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La concezione convenzionale della giustizia

Capitolo I. Assiologia della pena

1.2. Iustitia hominum: la giustizia come ordine artificiale

1.2.1. La concezione convenzionale della giustizia

Il fattore in comune di questa seconda fonte di legittimazione della questione punitiva è che gli argomenti a sostegno di una certa idea di giustizia come ragion d’essere del potere di punire, insieme al lessico impiegato per esplicitare le sue manifestazioni, sono prevalen- temente prodotto di uno sguardo rivolto agli uomini e alla complessità dei rapporti che ne- cessariamente intercorrono fra di loro in quanto fatti per vivere in società, predisposti a far- lo o quantomeno costretti a riconoscere la necessità di farlo.

Prima delle leggi divine, di quelle morali e delle leggi civili e di politica che ricordava Montesquieu, “vi sono quelle di natura. Così chiamate perché derivano unicamente dalla costituzione del nostro essere. Per ben conoscerle, bisogna considerare l’uomo prima che le società fossero costituite. Le leggi di natura sono quelle che egli riceverebbe in un simile stato [...] È chiaro che le sue prime idee non sarebbero affatto speculative, prima di indaga- re l’origine del proprio essere, egli penserebbe alla propria conservazione” . 78

Ibid.

Questa premura nel considerare l’uomo e le sue diverse stagioni è una peculiarità della ricerca della iustitia hominis. Nell’Emile, Rousseau afferma che “bisogna studiare la socie- tà attraverso gli uomini, gli uomini attraverso la società” . 79

L’orizzonte di questa concezione della giustizia è definito a partire dalle ipotesi sulla condizione pre-politica dell’uomo, quale epifania come spia della sua autentica natura. A partire da queste ipotesi gli autori hanno tratto delle conclusioni sulle condizioni favorevoli e sfavorevoli all’unione degli individui in società e al riconoscimento di un’autorità comu- ne. Prendendo le mosse da questa impostazione, lo strumento di conoscenza non è più la rivelazione ma l’uso della ragione soprattutto in senso critico. Il lessico delle manifestazio- ni del potere di punire cambia da “dovere di punire” a “diritto di punire”, intimamente le- gato alla facoltà di auto-conservazione e alla sopravvivenza. Il punto di partenza non è il giardino dell’Eden, che rimanda al concetto di ubbidienza nel discernimento fra il bene e il male, ma l’ipotetico fiat che rese possibile il passaggio dallo stato di natura allo stato socia- le, che a sua volta rimanda ai concetti di anomia e governabilità.

Fra coloro che hanno ipotizzato i connotati dell’umana condizione ai primordi della ci- viltà, alcuni hanno prefigurato il regno del caos, mentre altri hanno invece cosparso di più allegri colori il cosiddetto stato di natura. Montesquieu appartiene a questo secondo gruppo intriso di ottimismo antropologico. Nelle sue Lettere persiane gli uomini vengono tratteg- giati come esseri “nati per essere virtuosi” e la giustizia come “una qualità che è loro pro- pria come l’esistenza”. In Lo spirito delle leggi, lo stato di natura non è rappresentato come completamente caotico. In questo primo stadio, l’individuo è rivestito di una certa dignità, considerando che non è dipinto come un essere sprovvisto di ogni nozione, ma che “piutto- sto che conoscenze, possederebbe la facoltà di conoscere” . 80

Un uomo simile, all’inizio, non sentirebbe che la propria debolezza; la sua timidezza sarebbe estrema; […] ricordiamoci che si sono trovati, nelle foreste, uomini selvaggi, tutto li fa tremare, tutto li fa fuggire. In una simile condizione, ciascuno si sente in stato di inferiorità, o a malapena uguale agli altri. Gli uomini non cercherebbero, quindi, di attaccarsi, e la pace sarebbe la prima legge naturale . 81

J.J. Rousseau, Emilio, o dell’educazione (1762), Armando editore, Roma 1994, p. 364.

79

Montesquieu, Lo spirito delle leggi, cit. Parte prima, libro I, cap. II, pp. 149-150.

80

Ivi, p. 150.

Alla pace, che sarebbe la prima legge naturale, Montesquieu ne congiunge altre: mosso dai propri bisogni la seconda legge naturale sarebbe “quella che indurrebbe a mettersi alla ricerca del cibo”. Nonostante la paura che “porterebbe gli uomini a fuggirsi”, “i segni di un timore reciproco li convincerebbero ben presto ad avvicinarsi” spinti dal piacere di incon- trare i loro simili e dal “fascino che si ispirano i due sessi con le loro differenze, aumente- rebbe questo piacere, e la preghiera naturale che essi si rivolgono sempre l’un l’altro for- merebbe una terza legge”. La quarta legge naturale consiste nel “desiderio di vivere in so- cietà”, nella quale gli uomini, appena entrati, “perdono il senso della loro debolezza; cessa l’uguaglianza che esisteva fra loro e lo stato di guerra comincia” . 82

Sull’uguaglianza naturale fra gli uomini Montesquieu precisa che “nello stato di natura, gli uomini nascono sì in condizione di uguaglianza, ma non potrebbero rimanervi. La soci- età gliela fa perdere ed essi non ridiventano uguali che in grazia delle leggi”. Il bersaglio polemico è Hobbes, che nel De cive sostenne che “tutti gli uomini sono per natura uguali tra loro” e che la disuguaglianza, che ora si scorge, è stata introdotta dalle leggi civili” . 83 La chiamata in causa di Hobbes diventa esplicita nello Spirito delle leggi: “Il desiderio che Hobbes attribuisce, fin dal principio, agli uomini di soggiogarsi a vicenda, non è ragionev- ole. L’idea dell’imperio e della dominazione è tanto complessa e dipende da tante altre idee che non sarebbe certamente la prima” . 84

Il dissenso fra Montesquieu e Hobbes è solo un esempio delle tante critiche che fra di loro si rivolgevano i philosophes. Montesquieu chiama in causa Hobbes, e quest’ultimo, a sua volta, aveva chiamato in causa gli scrittori che ingenuamente si mostravano fiduciosi nella predisposizione sociale degli individui:

la maggior parte degli scrittori politici suppongono o pretendono o postulano che l'uomo sia un animale già atto sin dalla nascita a consociarsi (i greci dicono zòon politikòn, animale politico) e su questa base costi- tuiscono le loro teorie politiche come se non vi fosse bisogno per conservare la pace e l'ordine di tutto il genere umano, di null’altro che di una concorde osservanza, da parte degli uomini, di determinati patti e con- dizioni che essi stessi chiamano senz'altro leggi. Ma questo assioma è falso, benché accettato dai più; e l'erro- re proviene da un esame troppo superficiale della natura umana. Infatti, ad osservar più a fondo le cause per cui gli uomini si consociano, e fruiscono di reciproci rapporti sociali, si noterà facilmente che questo conso-

Ibid. 82

T. Hobbes, Elementi filosofici sul cittadino (De cive), a cura di Norberto Bobbio, Tea, Milano 1994, cit., p.

83

82.

Montesquieu, Lo spirito delle leggi, cit., p. 150.

ciarsi non avviene in modo che per natura, non possa accadere altrimenti, ma è determinato da circostanze contingenti. [...] Noi non cerchiamo quindi, per natura, amici, ma ci avviciniamo a persone da cui venga onore e vantaggio. Questo cerchiamo in primo luogo, e quelli solo secondariamente . 85

In questo caso Hobbes disputa contro Grozio e Pufendorf per le note pacifiche con cui avevano composto il patto sociale, e con la dottrina arisotlelico-scolastica che attribuisce alla società un fondamento naturale e non convenzionale in quanto l'uomo viene da esse considerato come un essere naturalmente sociale.

“Ogni patto sociale si contrae o per utilità o per ambizione, cioè per amor proprio e non già per amor dei consoci”, prosegue Hobbes, “se è vero poi che le comodità di questa vita possono essere aumentate dal reciproco aiuto, è pur vero che questo si può ottenere molto meglio dominando sugli altri che unendosi a loro su un piano di uguaglianza, onde nessuno potrà dubitare che gli uomini, per loro natura, sarebbero portati, se non vi fosse il timore, piuttosto a dominare che ad associarsi. Bisogna dunque concludere che l'origine delle grandi e durevoli società deve essere stata non già la mutua simpatia degli uomini ma il reciproco timore” . 86

Nella lugubre raffigurazione hobbesiana, “la volontà di nuocere è insita a tutti, nello sta- to naturale” , e “se due uomini desiderano la medesima cosa, di cui tuttavia non possono 87 entrambi fruire, diventano nemici e, nel perseguire il loro scopo (che è principalmente la loro conservazione e talvolta solo il proprio piacere) cercano di distruggersi e di sottomet- tersi l’un l’altro” , e questo comporta la guerra di tutti contro tutti. La via di scampo è in88 - vestire di autorità un potere comune per istituire la pace, impresa possibile in quanto la ra- gione, comune a tutti gli uomini, “suggerisce convenienti articoli di pace su cui gli uomini possono essere tratti ad accordarsi. Questi articoli sono quelli che vengono altrimenti chiamati leggi di natura” . 89

La legge di natura è definita come “un precetto o una regola generale scoperta dalla ra- gione, che proibisce ad un altro uomo di fare ciò che distruggerebbe la sua vita o che gli toglierebbe i mezzi per conservarla, e di non fare ciò che egli considera meglio per conser-

T. Hobbes, Elementi filosofici sul cittadino (De cive), pp. 76-78.

85

Ibid.

86

Ivi, p. 24.

87

T. Hobbes, Leviatano, cit., p. 128.

88

Ivi, p.134.

varla” . La legge di natura fondamentale “vieta ad un uomo di fare ciò che è lesivo della 90 sua vita o che gli toglie i mezzi per preservarla, e di omettere ciò con cui egli pensa possa essere meglio preservata ”. Secondo Hobbes è una regola della ragione “che ogni uomo 91

debba sforzarsi alla pace, per quanto abbia speranza di ottenerla, e quando non possa ot- tenerla, cerchi e usi tutti gli aiuti e i vantaggi della guerra” . La ricerca della pace implica 92 una seconda legge di natura: “che si sia disposti, quando anche altri lo siano, a rinunciare, nella misura in cui lo si ritenga necessario alla pace e alla propria difesa, al diritto su tutto e ci si accontenti di avere tanta libertà nei confronti degli altri quanta se ne concede agli altri nei confronti di se stessi” . E la terza legge naturale stabilisce “che gli uomini adempiano i 93 patti fatti da loro” . 94

Le leggi naturali, però, “non sono che conclusioni o teoremi concernenti ciò che con- duce alla conservazione e alla difesa degli uomini, mentre la legge è propriamente la parola di colui che detiene per diritto l'impero sugli altri” . A riguardo, Norberto Bobbio puntual95 - izza che in Hobbes “la legge naturale afferma che per raggiungere il fine prescritto dalla stessa legge naturale l’uomo deve lasciarsi governare dalle leggi positive” . Siccome la 96 terza legge naturale vieta di violare i patti, allora comanda di obbedire alle leggi civili. In questo modo si riveste di legittimità il contenuto dei patti civili, e viene operata una svolta rispetto alla stabile tendenza fra i suoi predecessori di identificare un ordine divino o natu- rale - ma in ogni caso superiore - che fissava i limiti della giustizia. Effettivamente Hobbes, senza indugiare, sostenne nettamente che “vero e falso sono [...] attributi del discorso e non delle cose. E dove non esiste discorso, non esistono né verità né falsità” . E per giunta, che 97 “nel mondo non esiste nulla di universale ad eccezione dei nomi. Le cose nominate, infatti, sono tutte individuali e singolari” , il che sarebbe incompatibile con una nozione univer98 - sale e costante della giustizia.

Ivi, p. 105.

90

Ibid.

91

Ivi, p. 135. Corsivo presente nel testo.

92 Ibid. 93 Ivi, p. 29. 94 Ivi, p. 27. 95

N. Bobbio, Thomas Hobbes, Einaudi, Torino, 2004, p. 119.

96

T. Hobbes, Leviatano, cit., p 29.

97

Ivi, p. 27.

Anche se entrambi rivolsero lo sguardo verso l’uomo, Montesquieu e Hobbes sono giunti a destinazioni opposte. Per il primo esistono vere leggi di natura, per il secondo queste sono solo teoremi. Il primo crede nell’esistenza della giustizia come ordine costante ed eterno, mentre il secondo lo nega, approdando a una concezione integramente conven- zionale della giustizia.