L’Accordo di pace di Arusha, firmato il 28 agosto 2000, stabilisce nel proto- collo IV il diritto dei rifugiati e degli sfollati di rientrare in possesso dei loro be- ni: «ogni rifugiato e/o sfollato ha diritto a recuperare i propri beni, in particolare la propria terra». Tuttavia il testo resta vago sulle modalità, limitandosi ad an- nunciare la creazione di un ente ad hoc preposto alla risoluzione dei conflitti fondiari, e prevedendo degli indennizzi qualora il recupero dei beni risulti im- possibile: «qualora il recupero dei propri beni risulti impossibile, ogni avente diritto deve ricevere une giusta compensazione e/o un giusto indennizzo», ma senza specificare oltremodo le condizioni di questo impedimento. Nel 2005, con l’insediamento del governo neo-eletto, la questione è stata riconosciuta come prioritaria. Già dal 2002, infatti, una parte dei rifugiati aveva cominciato a rien- trare nel paese, tanto che il giorno della presentazione ufficiale del programma di governo, il 23 dicembre 2005, il Presidente della Repubblica citava, tra le azioni prioritarie, la risoluzione della questione fondiaria legata al rientro dei ri- fugiati ed alla situazione degli sfollati: «portare a termine la reinstallazione com- pleta dei rimpatriati e degli sfollati che hanno perduto la loro abitazione o la loro terra a causa della guerra civile, così come dei gruppi tradizionalmente emargi- nati come i batwa, sebbene la domanda è di gran lunga superiore all’offerta, a causa della penuria di terre».
Le violente crisi socio-politiche che hanno colpito il paese sin dagli anni ’60 (1962, 1965, 1969, 1972, 1988) e che sono sfociate nel conflitto etno- politico del 1993 (Chretien e Dupaquier, 2007; Chretien, 2002; Chretien et al., 1989; Lemarchand e Martin, 1974; Reyntjens, 1994) hanno causato l’afflusso di circa 800.000 rifugiati nei paesi vicini, in particolar modo in Tanzania, e la guerra del 1993 ha prodotto circa 200.000 sfollati interni (In- ternational Crisis Group, 1999). Se i rifugiati del 1993 hanno, nella maggior parte dei casi, ritrovato e recuperato i loro beni,6 la questione è molto più
complessa per quelli del ventennio precedente, le cui terre sono state occupa- te da altre persone, spesso in conformità con la legge, o legalmente vendute, anche varie volte. La legislazione in materia è molto confusa e contradditto- ria. Nel 1977, l’allora presidente Bagaza varò una legge che avrebbe dovuto
6 «Tutti gli interlocutori confermano che nell’insieme, questa categoria di rifugiati reinte-
gra la sua proprietà senz’altra forma di processo. Quando il rimpatriato trova la sua proprietà
occupata – affermano i funzionari amministrativi di Ruyigi – si fa sloggiare l’occupante. Il
nuovo occupante non ha dunque nessuna protezione giuridica, viene semplicemente espulso» (RCN Justice & Démocratie, 2004).
consentire ai rifugiati il diritto di rientrare in possesso di parte dei loro beni che sarebbero stati oggetto di una divisione con gli occupanti. Di fatto, il numero di rifugiati ritornati nel paese fu insignificante e il decreto non fece che convalidare l’occupazione delle terre rimaste abbandonate (International Crisis Group, 2013; RCN Justice & Démocratie, 2004). Nel 1986 fu appro- vato un Codice Fondiario con l’obiettivo ufficiale di regolamentare sia l’accesso alla terra per i rifugiati che le questioni fondiarie ordinarie, ma questo ha finito a sua volta col consacrare, da un lato, la possibilità d’ingerenza dello stato nella gestione di una proprietà privata, e dall’altro l’occupazione delle terre abbandonate negli anni precedenti. L’articolo 2 e l’articolo 8 recitano rispettivamente: «Nonostante i diritti riconosciuti ai pri- vati, lo stato dispone di un diritto preminente di gestione del patrimonio fon- diario nazionale» e che «il patrimonio fondiario nazionale comprende delle terre demaniali e delle terre non demaniali», e cioè quelle che «appartengono a delle persone fisiche o morali di diritto privato». Inoltre l’articolo 29 stabi- lisce: «Colui che occupa un bene immobile e ne usufruisce per trent’anni ne acquisisce la proprietà per prescrizione», garantendo così una sorta di usuca- pione a coloro che hanno occupato un appezzamento di terra per più di trent’anni. Situazione che è comune alla maggior parte di coloro che hanno occupato o acquistato la terra dei rifugiati del 1972, ad esempio.
L’articolo 8 del Protocollo IV dell’Accordo di Arusha prevedeva la revi- sione del Codice Fondiario al fine di adattarlo alle nuove esigenze. Tuttavia tale progetto di riforma ha subito numerosi ritardi che manifestano un deficit di volontà politica. Il processo di revisione è stato ampiamente dibattuto da vari attori internazionali che hanno redatto diversi testi i quali non sono mai stati sottoposti al voto del parlamento. Nel 2008 diversi attori internazionali si sono finalmente associati col governo per dar via ad un progetto di riforma consensuale. Nel 2011 è stata promulgata solo una dichiarazione d’intenti, La lettera di politica fondiaria, senza valore giuridico, che prevedeva la de- centralizzazione della gestione fondiaria. In questo quadro l’Unione Euro- pea, la Svizzera e, in piccola parte, il Belgio hanno finanziato e messo in opera in ventiquattro comuni un servizio fondiario con il compito di rilascia- re certificati di proprietà laddove inesistenti,7 cioè di formalizzare un diritto
acquisito per consuetudine. A tal proposito, almeno tre problematiche sono da rilevare: anzitutto i servizi creati non sono destinati anche alla risoluzione dei conflitti fondiari; in secondo luogo l’erogazione del servizio soffre della mancanza di reale volontà politica da parte del governo, per cui alla progres-
siva riduzione o interruzione dei finanziamenti esterni il servizio s’interrompe; inoltre, secondo alcuni analisti (Kolhagen, 2010) sembrerebbe che i conflitti si siano acuiti dato che la produzione di ulteriori documenti giuridici da parte dei comuni ha amplificato il fenomeno del pluralismo giu- ridico e i conflitti di legittimità tra le varie autorità competenti.
Come si vede la problematica fondiaria va ben al di là delle dispute tra rimpatriati e occupanti. A dispetto dell’attenzione mediatica, infatti, la pro- blematica del ritorno dei rifugiati sulle proprie terre è in percentuale poco rile- vante rispetto a quella delle dispute fondiarie nel loro complesso (Kolhagen, 2011). Quest’ultime riguardano, nel 72% dei casi, litigi di successione e di vi- cinato (International Crisis Group, 2014), che si acuiscono a causa della man- canza di una legislazione chiara. La questione del pluralismo giuridico è un fenomeno che riguarda sia l’accesso alla terra dei rimpatriati sia le questioni fondiarie ordinarie: «Non passa giorno senza che i media trasmettano la noti- zia che dei mediatori della Commissione Nazionale Terra e altri Beni (CNTB) disapprovino le decisioni dei giudici, che dei mediatori di ONG si lamentino delle decisioni di certe autorità, che dei mediatori religiosi deplorino le deci- sioni dei mediatori tradizionali, ecc.» - scrivono A. Nyenyezi Bisoka e A. An- soms (2013), che aggiungono «in altri termini, in tali contesti, i conflitti fon- diari si accompagnano a dei conflitti di legittimità tra le autorità preposte alla loro risoluzione». Una pluralità di attori, infatti, interviene in materia fondia- ria: da quelli classici, come corti e tribunali, a quelli alternativi, come i notabili locali, le autorità locali, la chiesa, le ONG, e così via. Se nella capitale la su- pervisione dei media e delle associazioni civili consente, in una certa misura, di mitigare gli abusi politici, nelle altre province del paese, invece, spesso gli equilibri tra le forze politiche a livello locale, celati dalla questione etnica, fanno da ago della bilancia. Nyenyezi Bisoka e Ansoms riportano l’esempio eloquente del comune di Mwakiro, provincia di Muyinga, dove cinque agri- coltori, militanti del partito al potere, hanno contattato una ONG locale al fine di risolvere il contenzioso riguardante la proprietà di una terra occupata da un insegnante, Nahimana Fulbert. L’ONG decreta a favore dell’insegnante, per «mancanza di prove sufficienti», ma la decisione non viene accettata dai cin- que coltivatori che si rivolgono alle autorità locali. Fulbert riteneva che la que- stione non potesse essere risolta dalle autorità locali, accusate di parzialità, in quanto appartenenti allo stesso partito dei cinque coltivatori. Viceversa, per i cinque coltivatori i membri dell’ONG erano tutti upronisti, come Fulbert, che di conseguenza era stato favorito. Nell’immaginario comune, i membri dell’UPRONA, l’ex partito unico, sono tutsi, mentre quelli del CNDD-FDD, il partito al potere, maggioritariamente hutu. Ma prima ancora che la questione
trovasse una soluzione giuridica, Fulbert è costretto ad abbandonare la proprie- tà contesa temendo rappresaglie. Racconta, infatti, di minacce di morte ricevu- te dai giovani imbonerakure (Human Rights Watch, 2016), il gruppo giovani del partito al potere che agisce, in realtà, come una vera e propria milizia del CNDD-FDD. Questa situazione è molto comune, e gli esempi si moltiplicano. In generale, i giudici vengono accusati di essere ancora in maggioranza tutsi affiliati all’ex partito unico, l’UPRONA, e dunque di favorire i residenti, men- tre le autorità locali vengono accusate di favorire gli interessi dei militanti del CNDD-FDD. E nonostante i deboli tentativi di decentralizzazione, l’ingerenza del potere centrale resta forte. In funzione delle vere o presunte appartenenze politiche, i conflitti fondiari sono politicizzati e le persone coinvolte si appel- lano all’una o l’altra autorità a seconda di dove pensano di avere più possibili- tà di successo. Spesso, inoltre, a livello locale sono le minacce e la forza ad avere la meglio, come nel caso di Fulbert, dato che le autorità locali o i mem- bri influenti del partito al potere tendono a imporre le loro decisioni con la legge della paura e non di rado i governatori provinciali e i parlamentari inter- feriscono anche laddove sono stati previsti dei meccanismi di decentramento. Tali interferenze rispondono ad una duplice necessità: quella di consolidare il potere del partito di maggioranza favorendo i propri militanti, e quella di con- quistare nuove fette di elettorato, in un paese che è perennemente in campagna elettorale, come vedremo più avanti.
Tra la molteplicità di attori coinvolti nella risoluzione dei conflitti fondia- ri, quello che ha canalizzato tutta l’attenzione negli ultimi anni è sicuramente la CNTB, che rientra nella categoria degli enti giuridici “speciali” ma il cui status giuridico nei confronti della giustizia ordinaria è sempre stato poco chiaro e controverso. Il modus operandi della CNTB è cambiato nel corso degli anni, in seguito soprattutto ad un cambio di direzione e una sempre più forte ingerenza del Presidente della Repubblica, in particolare in prossimità delle elezioni del 2010. Prima di entrare nel merito della questione, è oppor- tuno analizzare brevemente la nascita e l’evoluzione della CNTB, le cui atti- vità hanno per lungo tempo risentito del fenomeno del pluralismo giuridico.
3. Dalla CNRS alla CNTB: nascita ed evoluzione del principale attore