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CAPITOLO 3: La figura del modder nell’industria

3.2 Il modder come prosumer

3.2.2 La pratica del playbour

L’attività e la pratica dei prosumer si inseriscono in un discorso contraddittorio, che riguarda tutto il digital labour (Hong, 2013), in cui il lavoro è “simultaneously given and

unwaged, enjoyed and exploited” (Terranova, 2000, p. 33). Il lavoro dei prosumer non è

inseribile in nessuna definizione tradizionale di lavoro, né nelle categorie di gioco o di attività piacevole (Küklich, 2005). La parola playbour, parola macedonia formata da play e labour, è stata coniata da Küklich nel 2005 proprio per descrivere il lavoro dei modder all’interno dell’industria videoludica, basandosi sugli scritti di Terranova (2000) e di Postigo (2003) e sull’emergenza della pratica del modding nei primi anni ’90 (Sotamaa, 2007). Tuttavia, questo termine può essere esteso a tutta la pratica del produsage e della nuova creatività nel Web 2.0 (Hong, 2013).

Il playbour pone una sfida alla concezione tradizionale di labour, e a tutta la tradizione economica basata sul rapporto produttore/consumatore (Coleman & Dyer-Whiteford, 2005; Postigo, 2008). Ponendo parzialmente al di fuori della logica economica le loro motivazioni, i modder, così come i content creator, si pongono in opposizione con la tradizionale pratica lavorativa (Hong, 2013; Coleman & Dyer-Whiteford, 2005). Il

playbour, infatti, descrive una situazione unica in cui si trovano ad operare i modder e,

più in generale, i content creator: i modder, modificando un gioco per passione e per piacere, generano quello che è chiamato un productive leisure, un’attività piacevole e produttiva al tempo stesso (Küklich, 2005; Postigo, 2003). Il fatto che la pratica del

modding sia così legata all’idea di gioco e di attività piacevole è ciò che la distingue da

content creation legate al mondo videoludico in generale, vengono ancora associate le

connotazioni negative della parola “gioco”, come la non-produttività (Küklich, 2005). Il

produsage, tuttavia, rimane produttivo, nonostante i suoi prodotti siano principalmente

immateriali, dunque il playbour non può essere categorizzato facilmente nelle attività di piacere o di gioco, come gli hobby, nonostante la forte componente amatoriale (Postigo, 2003).

Grazie ai diritti di copyright, come abbiamo visto, le aziende possono capitalizzare sulla produzione dei consumatori, appropriandosi del loro lavoro ed inserendolo nei loro processi produttivi (Küklich, 2005; Fulcher, 2004). Tale “re-commodification” (Coleman & Dyer-Whiteford, 2005, p. 941) del lavoro dei modder è possibile in quanto la loro attività è “dilaogic rather than disruptive, affective more than ideological, and

collaborative rather than confrontational” (Jenkins, 2002, p. 167). Tuttavia, il playbour

non può essere categorizzato in nessun tipo di lavoro, nonostante ne condivida alcune caratteristiche:

 il modding è comparabile al lavoro retribuito, nel fatto che in nessuno dei due casi il lavoratore possiede il frutto del suo operato (Küklich, 2005). I modder non possono ricevere royalties o accampare diritti sul lavoro che svolgono su giochi protetti da copyright, in quanto la proprietà intellettuale rimane in mano al

publisher (Postigo, 2003), e i rari casi in cui l’azienda retribuisce i modder non

possono certo far pensare ai modder come a degli impiegati o dei dipendenti (Küklich, 2005; Terranova, 2000);

 il modding può essere ravvicinato al lavoro freelance, in quanto i modder si assumono tutti i rischi legali e finanziari del loro lavoro (Küklich, 2005). Tuttavia, mentre il lavoro freelance è regolato da contratti, ciò non è previsto per i modder;  il modding può assomigliare anche al lavoro volontario, in quanto ne condivide le motivazioni di fondo, come la passione, il senso di comunità e la costruzione della propria identità (Postigo, 2003). Tuttavia, mentre il volontariato riguarda le industrie non-profit, il modding è strettamente legato ad un’industria for-profit come quella videoludica (Küklich, 2005).

Küklich descrive la community dei modder come una “dispersed multitude” (2005, p. 12), cioè una community che non riesce ad aggregarsi e a difendere la sua posizione all’interno del mercato, proprio a causa dei nuovi mezzi di distribuzione, che disperdono i prodotti nel network di internet (Küklich, 2005). Questo è anche causato dal duplice desiderio che muove l’attività dei modder: di essere liberi di produrre ciò che vogliono e, nello stesso

tempo, di ottenere il riconoscimento da parte delle compagnie dietro i giochi (Küklich, 2005; Au, 2002; Postigo, 2003). L’appropriazione da parte delle aziende del lavoro dei

modder e dei content creator può portare all’alienazione dei diritti degli utenti sul loro

prodotto, e allo sfruttamento (exploitation) del loro lavoro (Küklich, 2005).

3.2.2.1 Il playbour come pratica economica e culturale

Nel rapporto tra le aziende e i prosumer, si assiste all’incontro della pratica del prosumerismo con la teoria neoliberista del mercato (Hong, 2013; Shivonen, 2011). Tale teoria, emersa attorno agli anni ’70, si riferisce ad un sistema economico che privilegia la libertà imprenditoriale e di mercato, che supporta i diritti di proprietà e la deregolazione e che si oppone al controllo dello stato sull’economia (Hong, 2013; Harvey, 2005). Con la diffusione del world wide web, l’assenza di controllo governativo su internet e la facilità con cui le aziende possono gestire la proprietà intellettuale dei propri prodotti (Hong, 2013), ha fatto sì che le attività dei prosumer divenissero un’estensione del pensiero e della cultura neoliberale (Binkley, 2011). Le pratiche di self-organization e di self-

empowerment sono radicate nella quotidianità dei content creator, e l’ideologia

neoliberista vi si riflette, attraverso le modalità con cui queste pratiche creano valore per il mercato (Brown, 2005; Hong, 2013; Shivonen, 2011). Il lavoro dei content creator è ricercato dalla nuova economia del Web 2.0, in quanto si tratta di lavoro a bassissimi costi, in cui il surplus dei lavoratori può essere facilmente raccolto dall’industria: il tanto sognato free labour dell’economia 2.0, in cui le aziende ritengono strategicamente valido delegare parte dei rischi legati all’innovazione e allo sviluppo alla sua community (Hong, 2013; Postigo, 2010; Terranova, 2000).

Dall’altra parte, come abbiamo visto nel Capitolo 1, il modding può essere inserito all’interno di pratiche culturali di riappropriazione, da parte dei consumatori, dei prodotti di proprietà (Shivonen, 2011; Postigo, 2003), e di partecipazione culturale (Jenkins, 2002). C’è chi ha voluto vedere nell’attività dei modder una forma di contestazione della proprietà intellettuale e un ritorno ai beni common-based, condivisi da tutta la community, nella scia della cultura hactivist degli anni ’90 e ‘00 (Coleman & Dyer-Whiteford, 2005; Dyer-Whitford, 2002; Shivonen, 2011). Il modding può certamente configurarsi come resistenza, da parte degli utenti, a forme economiche considerate scorrette, provenienti da un sistema capitalistico di competizione spietata come è l’industria videoludica (Dyer-

non cerca di sostituirsi alla produzione industriale, ma di instaurare un dialogo con essa, di confrontarsi e di collaborare al fine di migliorare l’esperienza dei consumatori (Jenkins, 2002; Postigo, 2010). In questo senso, i modder si trovano in una posizione privilegiata rispetto all’industria e alla fanbase, in quanto costituiscono una forza innovativa che l’industria è interessata ad ascoltare e ad incoraggiare (Postigo, 2010).

3.2.2.2 Giocare lavorando o lavorare giocando?

La cultura neoliberista, dunque, si riflette anche nel lavoro e nelle pratiche di self-

management dei modder, che, attraverso il loro hobby, possono accumulare un capitale

sociale e simbolico (Hong, 2013; Shivonen, 2011). I modder, nel loro lavoro, devono quindi stare attenti a produrre comunque contenuti di qualità, se vogliono aprirsi una strada verso il mondo del lavoro e mantenersi economically viable (Hong, 2013; Rose, 2000). Il mondo professionale videoludico, e, in generale, del prosumerismo, richiede che l’individuo pensi a sé stesso come ad un’azienda, economizzando il proprio lavoro per ottenere dei bargaining chips, dei mezzi di scambio, con cui entrare nell’industria (Hong, 2013; Bruns, 2010; Ashton, 2011). Questa pratica neoliberista non si ferma ai modder che indirizzano il loro lavoro verso una possibile assunzione, ma è pervasiva e si estende a tutto il mondo del modding (Hong, 2013).

Un’etica del lavoro robusta caratterizza il lavoro dei modder e dei content creator, ma il loro lavoro non può essere inquadrato soltanto in un’ottica di vantaggi economici: in quanto attività partecipatoria, il modding prende vita in un “affective cultural space” (Hong, 2013, p. 992), un ambiente dove i creatori possono trovare soddisfazione per le proprie creazioni e affermare la propria identità e la propria creatività, senza che l’elemento economico del lavoro diminuisca questi sentimenti. L’espressione creativa, unita alla cultura neoliberista del miglioramento di sé in ottica economica (Brown, 2005), ha donato ai modder e ai content creator una maniera per unire gioco e lavoro, passione e produttività, divertimento e organizzazione (Hong, 2013; Shivonen, 2011).

È dimostrato, da diverse interviste (Hong, 2013; Poor, 2013), come i modder non si illudano delle loro possibilità all’interno dell’industria: solo una piccolissima parte riesce a sostentarsi tramite le proprie creazioni e a fare della propria passione un lavoro. Allo stesso modo, non si illudono del fatto che la loro attività sia solo un gioco, esterno a delle logiche di mercato: lo dimostra il tempo e l’energia che impiegano nelle loro creazioni, incluse le attività di marketing e di social management che devono gestire nell’interazione

con la community (Hong, 2013; Shivonen, 2011). I modder sono consumatori consapevoli della loro posizione all’interno della community e dell’industria, e la loro attività non può essere inquadrata unicamente né in un’ottica economica ed utilitaristica, né nell’ottica del gioco e della partecipazione (Shivonen, 2011). 

CAPITOLO 4: Aspetti legali

 

In questo capitolo analizzeremo più in dettaglio le questioni, già precedentemente citate, legate agli aspetti legali dell’industria videoludica. Per prima cosa cercheremo di inquadrare la questione del copyright nell’ambito videoludico, poi parleremo di come il controllo della proprietà intellettuale da parte delle aziende possa influenzare l’azione degli utenti e di come si situano le mod a livello legale.

4.1 Il copyright dei videogiochi

A causa della loro natura complessa, i videogiochi hanno sempre posto problemi e questioni per quanto riguarda l’applicazione del diritto d’autore. Come abbiamo visto nel Capitolo 1, i videogiochi sono formati da un contenuto audiovisivo e da un software, o

engine, che gestisce il contenuto e permette agli utenti di interagirvi (Wallace, 2014;

Postigo, 2010). Dunque, i videogiochi non sono un’opera singola dai contorni precisi, ma un insieme di elementi, che possono essere individualmente protetti, se sufficientemente originali e creativi (Ramos et al., 2013). Ad esempio, è possibile proteggere un singolo personaggio, l’audio originale, il setting o il codice di un videogioco. Il vero problema sorge quando si cerca di proteggere un intero gioco in quanto opera singola (Ramos et al., 2013): si tratta di un’opera audiovisiva, multimediale o, puramente, di un software? Inoltre, lo sviluppo di un videogioco riguarda molte differenti figure professionali, soprattutto a seguito dei suoi recenti sviluppi e dell’incremento della complessità dei giochi (Casillas, 2014; Ramos et al., 2013). Il numero di persone che lavorano ad un videogioco è avvicinabile a quelle che lavorano ad un film per l’industria cinematografica, e i problemi sono simili: l’autorialità di un individuo rispetto ad un altro dipende dal suo coinvolgimento nello sviluppo e dal rapporto che ha con il publisher (Ramos et al., 2013). Un altro elemento di complessità è l’utilizzo, da parte dei developer, dei cosiddetti middleware, cioè software pubblicati da terze parti per lo sviluppo di un gioco (ad esempio, l’Unreal Developement Kit e altri motori grafici o fisici). L’utilizzo dei middleware risparmia tempo agli sviluppatori, che non devono creare un engine da zero, ma pone altri problemi di natura legale: in un videogioco non si può proteggere il