Capitolo III. Teoria garantista della pena
3.2. Le garanzie relative alle pene
3.2.2. Il principio di necessità e il rispetto della dignità umana
Le linee guida di Ferrajoli sulla sanzione elucidate nel suo progetto di minimizzazione del diritto penale sono davvero notevoli. Per quanto riguarda la progettazione delle garanzie che consentano l'implementazione progressiva del modello garantista, quelle che riguardano i reati e il processo penale si rivelano più efficaci.
Le garanzie che rivolte a limitare la sfera del proibibile, e quindi a tutelare i cittadini contro l’arbitrio che rappresentato le proibizioni esorbitanti, valgono, al meno sul piano teorico, a escludere: la punizione delle idee (principio di materialità), degli atti indifferenti per i terzi (principiò di offensività) e della responsabilità oggettiva (principiò di colpev- olezza). Le garanzie che riguardano la pena, invece, non risultano altrettanto vincolanti.
Se torniamo a considerare il decalogo garantista di Ferrajoli ci accorgiamo che soltanto il principio di retributività - nulla peona sine crimine - concerne specificamente la sanzione penale. Altro non prescrive, tuttavia, che il divieto di infliggere castighi in assenza di delit- ti. Detta una risposta precisa alla domanda “quando punire?”, ma esaurisce in ciò la sua portata normativa. Il principio di legalità penale aggiunge qualcosa di importante, impo- nendo al giudice di irrogare la pena prevista dalla legge quale conseguenza giuridica di un’azione qualificata come reato. Al legislatore, però, esso lascia la pienezza del potere di statuire sanzioni di qualsiasi tipo e di qualsiasi entità. Si tratta di una plenitudo potestatis pericolosissima per i destinatari della minaccia penale. Resta, infine, il principio di necessi- tà, che è rivolto a disciplinare gli atti di esercizio del potere legislativo, tanto in materia di proibizioni quanto di punizioni. Rapportato a queste ultime, tale principio stabilisce che l’afflittività della pena comminata non debba eccedere il livello sufficiente a dissuadere dal compiere l’azione criminale a cui essa è associata. Si tratta, dunque, di un principio che prescrive la massima riduzione possibile della severità dei castighi legali, fornendo così una risposta alla domanda “come punire”. Ma, a ben vedere, tale risposta si rivela larga- mente indeterminata: tanto esigente in astratto quanto poco cogente in concreto.
Il principio di necessità costituisce la principale risposta del pensiero illuminista alla domanda “come punire?”: la pena deve essere essere necessaria e la minima delle possibili rispetto allo scopo della prevenzione dei delitti. Si tratta della risposta che hanno dato prin- cipalmente Montesquieu e Beccaria, che la rafforza la sua formulazione sostenendo che
“ogni pena che non derivi dall’assoluta necessità è tirannica” . Tale principio è stato re66 - cepito perfino dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789:“la legge non deve stabilire che pene strettamente ed evidentemente necessarie”. Purtroppo pero non è così evidente quand’è che una pena è necessaria né quali sono le pene necessarie. Lo stesso Ferrajoli ammette che il principio di necessità è elementare e forse un po' som- mario . Possono essere argomentati criteri di necessità per ogni tipo di pena e di intervento 67
penale, perfino per la tortura e per la pena di morte. La domanda è: all’interno del para- digma garantista basta solo questo limite in relazione alla tipologia delle pene? E la rispos- ta non può che essere negativa.
Dato che anche le pene più crudeli possono essere ritenute necessarie per la loro effica- cia deterrente e in generale per essere considerate un mezzo adeguato per raggiungere altri scopi, il principio di necessità è accompagnato da un altro, che non compone il paradigma garantista ma costituisce una premessa fondamentale di esso: il principio del rispetto della dignità umana. Questo principio richiede che i criteri utilitaristici siano ad esso secondari e che nel calcolo punitivo non sia escluso il punto di vista del destinatario della sanzione. Tuttavia, il rispetto della dignità della persona è un principio trasversale della questione punitiva che vincola ognuna delle manifestazioni del potere punitivo, frutto della sepa- razione fra diritto e morale che mira a ogni individuo come fine a se stesso, e che riconosce a ciascuna persona il diritto di essere ciò che vuole e di esercitare i suoi diritti di libertà in autonomia e senza irruzioni arbitrarie da parte dell’autorità statale. Sul versante di ciò che è proibibile, rispettare la dignità individuale significa rimanere ancorati al principio di diritto penale d’atto e non d’autore. Implica difendere il convenzionalismo penale che resp- inge il legalismo etico e non accetta la prevalenza di una morale come quella giusta. Impli- ca anche la distinzione tra l’esistenza del diritto e la validità di esso, che preclude che il diritto esistente sia considerato giusto.
Da questo punto di vista, il termine devianza - fondamentale nella teoria ferrajoliana in quanto i due principi costitutivi del sistema, quello di stretta legalità e quello di stretta giurisdizionalità riguardano la definizione legale e l’accertamento giurisdizionale di essa - può essere equivoco dato che né il diritto in generale né il diritto penale in specie si identif-
C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit., cap. II, p. 12.
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L. Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 89.
icano con la retta via. Mario Jori ha richiamato l’attenzione su questo punto, argomentando la sua posizione con toni temperati ma convincente, indicando che la nozione di deviante “è un termine che non [gli] piace molto nella filosofia della pena (a differenza che in soci- ologia dove il suo uso è assolutamente indispensabile), perché il “fatto sociale” non può essere considerato come una sorta di convenzione di Ginevra, e i delinquenti non sono riv- oluzionari moralmente coerenti, che ci pongono l’alternativa tra giudicarli secondo le nos- tre o le loro regole” . Jori ricorda che “tipicamente, la categoria della devianza è usata da 68
una filosofia del diritto penale che si autodefinisce critica, intendendo essere critica della società che punisce piuttosto che della commissione di reati punibili” spostando il discorso dalla responsabilità personale alla responsabilità della società rispetto al fenomeno del delitto, all'interno della quale “pulire gli individui vuol dire perseguire sintomi piuttosto che cause”. “Una filosofia di questo genere - prosegue Jori - ha sempre considerato il perseguimento del garantismo (penale) come un falso obbiettivo, come alleviare i sintomi senza attaccarne le cause” . 69
Certamente, la scelta ferrajoliana dell’adozione del termine “devianza” è una scelta di economia dei termini della teoria per agevolare la comunicabilità con i giuristi, dato che tradizionalmente il termine devianza ha fatto parte del lessico penalistico. Ormai è pacifico parlare di devianza senza attaccare a questo termine nessun significato moralista. In ogni caso, è auspicabile una sempre maggiore conformità dei termini della teoria della pena con i più alti principi costituzionali, e quello di devianza è forse un termine di cui si potrebbe fare a meno. Il sistema garantista potrebbe rinunciare alla centralità del concetto di devian- za, e definirsi come un modello di identificazione in astratto e di accertamento in concreto delle condotte ritenute rilevanti penalmente. Forse è giunto il momento di un cambio di paradigma che faccia a meno di espressioni tipiche della teoria della pena, ma ambigue, come “maggioranza non deviata” o “minoranza deviata”.
Il principio di rispetto alla dignità della persona vincola anche lo svolgimento del pro- cesso penale, che non può consistere in giudizi morali sulla persona, ma nell’accertamento delle ipotesi accusatorie relative alla sua condotta delittuosa. Anche se ha un importanza fondamentale su entrambe queste sfere, le domande relative a come proibire e come giudi- care non si affidano al solo principio del rispetto della dignità della persona, ma a principi
M. Jori, La cicala e la formica, in Le ragioni del garantismo, cit., p. 100.
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Ivi, p. 101.
più specifici in grado di offrire concrete linee guide ai legislatori e ai giudici e quindi più cogenti. Questo è ciò che manca rispetto alle pene: garanzie specifiche e incisive. Il rispet- to della dignità della persona, per quanto sia prezioso, è un principio generale, ingiustifi- catamente negata ad alcuni, agli immigrati, ai reclusi, ma riconosciuta dall'ordinamento costituzionale italiano a tutti: “La dignità umana appartiene a tutti, nessuno escluso. [...]. Appartiene a chi sta nelle regole e a chi le viola, ai cittadini propri ai criminali. La dignità umana non dipende dalla sfera pubblica dei doveri. Non si guadagna rispettando i propri obblighi. Non è il decoro, la sobrietà, l'onestà. Non si è degni solo se si vive nella legalità” . 70
Il ruolo di questo principio all'interno della teoria della pena è insostituibile. Il suo am- pio respiro consente valutazioni pratiche su qualsiasi tipo di intervento punitivo per dele- gittimare ogni trattamento degradante, come quelli a cui spesso sono sottoposti i condan- nati alla pena detentiva in carcere: “la giornata penitenziaria è infatti spesso ricca di vio- lazioni che con fatica si riconducono al singolo diritto calpestato, Là dove invece è evi- dente il danno inferto alla dignità della persona. Si pensi a un'ispezione corporale invasiva e umiliante. È in questo senso che la dignità umana è reinterpretabile quale criterio di esi- gibilità dei diritti ”. 71
Il combinato disposto dei principi di necessità e di rispetto della dignità umana è prezioso e deve essere custodito. Ma deve anche essere accompagnato da garanzie concrete in grado di incidere sulla natura e la misura delle pene. Su questo principio, poi, va detto che anche se nella sua essenza è portatore di un’istanza garantista imparagonabile, nella prassi può essere interpretato in modi diversi. Questo aspetto è rilevato in modo efficace da Patrizio gonnella:
La dignità umana nel diritto contemporaneo è asserita ma non definita. Nelle norme, costi- tuzionali o internazionali, è affermato che essa va protetta, promossa. Si usa scrivere che è intangi- bile, che non va calpestata. Non esiste norma del diritto internazionale dei diritti umani, nel nostro diritto interno o in altro diritto nazionale che si preoccupi di definire cosa sia la dignità umana . 72
P. Gonnella, Carceri. I confini della dignità, Jaca book, Milano 2014, p 69.
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Ivi, p. 61.
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Ibid.
Giacché “è più facile e intuitivo riconoscere ciò che calpesta la dignità umana piuttosto che ciò che la caratterizza”, essa “va letta in chiave negativa” . Ovvero, devono essere 73
identificati e delegittimate le ipotesi con essa in contrasto in luogo di pretendere di delim- itare cosa essa sia. Da questo punto di vista il principio offre direttive fondamentali e vin- colanti rispetto a come non punire sia al legislatore che ai giudici e perfino ai funzionari incaricati dell'esecuzione delle pene. È utile rilevare che la teoria del reato traduce in garanzie cogenti le indicazioni su come non proibire. Il principio di materialità, ad esem- pio, non è altro che la traduzione in positivo dell’esigenza di non punire i pensieri. Formu- lato in questo modo, come criterio giuridico autonomo diventa più stringente. Occor- rerebbe fare altrettanto con i principi che riguardano la pena. L’efficacia pratica del rispetto della dignità umana in negativo, su come non punire, sarebbe rinforzata se si traducesse in una garanzia concreta, in positivo, rispetto, a come punire. In questo senso, una delle pos- sibili traduzioni in positivo riguarda il consolidamento del principio di tassatività delle pene, inteso come predeterminazione degli obblighi e dei divieti in cui esse consistono - i quali, poi, debbono esserecompatibili con l'ordinamento costituzionale - per escludere dal dispositivo delle pene tutte quelle sanzioni irriducibili a obblighi e divieti concreti.