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La periferia fra svalutazione e assorbimento

Nel documento Synch - Fra l'attimo e l'evento (pagine 52-55)

Capitolo II – Ciò che resta dell’ambiente

II.II La periferia fra svalutazione e assorbimento

La mano invisibile del capitale ordina e assembla sia il tempo che lo spazio che gli preesistevano: quello che la geografia critica marxista deve ricostruire, perciò, è il momento della plasmazione.

81 Cfr. Harvey 2006, p. 94. 82 Harvey 1998, p. 76.

83 «Il commercio implica da sempre la monetizzazione, e questo ha inevitabilmente un effetto negativo sulla coesione di

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L’urbanistica, dall’epoca moderna alla contemporaneità, veicola metamorfosi del contesto sociale dietro alle quali si scorge un dispositivo architettonico. Per chiarire meglio in che modo il capitalismo agisca sulla metamorfosi spazio-temporale delle società occidentali, in The Urban Experience vengono annesse al meccanismo di riproduzione sociale del capitalismo l’accelerazione della

svalutazione e dell’assorbimento.

Riguardo al primo aspetto, il classico argomento marxista dell’obsolescenza artificiale delle merci ci potrebbe condurre fuori pista; permanendo, invece, nell’analisi dei contesti urbani, si verificano situazioni tali da rendere necessarie al contempo delle spazializzazioni, conformi ad esigenze di accumulazione di capitali, e la loro distruzione.

Più i cicli di rotazione degli investimenti e della creazione di surplus (come vedremo meglio più avanti) accelerano, più una svalutazione delle vecchie strutture (non solo in senso logistico) e una loro demolizione si fa imperante: «Ne seguono effetti di destabilizzazione, e la tendenza all’accelerazione della svalutazione di risorse e infrastrutture collegate ad assetti tecnologici più vecchi»84.

È proprio qui, a ben vedere, che il lato distruttivo della celebre formula schumpeteriana si attua: il nuovo richiesto, per a(v)venire, deve annientare il vecchio. Il concetto di rigenerazione del tessuto urbano, ormai profondamente lontano dalla sua matrice biologica, trae vita dalla sua applicazione nel capitalismo. Il bisogno d’accelerazione della svalutazione evidenzia come una spazializzazione permanente sia nemica del flusso capitalista, che sacrifica costantemente i beni ‘fissi’ dopo averli svalutati a dovere: «La dispersione spaziale e l’inscatolamento dello spazio hanno, comunque, i loro limiti Quanti più investimenti si cristallizzano in configurazioni spaziali fisse, tanto più difficile diventa apportare allo spazio modifiche ulteriori senza dare luogo a svalutazioni»85.

Il secondo aspetto, invece, riguarda l’impellente bisogno di reinvestire il capitale mobile in nuove strutture, spazi ancora più conformi ad esigenze di mercato se paragonati a quelli prima demoliti. Quando la spazializzazione segue necessità economiche e finanziarie, riflette anche una certa velocizzazione dell’assorbimento di surplus. Senza la continuità del movimento, il capitale mobile ricadrebbe in una forma di sclerotizzazione che lo svaluterebbe, a cagione del fatto che un fondo isolato dalla circolazione permanente non starebbe al passo e rischierebbe, nell’ottica degli investimenti, ritardi e differimenti problematici, rallentando le rotazioni atte a produrre nuovamente dei surplus. Si scatena, in reazione a ciò, una forza che brama nuove collocazioni e circola nell’incertezza, una potenza desiderosa di formare luoghi adatti a sé e successivamente abbandonarli e distruggerli: «Si cerca di produrre surplus in un posto perché si è in grado di realizzarlo e di assorbirlo in un altro. […] La stabilità generale del capitalismo dipende dalla coerenza di queste integrazioni»86.

È esattamente in questo snodo, ove l’accelerazione della svalutazione e dell’assorbimento sono forze protagoniste, che le periferie divengono levatrici del capitale. La suburbanizzazione, vista in chiave marxista, è qui ricondotta al tentativo di mantenere il ritmo delle rotazioni e nella sua disorganizzazione, nel suo essere sub-urbana rispetto ad un centro sempre più evanescente. Il periferico diviene un risultato, solo in parte prevedibile, dell’urbanizzazione capitalista.

La geografia critica, nell’impresa di carpire il nesso genealogico fra l’accelerazione capitalista e la sua conformazione spaziale nelle periferie, conia nuove terminologie: con sprawl, corrispettivo del verbo italiano ‘distendere’, s’intende un rigonfiamento verso il fuori (extra-urbano) per la maggior

84 Ivi, p. 63.

85 Ivi, p. 56, corsivi miei. 86 Ivi, p. 73.

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parte delle volte caotico e non rispondente a logiche progettuali, laddove con sprinkling, dal verbo ‘to sprinkle’ ossia ‘far sgocciolare’, si cerca di rappresentare l’apparire di macchie, concentrazioni prevalentemente a carattere commerciale o di uffici, s-connesse rispetto a quanto comunemente si considera ‘città’. L’incremento dei processi suburbanizzanti dipende dalla stessa urbanizzazione, nella sua mise capitalista: «Le economie urbane oggi assumono la forma di megalopoli allungate fino ai distretti rurali, in aree suburbane sempre più vaste: questi fatti appartengono al processo urbano»87. Una storia della suburbanizzazione viene accennata nelle pagine di The Urban Experience e, per quanto sia già affiorata una reciproca dipendenza della stessa dalle spinte accelerative della svalutazione e dell’assorbimento dei capitali, un’altra parentela col reame della velocità emerge. Harvey suddivide la diffusione di questo fenomeno nel XX secolo in almeno tre fasi distinte: sin dagli anni venti abbiamo lavoratori che tendono ad acquistare beni immobili fuori dai centri urbani, a causa dei costi minori, e che sono inclini ad usare mezzi di trasporto (o dotarsi di automobili personali) per raggiungere i centri di produzione. Ma la seconda fase, lo stesso dopoguerra delle pagine viriliane, rende la dilatazione fra centro ed extra- ancor più estesa.

Si generano settori della produzione che s’allacciano alle nuove distanze, cercando di mantenerne il controllo prima ch’esse si rivelino, drammaticamente, necessarie ai capitali in altri sensi. Seguiremo Harvey nella sua ricostruzione storica:

Già dagli anni venti sono disponibili i mezzi per dar luogo a questa ulteriore dispersione, in primo luogo l’automobile. Ma perché venga creata la soluzione urbana al problema del sottoconsumo è necessario che si sviluppi il potere economico degli individui e che questi abbiano la possibilità di appropriarsi di spazio per fini esclusivamente privati, tramite la casa di proprietà, finanziata dal debito, e l’accesso, sempre finanziato dal debito, ai servizi di trasporto (automobili e autostrade). […] La storia della suburbanizzazione è antica, ma è l’urbanizzazione del dopoguerra a esserne segnata in modo decisivo. La suburbanizzazione implica la mobilitazione della domanda reale per mezzo di una ristrutturazione integrale dello spazio, finalizzata a rendere una necessità, e non più un lusso, il consumo dei prodotti delle industrie automobilistica, petrolifera, della gomma ed edilizia88.

La suburbanizzazione, rispetto a quanto detto, comporta una mobilitazione generalizzata dei lavoratori e delle risorse e si rivela essere un nucleo propulsivo per future accelerazioni: sempre più

lontani, sempre più veloci. Crolla l’idea dell’urbe come luogo in cui poter risiedere (secondo l’etimo

latino, difatti, il residente non è solamente colui che può reiterare l’atto del sedersi, ma anche chi ha la facoltà di trattenersi in un determinato spazio) Quale funzione rimane alla città moderna se non quella accumulativa?

La risposta che ci donano le pagine harveyane è connessa alla terza fase storica della suburbanizzazione, coincidente con gli anni ’70, nella quale la produzione sarebbe sempre più dis- locata e il contesto urbano perderebbe drammaticamente la sua importanza economica, politica e organizzativa: «Poiché le grandi imprese dispongono a questo punto di una grande capacità di movimento geografico, e il capitale finanziario è straordinariamente mobile, le città diventano ora molto più vulnerabili alla disoccupazione, alla fuga dei capitali e al disinvestimento da parte delle grandi imprese. Questo sarà il dilemma degli anni settanta, e lo si sarebbe potuto vedere molto prima»89.

87 Ivi, p. 19. 88 Ivi, p. 55. 89 Ivi, p. 59.

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La perdita di rilievo della città è intrinsecamente connessa alle forze centrifughe della deterritorializzazione, accelerate dal capitale. In questo senso Harvey riconosce solamente tre funzioni alle città contemporanee. La prima riguarda quella del puro controllo, poliziesco da un lato e delle informazioni dall’altro: «L’effetto […] è che il futuro si muove nel senso di una città di puro comando e controllo, la città dell’informazione, in cui i servizi costituiscono il centro dell’economia urbana»90. La seconda è quella dell’esasperazione del consumo, che un’aggregazione conformante

accelererebbe. La terza, in realtà, è tecnicamente una dis-funzione che non dev’essere per

necessariamente ascritta ai soli contesti urbani: nel bisogno di attrarre capitali centripetamente i capitali degli investitori, anche le distanze regionali e nazionali subiscono una radicale metamorfosi spaziale.

Harvey descrive una forza contrapposta a quella della dislocazione spazio-temporale, proprio per questo disperatamente centripeta, che per paura della staticità e del rallentamento, in un’economia globale in perpetua accelerazione abbisogna di una concettualizzazione del territorio come ‘contenitore’, di un suo ‘inscatolamento’. Gli spazi divengono recipienti di risorse e forza-lavoro, assetti sociali che si rendono il più possibili adatti a un mercato globale che può scegliere d’investire in essi o meno in base al loro stato di adattamento: «Nella misura in cui le aziende utilizzano la possibilità di disperdere i processi, diminuisce la tendenza delle regioni urbane a competere tra loro sulla base dei propri assetti industriali, mentre vengono sempre più costrette a competere dal punto di vista delle capacità di attrarre gli investimenti delle grandi imprese in quanto mercati del lavoro e delle merci, e come contenitori di risorse fisiche e sociali che le grandi imprese possono sfruttare a proprio vantaggio»91.

Riuscendo, dopo quasi trent’anni, a scorgere nella tripartizione harveyana concernente la transizione dalla città europea al network mediante l’incremento del controllo, dell’eteronomia economica e dei processi di adattamento alla globalizzazione, una relazione costituente fra competizione ed accelerazione nel capitalismo appare più evidente: mentre la tendenza al superamento reciproco nel confronto fra città-stato, comuni, regioni e stati nella modernità classica comportava un proposito ad accelerarsi, l’assetto globale traslerebbe congiuntamente accelerazione e competizione dalle mani delle amministrazioni a quelle delle imprese, le uniche a poter spostare l’ago della bilancia. Il cittadino della contemporaneità versa, da questo punto di vista, in una condizione etero-normativa del suo abitare, dalla quale assiste allo sfrecciare di un mutamento sociale

dis-gregante.

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