Capitolo I. Assiologia della pena
1.2. Iustitia hominum: la giustizia come ordine artificiale
1.2.2. Legibus solutus: il potere penale in Hobbes
“Anti-metafisica e nominalismo - ha scritto Giorgio Grimaldi - costituiscono il centro dell'impianto hobbesiano, nel quale la giustizia e l’ingiustizia non vengono concepite in sé come tali, bensì sono possibili ed effettive solo dopo che un potere comune le abbia defi- nite, e ciò come qualcosa di assolutamente positivo” . Ma lo stesso Hobbes parrebbe ori99 - entarsi verso un concetto di ragione - comune a tutti gli uomini e suggeritrice delle leggi di natura - come qualcosa di universale. E inoltre fa ricorso ad alcuni principi della legge di natura come “la giustizia, l’equità, la moderazione, la misericordia” che definisce come 100 “immutabili ed eterne, giacché l’ingiustizia, l’ingratitudine, l’arroganza, la superbia, l’iniquità [...] non possono mai essere rese legittime” . Grimaldi, però, precisa che queste 101 oscillazioni di Hobbes sarebbero soltanto apparenti . A fare chiarezza sarebbe un passo 102 degli Elements of law:
Misura comune, alcuni dicono, è la retta ragione, coi quali io consentirei, se fosse dato di trovare a conoscere una cosa del genere in rerum natura. Ma solitamente, coloro che invocano la retta ragione per decidere qualche controversia, intendono la propria. Allora è certo che, dal mo-
G. Grimaldi, Leviatano o Behemoth. Totalitarismo e franchismo, Morlachi editori, Perugia 2009, p 89.
99
T. Hobbes, Leviatano, cit., p 165.
100
Ivi, p. 129.
101
G. Grimaldi, Leviatano o Behemoth, cit., p 91.
mento che la retta ragione non esiste, la ragione di un uomo, o di alcuni, ne deve prendere il posto; e quell'uomo, o quegli uomini, sono coloro che detengono il potere sovrano . 103
“Qui sono contenuti sinteticamente alcuni principi sempre centrali del pensiero di Hobbes”, sostiene Grimaldi:
«la retta ragione», in sé, non esiste; infatti dove sarebbe possibile trovarla? Ogni volta che qual- cuno si appella a questa ragione, universale, in realtà spaccia per universale il proprio particolare, e non potrebbe essere altrimenti. «La retta ragione non esiste», a questo punto, perché sia possibile la convivenza, tutti, a eccezione del sovrano, devono riconoscere come ragione la ragione del sovrano [...]. Ma il fondamento del diritto non risiede in qualche luogo che solo il pensiero metafisico crede di scorgere, bensì il fondamento del diritto è il sovrano. La giustizia e l’ingiustizia non esistono in sé (concetti ai quali riferirsi per istituire una legislazione), ma le istituisce il sovrano, che ne è la fonte, tutta positiva . 104
Le osservazioni di Grimaldi trovano pieno riscontro nelle conclusioni di Bobbio, il quale asserì che “con Hobbes il giusnaturalismo sbocca in una concezione monistica del diritto, cioè in una negazione del diritto naturale come sistema di diritto superiore al sis- tema di diritto positivo” . Per dirla con Hayek “con Thomas Hobbes incomincia il posi105 - tivismo legale nella storia moderna” . 106
Sta di fatto che profilare l’idea della giustizia nell’orizzonte dell’individuo (di primo acchito meglio delimitato che quello di un Essere supremo), risente parimenti - come quando si cerca di corazzarlo nella giustizia divina - di entrambi i rischi segnalati: da una
“In the state of nature, where every man is his own judge, and differeth from other concerning the names
103
and appellations of things, and from those differences arise quarrels, and breach of peace; it was necessary there should be a common measure of all things that might fall in controversy; as for example: of what is to be called right, what good, what virtue, what much, what little, what meum and tuum, what a pound, what a quart, &c. For in these things private judgments may differ, and beget controversy. This common measure, some say, is right reason: with whom I should consent, if there were any such thing to be found or known in rerum natura. But commonly they that call for right reason to decide any controversy, do mean their own. But this is certain, seeing right reason is not existent, the reason of some man, or men, must supply the place the- reof; and that man, or men, is he or they, that have the sovereign power, as hath been already proved; and consequently the civil laws are to all subjects the measures of their actions, whereby to determine, whether they be right or wrong, profitable or unprofitable, virtuous or vicious; and by them the use and definition of all names not agreed upon, and tending to controversy, shall be established”. Cfr. T. Hobbes, The elements of
law, Natural and Politic (1640), in The elements of law, Natural and Politic, and the De Corpore Politico, a
cura di J. C. A. Gaskin, Oxford University Press, Oxford 2008. G. Grimaldi, Leviatano o Behemoth. cit., p 91-92.
104
N. Bobbio, Thomas Hobbes, cit. p. 145.
105
F.V. Hayek, Law, Legislation and Liberty (1973), The University of Chicago press, Chicago 1983, pp. 10-
106
parte dell’abbagliante e (verrebbe da dire) inevitabile riverbero del riflesso dell’interprete, testimoniato dalla inconciliabile idea di giustizia in Montesquieu e in Hobbes. E dall’altra parte si riconferma che, a prescindere dall’idea della giustizia invocata, i teorici riescono a svincolarsi dalle norme che potrebbero fungere da limite all’operato del potere punitivo per declinare la concezione della giustizia secondo una dottrina di comodo.
Ammesse le osservazioni di Grimaldi e di Bobbio, nella dottrina hobbesiana “il diritto non è qualcosa di assolutamente svincolato, esso è vincolante per lo stesso sovrano riguar- do al proprio fine, la pace, che in realtà è l'autoconservazione dell'individuo. Il fine supre- mo per Hobbes è la pace, non il bene: ne deriva che il bene e il male, in se stessi, non es- istono, ma solo ciò che è utile o meno al perseguimento della pace, che è in ultima analisi autoconservazione” . 107
Anche in questo caso si verifica un tradimento di una norma scolpita nelle Tavole poste - da Hobbes stesso - a fondamento del sistema legale. Secondo Bobbio, il perseguimento della pace nel pensiero hobbesiano “è ricavato dallo studio positivo della natura umana; il quale mostra che l'uomo, dominato dall'istinto di conservazione, considera la vita come il valore supremo” . Valore inalienabile che a differenza di tutti gli altri diritti non è trasfer108 - ito al sovrano. La norma fondamentale iscritta in un’originaria Tavola è il riconoscimento della vita come valore supremo. Per non rinvenire in essa una norma limitativa del potere punitivo basta aggirarla - transitando abilmente su ripidi sentieri già percorsi in passato - proclamando che il sovrano non è entrato nel patto, ma gli uomini sì, e l’hanno fatto autor- izzando tutte le azioni dello Stato , e “i patti senza la spada sono solo parole e non hanno 109 la forza di assicurare affatto un uomo” . L’allegoria della spada fa la sua comparsa in 110 questa umana teorizzazione secolare della giustizia punitiva: e ancora una volta non ha fodero. Il sovrano, posto fuori dal patto conserverebbe la potestà di “sottomettere qualunque uomo, nuocergli o ucciderlo” . L’autoconservazione si rovescia nel suo oppos111 -
G. Grimaldi, Leviatano o Behemoth. cit., p. 92.
107
N. Bobbio, Thomas Hobbes, cit. p.117.
108
“Io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest'uomo o a questa assemblea di uomini, a
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questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene chiamata uno stato, in latino civitas. Questa è la generazione di quel grande Leviatano o piuttosto - per parlare con più riverenza - di quel Dio mortale, al quale noi dobbia- mo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa”
T. Hobbes, Leviatano, cit, cap XVII, p. 178.
110
Ivi., cap., XXVIII, pp. 329-333.
to, l’alienazione . Così la tutela della vita stessa è declassata da fine ultimo a valore rela112 - tivo.
Un noto ammonimento di Gadamer ci fa presente che “sono i pregiudizi di cui non siamo consapevoli quelli che ci rendono sordi alla voce del testo” . Nell’impresa di prog113 - ettare una teoria della pena, i testi dinnanzi ai quali permane un’ottusa sordità, sono, purtroppo, quelle norme generali e astratte, limitative del potere punitivo. Hobbes e Mon- tesquieu potrebbero rappresentare l’Artide e l’Antartide della concezione antropologica dell’uomo. Fra gli argomenti retrostanti a quelli di Montesquieu, potremmo annoverare quelli di John Locke. Egli, lontano dall’impostazione hobbesiana, dichiara che
per ben comprendere che cosa sia il potere politico e ricostruirne la genesi, occorre considerare quale sia lo stato in cui tutti gli uomini per natura si trovano: uno stato di perfetta libertà di regolare le proprie azioni e disporre dei propri beni e persone come meglio credono, entro i limiti della legge naturale, senza chiedere l’altrui benestare o obbedire alla volontà di altri. È questo anche uno stato di eguaglianza, in cui potere e autorità sono reciproci poiché nessuno ne ha più degli altri. Nulla invero è più evidente del fatto che creature della stessa specie e grado, indifferenziatamente nate per godere degli stessi doni della natura e usare le stesse facoltà, debbano essere fra loro eguali, senza alcuna subordinazione o soggezione . 114
Locke, dunque, si schiera contro Hobbes, come faranno dopo di lui la maggior parte dei filosofi e dei teorici dello Stato. Gaetano Filangieri, ad esempio, principe degli illuministi meridionali, nella sua Scienza della legislazione sostenne una tesi radicalmente antihobbe- siana, autoproclamandosi “il primo a credere che la società sia nata coll’uomo” . Filang115 -
ieri afferma che in questa “primitiva” e “puramente naturale” società “erano ignoti i nomi di nobile e di plebeo, di padrone e di servo, ignoti i magistrati, ignote le leggi, le pene e i pesi civili. Questa era una società nella quale non si conosceva altra disuguaglianza che quella che nasceva dalla forza e dalla robustezza del corpo, altra legge che quella della natura, altro vincolo che quello dell'amicizia, de’ bisogni e della parentela” . 116
Cfr. M. Horkheimer, T. Adorno, Dialettica dell’illuminismo (1947), Einaudi, Torino 1995, pp. 37-39.
112
H.G. Gadamer, Verità e metodo (1960), Bompiani, Milano 1995, X e., p. 317.
113
J. Locke, Trattato sul governo (1691), a cura di Lia Formigari, Editori riuniti, Roma 1974, cap. I, p. 5.
114
G. Filangieri, La scienza della legislazione (1780-1788), Grimaldi & C. Editori, Napoli 2003, libro I, cap.
115
I, p. 11. Ibid.
Filangieri descrive così lo stato di natura:
Qualunque fosse lo stato degli uomini prima della formazione delle società civili, qualunque fosse l'epoca di queste riunioni, qualunque la loro primitiva costituzione, qualunque il piano sul quale esse furono foggiate, non si può dubitare che una fu la causa che le produsse, uno il principio che le fece nascere, l'amore della conservazione e della tranquillità. Io non sono così strano per supporre uno stato di natura anteriore alle società civili, simile a quello de’ selvaggi, come alcuni misantropi sofisti lo pretendono; né così ignorante della natura della mia specie, e de’ caratteri che la distinguono dalle altre, per credere che l'uomo sia nato per errare ne’ boschi, o che lo stato di società sia uno stato di violenza per lui . 117
Dopo una serie di domande che complessivamente annunziano che “l'anima ha i suoi bisogni come il corpo, e che questi bisogni non si possono da noi soddisfare senza darci in preda alle affezioni sociali”, Filangieri riprende il filo della su argomentazione:
Io credo che queste poche riflessioni basteranno per farci vedere sulla terra la società così antica come l’uomo, e per farci vedere nel selvaggio, che erra nei boschi non già l'uomo naturale, ma l'uomo degenerato, l'uomo che vive contro il suo istituto, contro la sua destinazione; in poche pa- role la rovina e la degradazione della specie umana, piuttosto che il simulacro vivente della sua in- fanzia . 118
Lo schieramento anti-hobbesiano, destinato ad aumentare le proprie file, è giunto a seg- nare il titolo di un’opera di Feuerbach: Anti-Hobbes, ovvero i limiti del potere supremo e il diritto coattivo dei cittadini contro il sovrano . Hobbes, ancora oggi, rappresenta il polo 119 della dominazione e dell’imperio pressoché assoluto, e le sue idee sul potere hanno in- fluenzato il discorso sulla moderna concezione dell’autorità politica; mentre Montesquieu, col suo elogio della mitezza, si pone agli antipodi di quella e si costituisce capostipite di un filone di pensiero garantista altrettanto incisivo.
Ibid.
117
Ibid.
118
Cfr. P.J.A. Feuerbach, Anti-Hobbes, ovvero i limiti del potere supremo e il diritto coattivo dei cittadini
119