La sfida cruciale per gli assetti politici e sociali del nuovo Sudafrica de- mocratico era la riforma dello stato, o il «progetto dello stato» post- apartheid, come definito da Wafer e Oldfield (2015),1 che avveniva in un
contesto internazionale in cui si stavano affermando i nuovi paradigmi dello sviluppo, che mettevano in discussione il ruolo stesso dello stato (Ferguson, 2006; Harrison, 2004).
Quando il Sudafrica ha avviato la ristrutturazione dello stato post- apartheid ha, progressivamente, incorporato i principi e le modalità del New Public Management (NPM)2 che si stavano imponendo a livello globale,
senza che si elaborasse una critica radicale al sistema di governo e alla forma e alle pratiche dello stato ereditate dall’apartheid. La riforma del settore pubblico, a parte gli strumenti di riequilibrio dell’equità razziale come l’affirmative action, si è concentrata piuttosto su un obiettivo secondario: la burocrazia della pubblica amministrazione. La riforma o meglio la trasfor- mazione della forma burocratica, all’insegna dello slogan undoing bu- reaucracy (annullare la burocrazia), è diventata il discorso portante della ri- strutturazione del settore pubblico di fine millennio. Questa nozione neo- liberale della governance locale è diventata ben presto3 un assunto, indimo-
strato nel processo, ma considerato capace di superare di per sé le pesanti eredità dell’apartheid.
Secondo Chipkin (2016), per districare il nodo teorico che si è formato alla base dell’approccio riformista nel nuovo Sudafrica, bisogna osservare le relazioni tra istituzioni e carattere dello stato sudafricano in una prospettiva storica. Per lo studioso sudafricano, la principale contraddizione in materia
1 Per i due autori, si deve parlare di «progetto di stato post-apartheid» in Sudafrica perché
esso è «una potente aspirazione politica con effetti materiali, senza dubbio, ma sempre in uno stato in divenire», per cui l’incontro o confronto (encounter) tra lo stato e i cittadini in Suda- frica è frutto di una lotta per i servizi essenziali che riflette immaginari e concezioni di citta- dinanza differenti. In questo senso, lo stato è un progetto ancora incompleto, che cerca così di motivare la propria esistenza ed egemonia (Wafer e Oldfield, 2015, p. 235).
2 Il New Public Management è un modo di governance emerso nei primi anni ’80 del XX
secolo nei lavori di alcuni studiosi statunitensi (Hood, 1991, 1995) per poi essere esportato anche in altri contesti; introduceva il modo di governance aziendale nel settore pubblico in nome di una maggiore efficienza e accountability.
3 Uno dei punti di svolta che ha segnato anche il cambio di paradigma nella politica eco-
nomica e di sviluppo del nuovo Sudafrica è l’adozione delle politiche neo-liberiste orientate alla crescita di mercato, con l’adozione del Growth, Employment and Redistribution (GEAR), nel 1996.
di pubblica amministrazione ha le sue radici nelle diverse visioni politiche che coabitano nella cultura di governo dell’African National Congress (ANC): una leninista, che ha formato la lotta all’apartheid e buona parte dei quadri dirigenti dell’allora movimento di liberazione nazionale, secondo cui l’obiettivo primario era abbattere o trasformare radicalmente lo stato autori- tario e razzista dell’apartheid; una liberale, che ha invece origini esterne al movimento di liberazione, anche se non propriamente recenti,4 secondo cui
una riforma della burocrazia condotta in termini di valori manageriali sareb- be stata sufficiente a garantire un riequilibrio delle pesanti eredità dell’apartheid. Il tentativo di sintesi tra queste visioni ha visto perseguire all’inizio del nuovo millennio una “terza via” che manteneva il ruolo guida dello stato attraverso un’agenda sviluppista e democratica della riforma dello stato, in cui partecipazione ed empowerment diventavano le parole d’ordine, nel tentativo di evitare inefficienza e corruzione. Tuttavia, nella pratica, si è sempre più evidenziata la contraddizione tra azioni amministrative, che han- no riguardato il servizio pubblico, ispirate ai principi liberali della neutralità e imparzialità dello stato, e azioni politiche, soprattutto nella nomina dei quadri dirigenti delle amministrazioni locali, che invece rispondevano alla volontà di rafforzare il controllo politico dell’ANC sulla burocrazia. Questa contraddizione, secondo Chipkin, non ha fatto altro che indebolire le istitu- zioni stesse e pregiudicare la stessa service delivery.
La mancata risoluzione del nodo teorico che è alla base della riforma neo- liberale sta nell’aver sovrapposto nell’analisi, e quindi nella produzione delle politiche (policy-making), il modo «burocratico» con quello «coloniale». Lo stato dell’apartheid era evidentemente molto burocratizzato e corrotto, ma era soprattutto autoritario. Seguendo Mamdani (1996), lo stato coloniale non pro- duceva tanto un modo «burocratico» di governo, quanto piuttosto un sistema «di comando e controllo», in cui l’autorità concentrava la funzione politica, giudiziaria e amministrativa. Dunque, lo stato dell’apartheid era autoritario, inefficiente e corrotto perché, in funzione di una relazione di produzione che aveva bisogno di forza lavoro a basso costo, imponeva una struttura violenta e coercitiva che riduceva i cittadini africani a sudditi e stranieri in patria.
Le pesanti eredità storiche di un controllo gerarchico e autoritario ancora definiscono il dibattito sulla partecipazione nell’attuale sistema di governan-
4 L’introduzione dei principi del NPM nell’organizzazione del servizio pubblico alla fine
degli anni ‘90, ispirata ai principi aziendali di “efficienza” e “innovazione”, in un approccio di gestione pubblica orientata al valore (value oriented public management approach), aveva in realtà avuto un suo prodromo nel tardo apartheid riformista (Chipkin e Lipietz, 2012).
ce democratica locale. Picard e Mogale (2015) considerano che il modello coloniale basato su una forma «prefettizia» si è legato al modello opposto di liberazione incarnato dall’ANC, che comunque perseguiva il cambiamento politico attraverso strutture centralizzate. La contraddizione è fluita fino al livello sub-nazionale dove la promessa, o richiesta, di governance partecipa- tiva è stata intercettata dalle élite politiche che hanno imposto dall’alto strut- ture e processi alle comunità locali.5
L’approccio iper-normativo della governance, intesa come insieme di “tecniche”, destoricizza lo stato, offuscando gli interessi in gioco nella sua costruzione, ossia nel cosiddetto processo di state building, che andrebbe in- teso invece come un insieme di pratiche e relazioni sociali. Nella fattispecie, in Sudafrica, bisogna situare l’institution building, ossia la costruzione delle nuove istituzioni democratiche, nella più ampia storia dello state building, in cui va necessariamente esplicitato che il modo di governance, o meglio di governo, ereditato dall’apartheid è un sistema biforcato di amministrazioni in cui i modi che combinano e organizzano persone, risorse e beni, per for- mare le istituzioni sono e sono stati differenti tra le diverse aree urbane raz- zializzate, tra ambienti urbani e rurali, tra homeland e il resto del paese, tra ordinamenti giuridici di diritto (common law) e sistemi tradizionali o consue- tudinari (customary law).
Le grandi trasformazioni istituzionali in Sudafrica, formalizzate nei det- tami normativi del Municipal Systems Act del 2000,6 hanno riguardato i
confini delle municipalità, la finanza, le strutture politiche e partecipative, la service delivery, la gestione delle risorse umane. Tuttavia, queste riforme istituzionali non sempre e necessariamente hanno comportato un consolida- mento delle forme democratiche e/o sviluppiste della governance locale, a causa sia di una scarsa memoria istituzionale che di una sottovalutazione del- le complessità delle realtà locali, in cui era evidente una disuguaglianza di opportunità e di capacità di partecipazione e accesso allo stato, nonché una capacità disuguale e parziale dello stesso stato di assistere e rappresentare i diversi attori sociali, più o meno organizzati collettivamente.
Il problema dunque è che, nel nuovo Sudafrica post-apartheid, la ristrut- turazione delle relazioni di potere è stata considerata come un problema tec-
5 Dinamica questa non diversa da quanto osservato altrove in Africa, vedi per esempio:
Olowu e Wunsch (2004), Otayek (2005), Crawford e Hartmann (2008).
6 La partecipazione è un dettato costituzionale che prevede il coinvolgimento dei cittadini
nelle sfere di governo, in particolare di quello locale. Il Municipal Systems Act prevede che le municipalità debbano creare spazi e condizioni per la partecipazione delle comunità locali negli affari municipali.
nico, preferendo una via procedurale della democrazia piuttosto che una ra- dicale trasformazione politica. Per questo si è pensato che potesse bastare una formalizzazione dei processi partecipativi di sviluppo, secondo un’ideologia non-razziale ed equa, che privilegiasse una dimensione tecno- cratica della fornitura di servizi e beni fisici a spese di processi sociali, meno tangibili e misurabili, ma mirati a creare inclusione attraverso la costruzione di una cultura democratica della negoziazione, della libera espressione delle opinioni e della coesione sociale.
La formalizzazione e normalizzazione dei meccanismi partecipativi, at- traverso regole per la trasparenza, la responsabilità, la rappresentazione e l’autorità decisionale, è una necessità costituente dei processi democratici. Tuttavia, se limitata alla sua natura procedurale e tecnica, questa stessa for- malizzazione può avere, a livello locale, l’effetto opposto di ridurre gli spazi e i processi attraverso cui i cittadini, specialmente quelli meno potenti e più periferici, partecipano e si relazionano alle strutture statali.
Molti studi7 hanno dimostrato come le numerose opportunità formali per
migliorare i livelli di partecipazione nella governance non abbiano integrato realmente i cittadini nei processi di policy-making, soprattutto nelle aree più svantaggiate, né le strutture partecipative come i ward committee (comitati di circoscrizione) sono state in grado di colmare la distanza tra cittadini, fun- zionari amministrativi e consiglieri politici (Oldfield, 2008).
Nella pratica quotidiana, avviene, difatti, che le diverse situazioni e posi- zioni delle relazioni sociali finiscano con il trasporsi nei diversi tipi di istitu- zioni, che vengono così caratterizzate piuttosto da relazioni patrono- clientelari e burocrazie politicizzate. Tutto ciò rende il settore pubblico il principale terreno di contestazione. Infatti, laddove non è garantita la norma- le dialettica politica, si sono create strutture di gestione contigue alle istitu- zioni pubbliche, che mediano tra diverse condizioni materiali e posizioni po- litiche nella società o nelle sue diverse sezioni locali.8 Di conseguenza, la
7 Vedi i saggi pubblicati in Critical Dialogue, rivista edita dal Centre for Public Participa-
tion di Durban nel primo decennio degli anni 2000; o anche i saggi della Part IV. Institutional
Models of Developmental Local Government in van Donk et al. (2008); o quelli dello Special
Issue del Journal of Asian and African Studies, curato da Bénit-Gbaffou e Oldfield (2011).
8 Numerosi sono gli studi che hanno fatto luce su queste strutture: per i ward committee,
vedi Oldfield (2008), e Piper e Deacon (2008); per i Community Policing Forum, vedi Bénit- Gbaffou (2008) e Berg et al. (2013); per l’Informal Traders Forum di Johannesburg, vedi Pezzano (2016a, b) e Matjomane (2013); per la piattaforma delle associazioni per le risorse idriche vedi Smith (2011), per i comitati civici per i servizi, vedi Etzo (2004) e Ballard et al. (2006).
partecipazione dei cittadini finisce con l’essere mediata dalla politica locale attraverso forme più personalizzate che istituzionalizzate.
Questi meccanismi, condotti dallo stato o da suoi agenti, formalizzano e regolarizzano la partecipazione, da un lato depoliticizzando i processi parte- cipativi e depotenziando così le istanze espresse dal basso dai cittadini ma, allo stesso tempo, ri-politicizzando gli spazi di partecipazione, secondo mec- canismi di cooptazione o incorporazione più che di partecipazione, per legit- timare strumentalmente decisioni politiche predeterminate dall’alto o sem- plicemente singoli attori politici impegnati nella governance. Non è detto pe- rò che questa politicizzazione avvenga solo in maniera controllata dall’alto; ne sono un esempio evidente le migliaia di proteste per la service delivery che si sono moltiplicate nel nuovo millennio. Più che nella concretizzazione degli obiettivi, non sempre raggiunti, questi movimenti potrebbero avere un valore simbolicamente sovversivo in certi contesti sociali, come nel caso di Abahlali base Mjondolo (AbM) a Durban, per cui Pithouse (2006) ha coniato il termine di «politica popolare», ossia forme di partecipazione pubblica dal basso che occupano le strade e altri luoghi pubblici. Sono, in effetti, quei movimenti che la forza di governo dell’ANC tende a vedere come forme di- struttive e anti-democratiche piuttosto che come forme di legittima protesta, e a cui risponde con la riproduzione di vecchi schemi di cooptazione e re- pressione tesi a limitare e frammentare l’azione (agency) popolare, in conti- nuità con pratiche storicamente sperimentate durante l’apartheid. Dunque gli stessi beneficiari di queste politiche, da un lato, partecipano a spazi «invita- ti» (Cornwall, 2008) e, dall’altro, li contestano nelle forme e nei contenuti politici, ma soprattutto nella pratica dell’implementazione, finendo col crea- re nuovi spazi «inventati» di partecipazione.
La questione degli spazi di partecipazione è stata al centro di un lavoro di ricerca di un gruppo di studiosi del Centre for Urbanism and Built Environ- ment Studies (CUBES) dell’University of the Witwatersrand di Johanne- sburg (Wits), che hanno analizzato i processi partecipativi non solo in base al tipo di spazi usati (invitati/inventati, formali/informali, istituziona- li/spontanei), ma anche di “società civile” coinvolta (ONG, OBC,9 movi-
menti sociali) e ai modi di interazione con lo stato (antagonisti- co/cooperativo).
L’analisi approfondisce le funzioni e i ruoli che questi spazi di partecipa- zione svolgono, non solo in termini di capacità di cambiamento delle politi- che urbane ma anche in più ampi termini sociali e politici.
Da un punto di vista teorico, pur partendo dai lavori di Cornwall, Coelho (2007) e Corbridge et al. (2005), che considerano i processi partecipativi aperti, nonostante la loro natura soggetta al potere, e danno rilievo all’impegno profuso dagli abitanti con basso reddito nelle pratiche quotidia- ne, alcuni di questi autori sudafricani tentano di andare oltre la dicotomia delle categorie di spazi «inventati» (spesso visti o come autentici e rivolu- zionari o come ribelli e pericolosi) e «invitati» (spesso visti come sterili o peggio narcotizzanti). In particolare, Wafer e Oldfield (2015, p. 235), prefe- riscono definirli come luoghi di «incontri/confronti» (encounters) con il «progetto di stato», ponendo lo stato al centro dell’analisi; in questo modo, prendono paradigmaticamente le distanze dagli aspetti prescrittivi e normati- vi dell’analisi «democratica» mainstream a sostegno della società civile.
Spostando, dunque, il focus dell’analisi verso lo stato, si deve considerare che questi non esercita univocamente e coerentemente un potere repressivo ma, nella sua pluralità di azioni, si combina con la molteplicità di posizioni dei movimenti urbani comunitari (Lindell, 2008; 2010a, b), producendo poli- tiche spesso contraddittorie e disuguali che, però, nella loro complessa arti- colazione, contribuiscono anche ad aprire nuovi spazi d’interazione e parte- cipazione con gli attori sociali che, a loro volta, possono influenzare l’attuazione delle stesse politiche pubbliche, ri-politicizzando i processi con- dotti dallo stato.
Una ricerca condotta sui commercianti informali a Johannesburg (Pezza- no, 2016a, 2016b) evidenzia la diversità e contraddittorietà dei comporta- menti degli attori della governance locale: da un lato, la «doppia agenda» delle autorità municipali; dall’altro, l’azione diversificata dei commercianti informali, che cercano di trarre vantaggio dalla pluralità dello stato, così co- me dalle dinamiche della politica locale.
Le autorità municipali di Johannesburg hanno storicamente adottato una strategia «doppia»: una «cooptativa», funzionale allo sviluppo capitalista e modernista della città, che ha incorporato segmenti di commercianti infor- mali “regolarizzati” nella governance urbana e nei processi di accesso alla cittadinanza; e una «repressiva», basata tanto su apparati burocratico- legislativi quanto su pratiche “corrotte”, che ha teso a escludere la maggio- ranza degli stessi, identificati come “illegali”. In pratica, nel momento in cui il comune cerca di attuare una nuova strategia, definita come «coesiva, in- clusiva e partecipativa» e sostenuta da discorsi di sostenibilità e resilienza, contemporaneamente riattiva repertori e pratiche restrittive e repressive con- sequenziali a un «riordino neo-coloniale dello spazio» (Steck et al., 2013). L’esempio dell’Operation Clean Sweep (Operazione Piazza Pulita) di ottobre
2013 è emblematico. Il sindaco, prima di annunciare la riformulazione di una po- litica più “proattiva”, che coinvolgesse tutti gli stakeholder in un processo inclu- sivo, ha sentito la necessità di procedere a un’operazione di “piazza pulita” per tener fuori gli attori sociali indesiderati e incorporarne un numero ristretto. Tutta- via, in questo caso, i commercianti criminalizzati hanno reagito con un’azione conflittuale che, in una certa misura, ha ostacolato e messo in discussione la stra- tegia municipale (Pezzano, 2016a, pp. 507-508).