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La problematica questione dell’autoctonia

Nel documento di Politique Nationale de Sécurisation Foncière venivano utilizzate categorie sociali come «migranti» e «autoctoni» in riferimento a cittadini burkinabé, creando di fatto una discrepanza tra un sistema di appar- tenenza locale che vincolava ogni individuo ad una comunità, il cui criterio di autoctonia era negoziato attraverso l’accesso alla terra, e uno di cittadi- nanza nazionale, in cui i diritti sulla terra potevano essere riconosciuti indi- scriminatamente a tutti i cittadini del paese, indipendentemente dal luogo di provenienza.

In accordo con la legge fondiaria, chi faceva richiesta di un APFR doveva dimostrare di essere “proprietario” della terra, ma la proprietà a livello locale era riconosciuta molto raramente ai “non autoctoni” poiché la terra si tra- smetteva di lignaggio in lignaggio per via ereditaria. Il riconoscimento della proprietà era vincolato infatti al parere favorevole delle autorità consuetudi- narie dei singoli villaggi in quanto presunte conoscitrici della storia dei li- gnaggi e dei confini territoriali sui quali queste esercitavano il controllo.

Inoltre la legge fondiaria del 2009 riconosceva la «valorizzazione» conti- nuativa, pacifica e inequivocabile di un terreno produttivo, coltivato per al- meno 30 anni, come ulteriore criterio per legittimare la richiesta di un certi- ficato di possesso della terra. Tale criterio veniva però contestato da chi ve- deva nella possibilità di registrare un APFR per un “non autoctono”, il ri- schio di perdere i diritti consuetudinariamente esercitati sulla terra (Hochet et al., 2014, p. 126). Cominciavano ad emergere dispute soprattutto in quelle zone del paese, come nel comune di Bama, in cui i flussi migratori, incenti- vati dallo stato negli anni ’60-’70, avevano creato situazioni in cui i migranti di seconda e di terza generazione coltivavano la terra e facevano ormai parte dei villaggi ospitanti. In contesti in cui i diritti riconosciuti erano negoziabili

potevano fare richiesta di registrazione degli appezzamenti di terra loro concessi. Quello del GRAF rappresentava un tentativo di attivare processi di negoziazione che potevano assicurare la legittimità del riconoscimento dei diritti fondiari posseduti dalle donne nelle aree rurali.

e in cui i rapporti di forza erano importanti per ottenere il riconoscimento di un diritto, il timore di coloro che avevano ceduto la terra ai “migranti” era appunto quello di potere perdere l’autorità esercitata su tali terreni a causa della nuova legge. Alcune persone decidevano così di riappropriarsi della terra precedentemente concessa, per evitare che i “migranti” facessero ricor- so alle procedure legali.

Paradossalmente, per coloro che appartenevano alle ultime ondate migra- torie era più facile richiedere la registrazione di un certificato di possesso, poiché era più semplice ripercorrere la storia delle negoziazioni che avevano portato all’ottenimento della terra. Nel comune di Bama, ad esempio, si regi- strava una tendenza a riconoscere più facilmente il diritto di richiedere un APFR al migrante che aveva ottenuto l’accesso alla terra attraverso una tran- sazione di tipo monetizzato. I “doni” di terra venivano invece rimessi in di- scussione dalle nuove generazioni, con cui i migranti si trovavano a rinego- ziare gli accordi precedentemente stipulati dai loro padri. Infatti, farsi rico- noscere il possesso della terra con la nuova legge significava per un migrante rinegoziare accordi fondiari con chi, anche 50 anni prima, aveva ceduto il terreno e tale procedura risultava complessa. I precedenti accordi presi dagli ormai anziani proprietari venivano rimessi in discussione dalle nuove gene- razioni, favorendo fenomeni di recupero della terra da parte degli eredi dei proprietari o alimentando le richieste di denaro per il riconoscimento del di- ritto del migrante di utilizzare o possedere la terra.

Tuttavia, dalle 37 interviste semi-strutturate da me effettuate nei 6 villag- gi del comune di Bama tra marzo e aprile 2014 emergeva che la possibilità di certificare il possesso della terra a nome del “migrante” non era categori- camente negata. Il risultato della negoziazione dipendeva dalle relazioni che questo era riuscito ad istaurare e consolidare nel tempo con il “proprietario” della terra e con la comunità nella quale si insediava.

La definizione dell’appartenenza locale attraverso la registrazione di cer- tificati di possesso a nome dei presunti “autoctoni” del villaggio faceva emergere però un’altra grande problematica.

Definendo l’appartenenza di chi faceva richiesta di APFR ad un villaggio si presupponeva che fossero globalmente riconosciuti i confini territoriali che delimitavano i singoli villaggi. Tuttavia, la riforma si trovava ad operare in contesti in cui la delimitazione territoriale non era mai avvenuta in manie- ra sistematica. I confini tra villaggi rimanevano porosi e prevalevano le for- me “consuetudinarie” di gestione e delimitazione del territorio, in assenza di una capacità di controllo dei confini da parte dello stato. Storicamente era attraverso la capacità di far insediare nuove persone sulla terra che i capi si

assicuravano il controllo e la gestione del territorio. La concessione di terra ai migranti era fonte di legittimazione per le autorità consuetudinarie, che attraverso le relazioni con i migranti insediati, si garantivano al contempo il controllo sul territorio concesso (Kopytoff, 1987; Jacob, 2007; Chauveau, 2008; Arnaldi, 2010).

In sostanza l’indeterminatezza dei confini tra villaggi consentiva di ride- finire l’autorità esercitata dai capi locali sui diversi territori e conquistata at- traverso il controllo dei processi di insediamento di nuovi abitanti all’interno di uno spazio socialmente definito. La legge richiedeva a coloro che faceva- no domanda di APFR di indicare il villaggio a cui appartenevano ma, nelle zone di confine tra villaggi, procedere con la delimitazione delle superfici coltivate dai singoli nuclei familiari diventava un’opportunità per le autorità consuetudinarie di rinegoziare il proprio controllo sul territorio.

Alcuni capi locali esercitavano infatti la propria maitrîse foncière su terri- tori che oltrepassavano i confini dei villaggi definiti dall’amministrazione statale, ma il processo di mappatura dei terreni di cui sarebbe stato registrato il possesso vincolava i singoli ad iscriversi all’interno dei confini del villag- gio formalmente definiti dallo stato.

Se nella fase di registrazione di un APFR un appezzamento di terra veni- va formalmente dichiarato appartenente ad un villaggio e tale appezzamento ricadeva all’interno di un perimetro territoriale conteso tra le autorità con- suetudinarie di due villaggi, sarebbe stato interesse di ogni singolo villaggio far risultare l’appezzamento come facente parte del territorio “controllato” dalle rispettive autorità consuetudinarie. Il fatto che le commissions foncières villageoises venissero monopolizzate dalle autorità consuetudinarie era quindi strumentale a mantenere il controllo sui territori. I capi locali si ap- propriavano così delle procedure legislative per rafforzare il proprio potere nelle aree contese.

Per questo motivo nel corso delle 28 interviste semi-strutturate e dei 4 focus group effettuati nel comune di Léo con i CFV dei villaggi di Sissili, Wan, Diansia e Sanga, alcune persone invocavano l’intervento dell’amministrazione comunale a difesa dei confini territoriali formal- mente definiti dallo stato. Ad esempio, a febbraio 2014 nei villaggi di Sissili e Wan era in corso una disputa fondiaria sulla definizione dei con- fini dei due villaggi. Nel corso di un focus group con il CFV di Wan, le autorità consuetudinarie e i notabili del villaggio facevano emergere le problematiche legate alla definizione di tali confini. Come sottolineava uno dei membri del focus group: «gli abitanti di Sissili non vogliono ri- conoscere che la terra che stanno coltivando appartiene al villaggio di

Wan».16 Il fatto che esistessero confini formalmente definiti dallo stato

che delimitavano i territori dei diversi villaggi e che questi non corri- spondessero a quelli socialmente definiti attraverso i sistemi di maîtrise foncière era causa di dispute tra le autorità consuetudinarie. La legge non risolveva tale problematica, ma al contrario risvegliava le dispute tra vil- laggi limitrofi, in cui i conflitti fondiari erano facilmente riconducibili al- la volontà dei capi consuetudinari di esercitare un’autorità sul territorio attraverso il controllo della popolazione e, in primo luogo, dei migranti. Chi richiedeva il riconoscimento del “proprio” appezzamento all’interno di un territorio “conteso” tra diverse autorità e tra differenti villaggi, si trovava immediatamente imbrigliato all’interno di logiche di potere po- tenzialmente inesauribili.

Tali dinamiche diventavano ancor più problematiche alla luce del fatto che coloro che detenevano il potere all’interno degli organismi responsabili della conciliazione dei conflitti fondiari erano proprio quelle autorità che tentavano di rivendicare il proprio controllo sul territorio. Se legalmente chiunque avrebbe potuto fare richiesta di registrazione di un certificato, di fatto la risoluzione di questo tipo di dispute fondiarie era impensabile in as- senza di un governo locale in grado di includere le società rurali in un reale processo di decentramento amministrativo e politico.

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