiormente legata alle emozioni. Attraverso tali strumenti, che hanno permesso di esaminare le lesioni cerebrali riscontrate nell’amigdala e nella corteccia pre-frontale, centri legati all’intelligenza emotiva, si è scoperto come danni in questa area producano dei deficit nelle abilità sociali, nel riconoscimento delle emozioni e, più in generale, nelle abilità relative all’intelligenza emotiva.

L’uso accademico del termine intelligenza emotiva, seppur ancora embrionale e parziale, si può ricondurre al ricercatore americano Bar-On che introdusse il termine “quoziente emotivo” e al collega Payne durante gli anni ’80 (Di Fabio, 2010, p.20). L’intelligenza emotiva riguarda la

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capacità di riconoscere i sentimenti propri e altrui, motivare se stessi e gestire le emozioni tanto interiormente, quanto nelle relazioni sociali. Numerosi studi hanno messo in luce come l’intelligenza emotiva sia un predittore del successo scolastico ed accademico (Lanciano & Curci, 2012), migliori le competenze personali e sociali (Zeidner, Matthews, & Roberts, 2012), riduca comportamenti a rischio e l’aggressività (Bagnato, 2013), potenzi la partecipazione e la motivazione scolastica (Richardson, Abraham, & Bond, 2012), incida sulle performance lavorative (Druskat, Mount, & Sala, 2013).

Nel corso degli anni sono stati sviluppati diversi modelli teorici riguardanti l’intelligenza emotiva, tra i più importanti vanno annoverati quelli di Salovey e Mayer, Goleman, Bar-On, Petrides e Furnham.

Nel 1990 Salovey e Mayer, per primi, hanno utilizzato il termine intelligenza emotiva per connotare quella particolare forma di intelligenza facente parte dell’intelligenza sociale, volta alla discriminazione di sentimenti ed emozioni e ad un loro uso consapevole e pertinente nella vita quotidiana. Tale prospettiva ha permesso di modificare il paradigma di riferimento, definendo l’intelligenza emotiva una vera e propria abilità. Il modello originale discriminava tre processi mentali tra loro connessi: la valutazione, la regolazione e l’utilizzo dell’emozione. Tuttavia, a seguito delle influenze degli studi condotti da Goleman, gli autori attuano un’evoluzione del modello originario e formulano il Four-Branch Model, mediante il quale attribuiscono una maggior importanza alle componenti cognitive e contemplano il ruolo dell’intelligenza emotiva in una prospettiva di sviluppo a lungo termine. Tale modello prevede quattro componenti dell’intelligenza emotiva, basate sui processi psicologici della mente umana: la percezione ed espressione delle emozioni, la loro regolazione conscia e riflessiva. Grazie a Salovey e Mayer, l’intelligenza emotiva diventa un costrutto psicologico, un’abilità che è possibile apprendere e sviluppare (Morganti, 2012).

Nel 1995, Daniel Goleman si afferma come studioso e raggiunge una importante notorietà in ambito editoriale, cavalcando l’onda del malessere della società moderna pregna di miseria emotiva, grazie alla celeberrima pubblicazione Emotional Intelligence. Secondo lo studioso l’intelligenza emotiva è la capacità di motivare se stessi, di persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni, di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione, di modulare i propri stati d’animo evitando che la sofferenza impedisca di pensare, di essere empatici e di sperare (Goleman, 1996). Contrariamente a Gardner, Goleman considera l’intelligenza emotiva un insieme di competenze e abilità, più che un talento innato, che può venire sviluppata mediante percorsi di alfabetizzazione in qualsiasi momento della vita. Se è

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possibile affermare che sin dai tempi antichi la filosofia ha perpetuato una netta separazione tra la componente razionale e quella emotiva della mente, mostrando evidenti ripercussioni ancora oggi, Goleman affronta la differenza tra mente razionale e mente emozionale, dove la prima rappresenta una modalità di comprensione, mentre la seconda un sistema di conoscenza impulsiva e potente che porta ad una visione unitaria della mente.

Nel 1997, Reuven Bar-On sviluppa un modello teorico che definisce l’intelligenza emotiva come un costrutto multifattoriale comprendente abilità non cognitive, quali quelle emotive, personali e sociali che influiscono sul modo di fronteggiare le domande, le pressioni dell’ambiente circostante e sulla capacità di avere successo nella vita (Bar-On, 2002). Anche Bar-On è concorde nell’affermare che tale intelligenza possa essere appresa e sviluppata grazie ad opportuni interventi formativi. L’autore individua cinque dimensioni dell’intelligenza emotiva, ognuna delle quali è suddivisa a sua volta in ulteriori sottodimensioni, riferite alla consapevolezza delle proprie emozioni, alla capacità di esprimere i propri sentimenti, alla capacità di gestire le emozioni, alle abilità interpersonali, alla capacità di risolvere problemi attraverso la gestione e la regolazione delle emozioni, all’umore generale, ovvero all’abilità di provare sentimenti positivi.

In base ai diversi approcci teorici di riferimento, è possibile trovare in letteratura numerosi test standardizzati di abilità per la rilevazione dell’intelligenza emotiva, tra cui: il MSCEIT (Mayer-Salovey-Caruso Emotional Intelligence Test) volto alla valutazione dell’intelligenza emotiva in base alle sue quattro componenti (percepire, utilizzare, comprendere e gestire le emozioni); il EQ-i (Emotional Quotient Inventory) per la rilevazione dell’intelligenza emotiva percepita in base alle dimensioni psicologiche di natura emotiva e sociale orientate al benessere psicologico; l’EIS (Emotional Intelligence Scale) costruito secondo le tre dimensioni del modello teorico di Salovey e Mayer (valutazione ed espressione, regolazione e utilizzo delle emozioni); l’ECI 360 (Emotional Competence Inventory) volto alla valutazione delle competenze emotive individuali delineate nel modello teorico di Goleman; l’Org-EIQ (Organizational-Emotional Intelligence Questionnaire) basato sui modelli teorici di Bar-On e di Goleman (Di Fabio, 2010, pp.32-46).

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