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La rotazione come distruzione

Nel documento Synch - Fra l'attimo e l'evento (pagine 55-60)

Capitolo II – Ciò che resta dell’ambiente

II.III La rotazione come distruzione

L’esperienza fenomenologica del flâneur della globalizzazione è lo stare dinnanzi a una ‘parata’ di velocità estranee che lo dis-locano, rendendo più aleatoria la possibilità di affezione fra soggetto sociale e spazio urbano: ciò che muta sostanzialmente, rispetto a quanto si ritiene ordinariamente pre- moderno, è un impulso, quello accelerativo, che s’avverte sulla propria pelle e s’esperisce nell’arco di un’esistenza, di una fase della vita o anche solo in pochi anni. Alla precarietà economica ed

90 Ivi, p. 67. 91 Ivi, p. 51.

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esistenziale del lavoratore, che lo costringe a peregrinare fra un impiego provvisorio e l’altro per tutto il globo, si affianca l’angosciante certezza che la città natale e la ‘casa’ sopravvivranno solamente nell’intimità dei propri ricordi. L’immutabilità di spazi e tempi è bandita: ciò non può che rafforzare l’imprinting all’adattamento biopolitico, poiché ci si scopre‘ cosmopoliti’ in extrema ratio.

L’accelerazione ci chiama a sé, ci tende la mano e ci invita a danzare con lei: cosa guadagniamo e cosa perdiamo nella frenesia dei movimenti accelerati del capitalismo? L’immagine in movimento che più di tutte rappresenta questo vorticoso sentire nichilistico – il πάντα ῥεῖ della biopolitica – e che torna presente in momenti diversi della quotidianità è quella della ruota: essa gira dai tempi del IV millennio a.C., all’incirca allo stesso modo, ma il suo dinamismo sull’asfalto appare oggi ancora più misterico rispetto ai tempi della sua scoperta.

Dipendendo da motori che in genere non sono immediatamente esposti, il tempo record diviene modello per la performance del soggetto capitalizzato. Il ruotare produce energia, quantomeno cinetica e termodinamica, ma può divenire al contempo simbolo di una chiusura (in-cardinamento) del movimento viventi. Si tratta, perciò, di tradurre l’estraniazione marxiana nel suo riscontro fenomenologico: tornare sempre al punto di partenza (la condizione precaria del soggetto sociale), proiettandosi in ciclo senza spiragli di cambiamenti e modifiche autonome. La rotazione è, dunque, l’in-trappolamento umano nella velocità, l’Altro del vortice. La stessa ruota diviene, paradossalmente, immagine d’un ‘movimento-stasi’, di una mise en abyme.

Forse si potrebbe dare un controllo al movimento, tramite uno sterzo ed un complesso sistema di mediazione; eppure non tanto la situazione di velocità uniformi, bensì in incremento, accelerate, impegna il soggetto sociale a confrontarsi prima di tutto con questa variazione. Che l’accelerazione si concepisca come imposta o subita è, da un punto di vista politico e sociale, un fattore di profonda significazione. Queste rappresentazioni, in ogni caso, resterebbero parziali ed inesplorate se venissero applicate solamente a macchine e strumenti: quando la rotazione, come per Harvey, diviene la forma prioritaria del sistema di riproduzione del capitalismo neoliberale, le medesime metafore approdano a lidi da scoprire e coinvolgono pressanti esigenze di riformulazioni teoriche.

Il girare si presta, purtroppo, a svariate banalizzazioni proprio a causa dell’impressione della suddetta riproduzione dell’identico. Le rotazioni del capitale presentate da Harvey, d’altro canto, cercano di sfidare proprio questa tendenza: la medesima rappresentazione è già supposta, in nuce, nelle equazioni del Kapital marxiano, ove il sopravvenire di un plus-valore si reimmette nella circolazione economica tramite ulteriori investimenti; non è questa, tuttavia, la direzione esatta in cui si dirige Harvey tenendo la lente della ricerca puntata sul contesto urbano. Ci si staglia d’innanzi un processo di riproduzione socio-economica sistemico, in cui il principale effetto da tenere in considerazione è la distruzione di spazi ad opera dei tempi scelti per l’estensione della rotazione.

Più precisamente, l’ambiente umano verrebbe mutato e stravolto per il bisogno di accelerare le rotazioni dei capitali in circolo. In una prospettiva che pone al primo posto l’accelerazione non sarebbe possibile ignorare il fatto che ogni investimento deve tornare indietro e tanto più le cifre investite rientrano speditamente nelle tasche dei capitalisti, tanto più la loro competitività cresce (perché potranno reinvestire più velocemente di altri). Questo processo, così fondamentale a detta di Harvey per comprendere il sostrato economico dell’attuale mondo sociale, non può non alterare radicalmente l’ambiente naturale e sociale preesistente ad ogni assestamento del capitalismo.

La velocità, nel quadro geografico-politico di Harvey, figura come l’agente principale della rotazione (temporale e tendenzialmente anti-spaziale) del capitalismo: «Il costo, la velocità e la capacità del sistema di trasporto sono direttamente collegati con l’accumulazione per l’effetto che hanno sul tempo di rotazione del capitale. Quindi, l’innovazione e l’investimento nei trasporti sono potenzialmente produttivi per il capitale in generale. Nel capitalismo vediamo quindi la tendenza a

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superare tutte le barriere spaziali e a distruggere lo spazio con il tempo, per usare le espressioni di

Marx»92.

Sussiste una differenza sostanziale, però, fra una rotazione e un vortice: se la suburbanizzazione, in alcune fasi storiche, è stata compatibile con la ricerca di nuove aree di assorbimento del surplus capitalista per poi sfuggire ad un controllo razionale, anche le rotazioni si alimentano di un’economicizzazione analoga da applicare alla dimensione spazio-temporale. La rotazione, oltre ad essere una forma di movimento, è perciò un tentato ordinamento. Lo studio di Harvey, a questo riguardo, è quello di snodi sistemici che producono effetti indesiderati e reazioni inaspettate. È necessario comprendere, in una prospettiva marxista, cosa rimane del ‘pianificabile’ a seguito dell’opera di lacerazione e riformulazione spaziale che l’accelerazione compie, e cosa ricade nell’ambito dell’aleatorio e dell’imprevedibile.

Adoperiamo a questo scopo un esempio circoscritto: quando uno stabilimento non può più essere ammodernato93 – forse proprio per la linfa etimologica del termine (stabilire) rispetto ad una stabilità che assume in un dato territorio all’interno di logiche di mobilitazione globale, che prevedono la ricerca di un ribasso costante dell’offerta dei costi di manodopera –, arriva il momento di ‘distruggerlo’, di modificare quell’assetto lavorativo al punto tale da renderlo irriconoscibile o semplicemente di abbandonarlo.

Eppure neanche questa rappresentazione della rotazione e dei suoi plurimi effetti spaziali è sufficientemente esaustiva: nell’azione del ruotare accelerato – che implica un incremento del tasso di turnover e ri-ordinamenti del personale che l’ingegneria sociale contemporanea elabora ad uso di imprese e trust multinazionali – prende corpo un’assuefazione alla distruzione creativa, una tensione interna al sistema capitalistico che consiste nel far saltare le connessioni esistenti nel tessuto socio- lavorativo creando dei gap. Distruggere per creare è, dunque, la prima legge morale fondamentalmente del sistema capitalista: ben prima di una contro-elaborazione marxista o anarchista, inoltre, nel solco lasciato dal transito di capitali si forma un nomadismo di riserva, che rinnova il suo darsi fra direttrici centripete e centrifughe della finanza.

Questi interstizi vengono certamente concepiti nella speranza di una spinta verso un profitto maggiore, ma, quando discorriamo di ‘spazi’ in questo senso, dobbiamo immaginarci una spazialità fatta di reti, alimentata da una connettività generale. In questo senso, perciò, anche il capitalismo contemporaneo necessita di localizzazioni relative, poiché senza assetti spazio-temporali (che poi verranno sacrificati) nessuno sviluppo sarebbe possibile. Nell’impresa di rendere evidente questa

92 Ivi, p. 103. Harvey torna molte volte, nel suo testo, a sottolineare l’importanza della formula marxiana della distruzione

spaziale; si veda, ad esempio, il seguente passo: «Il tempo di rotazione del capitale (il tempo che si impiega per riottenere l’investimento iniziale più un profitto) è una dimensione molto importante: è da qui che viene il vecchio adagio il tempo

è denaro. […] Poiché ogni movimento nello spazio prende tempo e denaro, la concorrenza spinge il capitalismo verso

l’eliminazione delle barriere spaziali e la distruzione dello spazio a opera del tempo» (Ivi, p. 37). Torneremo su questo punto marxiano, integrando la stessa rappresentazione della distruzione accelerativa con il concetto di Verkörperung der

Zeit (incorporazione del tempo) che la precede necessariamente. Per questo aspetto basti, attualmente, indicare come la

‘distruzione’ (che mai si totalizzerebbe in un annichilimento, semmai in una lacerazione della realtà spaziale) viene compiuta da un tempo, a sua volta, spazializzato, e dunque reificato. Ci troviamo, più precisamente, in mezzo ad uno scontro fra ordini spazio-temporali diversi ove una configurazione sociale cerca di sostituirsi a quella precedente.

93 Se la modernizzazione, come asserito precedentemente, non dista così tanto per autori come Harvey e Braudel dalla

capitalizzazione del reale, con il bisogno di ‘ammodernamento’ non dobbiamo immaginare solamente effetti che ricadano

sui macchinari: i lavoratori, nel loro essere o meno flessibilizzabili o capitalizzabili, sarebbero come degli elastici da tendere sempre più. Il riassestamento dei capitali rispetto a dei territori, in questo senso, può essere chiamato in causa anche da rigidità sociali e politiche: anch’esse, nel processo di appianamento che abbiamo descritto, sarebbero ostacoli inaccettabili.

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condizione di stabilità minima necessaria alle rotazioni, The Urban Experience presenta l’idea dei periodi di ammortamento:

Come valore d’uso il capitale fisso non può essere modificato facilmente, e così tende a congelare la produttività a un certo livello, fino alla fine del periodo di ammortamento. Se prima che il vecchio capitale fisso abbia finito di ammortarsi ne nasce uno nuovo e più produttivo, allora il valore di scambio di quello vecchio è svalutato. […] Se ci si oppone alla svalutazione si blocca la crescita della produttività e quindi si diminuisce l’accumulazione94.

Il congelamento è, in senso fisico, un rallentamento di particelle in movimento; allo stesso modo la stagnazione si manifesta come antitesi dello scorrere del fiume, condizione di possibilità di una palude. Non sarebbe dunque preciso riconoscere al sistema capitalistico una tendenza assoluta all’accelerazione, semmai un orientamento generale.

Inserendo nella trattazione dei meccanismi di rotazione del capitale l’esigenza di un ammortamento, il geografo britannico plasma un assetto teorico in cui il potere economico rallenta, dando adito ad un’illusione di stabilità, per poi accelerare e travolgere quanto costruito. I poteri, a cui la prospettiva marxista harveyana allude, dovrebbero, in tal senso, rimanere all’erta nei confronti dell’accelerazione stessa, in particolar modo dell’accelerazione tecnologica, che spazzando via prima del tempo previsto un assestamento connettivo potrebbe inficiare l’intera produzione.

Capitalismo e tecnica non si muovono necessariamente allo stesso ritmo: anche lo sviluppo tecnologico potrebbe essere problematico, se in qualche modo si rivelasse ribelle. In questa sottile in- sovrapponibilità troviamo, ad esempio, la spiegazione harveyana del ‘brevitermismo’ degli investimenti e l’inserirsi di un’assicurazione politica contro eccessivi cambiamenti ed accelerazioni anti-sistemiche:

Quanto più i tempi di lavorazione e i periodi di rotazione si allungano, tanto maggiore è l’inerzia tecnologica e geografica. Non si possono avere nuove tecnologie e nuove posizioni fino a che il valore incorporato nel capitale fisso impiegato non sia stato pienamente recuperato: in caso contrario una parte di valore si svaluta, prima che la sua vita economica sia conclusa. […] Questi problemi sono così seri che i capitalisti non intraprendono investimenti a lungo termine senza avere la sicurezza di una certa stabilità dei mercati del lavoro, e senza essersi assicurati una protezione contro un eccesso di innovazione speculativa. In tali condizioni, sembra indispensabile il controllo monopolistico di tecnologia e posizione, mezzo vitale per garantire le condizioni necessarie per investire a lungo termine95.

Il capitalismo neoliberale contemporaneo non persegue necessariamente un’accelerazione assoluta del contesto lavorativo e sociale, poiché, come s’è argomentato, senza una contro-tendenza al congelamento incapperebbe nel rischio di far collassare la produzione. In secondo luogo, se di politica in senso letterale rispetto al contesto cittadino diventa arduo discorrere in un milieu simile, termini come assicurare e proteggere vanno in direzione di uno stringente legame fra il sistema capitalistico e gli assetti politici coinvolti, interessati ad attrarre in territori-contenitori le forze finanziarie. Ci troviamo, infine, davanti ad equilibri e tensioni fra poteri economici e politici, nei quali ‘accelerare’ diventa una parola d’ordine solo in una certa misura: laddove in certi contesti bisogna accelerare, in altri frangenti bisogna rallentare e tali contrazioni e movimenti vanno sempre

94 Ibid, corsivo mio.

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inquadrati, in una prospettiva marxista come quella di Harvey, nell’ambito del mantenimento e del rafforzamento dei poteri.

Una geografia politica che ricalca i passaggi del Kapital marxiano nel tentativo di un aggiornamento, come quella proposta in The Urban Experience, pur non dando ampio spazio al livello soggettivo non lo trascura del tutto. I soggetti sociali sono, d’altro canto, la risorsa più importante per il capitalismo in qualsiasi sua manifestazione storica. Da un lato, perciò, abbiamo quello che con un lessico sportivo si potrebbe definire un obbligo alla rimonta che gli individui esperiscono congiuntamente rispetto alle offerte del mercato del lavoro e alla sincronizzazione richiesta (chi non si muove, muore). Dall’altro il capitalismo stesso non può lasciare al caso, e ben che meno all’arbitrio degli attori sociali, il successo o l’insuccesso del processo di sincronizzazione. Questa categoria corrisponde, in Harvey, alla necessità di organizzare la mobilità: «Se il ritmo delle trasformazioni nell’organizzazione di produzione, scambio, comunicazione e consumo continua ad aumentare, è necessario che la popolazione sia molto adattabile. Gli individui devono esser pronti a cambiare le loro capacità professionali, la posizione geografica, le abitudini di consumo e così via […], si deve trovare un modo sistematico di organizzare la mobilità»96.

È d’uopo ricordare il modo in cui diverse teorie politico-economiche riguardanti il capitalismo, i suoi protagonisti e il suo ruolo storico, si siano legate a diagnosi attinenti le discriminazioni sociali. Un argomento che ritorna complessivamente nella SAT, a tal riguardo, concerne le differenziazioni inedite che emergerebbero nel rapportarsi a velocità diverse: se la mobilità diventa così essenziale, l’im-mobilità sarà sicuramente esplicazione rinnovata e appropriata dell’emarginazione dai contesti economici e lavorativi.

Torna ad essere fondamentale, in questo quadro storico, l’antico argomento della filosofia greca riguardo alla connotazione dei caratteri degli esseri umani in base al luogo geografico d’appartenenza. Se le città dell’informazione (network) sono snodi in cui il transito dell’offerta è più veloce, accedere ad un’élite implica non solo occupare tali posizioni, ma dotarsi della capacità di spostarsi – e mobilitare informazioni – più velocemente degli altri. In questo senso, Harvey chiosa sinteticamente: «Le restrizioni e le barriere alla mobilità danno luogo a differenziazioni sociali»97.

Abbassare l’obiettivo sul piano dell’intersoggettività conduce l’autore di The Urban Experience ad ipotizzare un orizzonte futuro; l’altro lato della mobilitazione diverrebbe, nelle profezie delle ultime pagine harveyane, l’abitudine all’abbandono: «[R]esteremo in balia di un processo urbano che ha interiorizzato i principi capitalisti di produzione per la produzione, accumulazione per l’accumulazione, consumo per il consumo e innovazione per l’innovazione. E di un probabile futuro di distruzione creativa sempre più rapida, e di abbandono di un numero sempre maggiore di persone

e luoghi»98.

Ulteriori precisazioni devono essere avanzate riguardo alla relazione fra cittadini della contemporaneità e le velocità del sistema capitalistico. Un aspetto fondamentale, da questo punto di vista (e che ritroveremo in altri autori, soprattutto in Rosa) riguarda il particolare rapportarsi dei lavoratori contemporanei rispetto al proprio fallire. Si tratta di un tema che rinveniamo nel più recente

Spaces of Global Capitalism (2006), testo in cui Harvey sottolinea in più punti l’essenziale compito

di attribuzione della colpevolezza ai singoli individui, che i poteri socio-politici del capitalismo neoliberista promuoverebbero: «Social success or failure is therefore interpreted in terms of personal entrepreneurial virtues or failings rather than attributable to any systemic properties»99. Al marxismo

96 Ivi, p. 142, corsivo mio. 97 Ibid.

98 Ivi, p. 293, corsivi miei. 99 Harvey 2006, p. 27.

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contemporaneo, in questa direzione, spetterebbe una letteratura della liberazione possibile dal proprio peccato che proceda di pari passo con una mappatura dello strutturarsi del fallimento.

I soggetti urbani non s’avvedono dei circoli paradossali e distruttivi che la circolazione del capitale attiva e ciò non avviene, certamente, solo per ingenuità. Una geografia critica marxista si pone in aperta opposizione a retoriche ristrette (perché non ‘sistematiche’) e strumentali dei poteri, che non si limitano ad agire su singoli soggetti. Calzante risulta l’esempio, considerando un leggero anticipo rispetto alla Grande Recessione del 2007, delle nazionalizzazioni di crisi globali.

Con ciò Harvey intende estendere le retoriche di attribuzione della colpevolezza al piano transnazionale: gli stessi poteri cercherebbero, almeno seguendo le elaborazioni offerteci da Spaces

of Global Capitalism, di restringere le narrazioni della crisi economica incardinandole a

responsabilità nazionali e oscurando, così, l’aspetto distruttivo complessivo del sistema capitalistico globale: «In a Darwinian world, the argument went, only the fittest should and do survive. Systematic problems were masked under a blizzard of ideological pronouncements and under a plethora of localized crises»100.

I toni più politicamente aggressivi del testo del 2006 sono perfettamente alla base teorica più larga che The Urban Experience offriva nel 1989, in cui l’approccio della geografia critica portava a concepire ogni forma di riorganizzazione spaziale della modernità e della post-modernità in diretta corrispondenza ai ritmi di rotazione dei capitali: «Processi tra loro diversi come la suburbanizzazione, la deindustrializzazione e la ristrutturazione, la residenzializzazione e il rinnovamento urbano, per non dire della riorganizzazione totale della struttura spaziale della gerarchia urbana, sono parte di un processo generale di continua ridefinizione dei paesaggi geografici, per mantenere il ritmo

dell’accelerazione del tempo di rotazione»101.

Nel documento Synch - Fra l'attimo e l'evento (pagine 55-60)