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La ragion d’essere della recidiva nel sistema penale

Le prospettive future della recidiva

7. La ragion d’essere della recidiva nel sistema penale

Giunti a questo punto, è necessario occuparci del fondamento della recidiva, tema di centrale importanza, da sempre discusso e allo stesso tempo quanto mai sfuggente100.

Da un lato, si ricollega infatti con gli aspetti, altrettanto decisivi, della natura giuridica e del funzionamento dell’istituto, che tuttavia – come abbiamo visto – sono rimessi in buona parte alle scelte legislative. Dall’altro, e soprattutto, la configurazione dell’aggravante come discrezionale e non più obbligatoria, fa sì che la comprensione della ratio si riveli indispensabile per determinare i requisiti “sostanziali” per l’applicazione della circostanza, senza alcuna intermediazione del legislatore, il quale si è limitato solamente a richiedere l’elemento “formale” della precedente condanna definitiva per un delitto non colposo.

Spetta quindi all’interprete il gravoso compito di delineare la ragion d’essere della recidiva all’interno dell’ordinamento penale, valorizzando gli scopi e le funzioni principali dell’istituto. Tale passaggio si rivela fondamentale, specie in una materia delicata come quella di cui si sta trattando: nell’attesa di una riforma che delinei con maggiore chiarezza i contorni della figura, alcuni problemi possono essere risolti già a livello interpretativo.

Detto altrimenti, attraverso la comprensione della vera ratio dell’aggravante, infatti, si può aiutare il giudice a esercitare correttamente il suo notevole potere discrezionale nell’applicazione della circostanza, evitando che quest’ultimo sconfini nell’arbitrio ovvero – riprendendo le sempre attuali parole di un illustre Maestro – nella «sovranità giudiziale»101.

Innanzitutto, posso dirsi oramai superate le teorie abolizioniste, sviluppatesi in Francia nella prima metà dell’Ottocento e riprese anche da alcuni esponenti della

100 Di recente, una completa ricostruzione in merito alle varie posizioni dottrinali sostenute nel dibattito sul fondamento dell’istituto è stata effettuata da D. BIANCHI,Il fondamento della recidiva: ipotesi di razionalizzazione e ricadute applicative, in Dir. pen. proc., 2014, p. 1115 ss.

101 La celebre espressione appartiene P.NUVOLONE, Il sistema del diritto penale, II ed., Padova, 1982, p. 336.

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dottrina nazionale102, i quali negavano in radice qualsiasi distinzione tra il delinquente primario e il recidivo, nell’ottica di un diritto penale concentrato solamente sul singolo fatto di reato e attento a non violare il principio del ne bis in

idem né l’equazione reato-pena.

Tali argomentazioni – come è facile intuire – vennero ben presto abbandonate103, perché non idonee a offrire un’adeguata risposta repressiva al fenomeno del recidivismo e non in grado di sanzionare penalmente il maggior disvalore insito nella condotta di colui che già in passato aveva commesso un crimine.

Attualmente, quindi, si contendono il campo tre orientamenti di fondo: uno, di stampo retribuzionista, imperniato sulla maggiore colpevolezza del reo; quello ispirato a logiche di tipo special-preventivo, incentrato su una più elevata pericolosità sociale del soggetto; l’ultimo, di matrice prevalentemente giurisprudenziale, che cerca di unire le due ricostruzioni precedenti e prende il nome di bivalente o bidimensionale104.

Come anticipato, solitamente si sono cercate connessioni tra il fondamento dell’istituto, da una parte, e la sua natura e il relativo regime applicativo, dall’altra. Così si ritiene che a una ratio di maggiore colpevolezza corrisponda la qualificazione di circostanza in senso tecnico, sì inerente la persona del colpevole, ma allo stesso tempo riverberantesi sulla commisurazione della pena per il singolo fatto di reato.

102 Ricostruiscono l’intenso dibattito francese, evidenziando le diverse argomentazioni sostenute da autori come Jean Carnot, Isidore Alauzet e Joseph Claude Tissot, R. DELL’ANDRO, La recidiva nella

teoria della norma penale, Palermo, 1950, p. 18 ss.; G.MATTEOTTI, La recidiva. Saggio di revisione critica

con dati statistici, Torino, 1910, p. 233 ss.; G.MAGGIORE, Principi di diritto penale. Volume I: Parte generale, III ed., Bologna, 1939, pp. 517-518. In Italia, il principale seguace di tale corrente fu Giovanni Carmignani, il quale, in una delle sue opere più conosciute, affermò che «se i due delitti fossero stati commessi da altri che da lui, il danno sarebbe stato lo stesso, né vi sarebbe titolo per la esasperazione della pena» (cfr. G.CARMIGNANI, Teoria delle leggi e della sicurezza sociale, Napoli, 1831, p. 133). In argomento si veda amplius il paragrafo quarto del Capitolo I del presente lavoro.

103 Si pensi che già G.MATTEOTTI, La recidiva. Saggio di revisione critica con dati statistici, cit., p. 233, riteneva le stesse appartenenti a un lontano passato: «ormai a tale teorica, la quale più non attrae che qualche solitario, è assegnato un valore, un interesse quasi unicamente storico».

104 Per una ricostruzione più dettagliata del dibattito si rimanda a E.M.AMBROSETTI, voce Recidiva, in S. CASSESE (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, vol. V, Milano, 2006, pp. 4950-4952; V.B. MUSCATIELLO, La recidiva, cit., in particolare pp. 61-67 e pp. 89-95; T. TRAVAGLIA CICIRELLO, Il reo

pericoloso, cit., p. 504 ss.; G.L. GATTA,sub art. 99 c.p., cit., pp. 1650-1652; M.ROMANO,sub art. 99 c.p., cit., pp. 91-93; M.BERTOLINO, Il reo e la persona offesa. Il diritto penale minorile, cit., pp. 137-143.

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Il fondamento special-preventivo, invece, accomunerebbe l’istituto alle forme di delinquenza qualificata, previste dagli artt. 102 ss. c.p. proprio per arginare l’elevata pericolosità sociale del soggetto e incidenti solo marginalmente nella dimensione punitiva.

Secondo la prospettiva bivalente, infine, la recidiva oscillerebbe tra la categoria delle circostanze e quella degli status soggettivi, tant’è che nelle interpretazioni giurisprudenziali viene definita, in modo alquanto ambiguo, come un’aggravante sui generis, che segue l’ordinario regime delle circostanze in senso tecnico, salvo alcune rilevanti eccezioni: si pensi alla già ricordata ipotesi della procedibilità nel delitto di truffa commesso dal recidivo105.

Tale metodo di ragionamento non ci pare soddisfacente: qualunque delle tre interpretazioni si scelga di seguire, infatti, non sembra che si possa scorgere un legame tra il fondamento e la natura giuridica dell’istituto, dal momento che quest’ultima ha delle rilevanti conseguenze sulla disciplina più che sulla ratio stessa. Così ci si è soffermati, nella riflessione in merito al fondamento dell’istituto, sul carattere obbligatorio o discrezionale dell’aggravante106. La discrezionalità, vigente in materia dalla riforma del 1974, ha spinto nel senso di una più intensa capacità a delinquere, mentre l’obbligatorietà sarebbe da sempre più coerente con un’idea retributiva di maggiore colpevolezza per il fatto.

Anche questo automatismo, in realtà, non è del tutto convincente.

Se per carattere obbligatorio si intende infatti che la maggiore colpevolezza discende direttamente dal precedente giudicato, desumibile dal casellario giudiziale, si dimentica che la maggiore colpevolezza non deriva tanto dalla mera sentenza irrevocabile, quanto piuttosto dalla funzione di monito che essa svolge107.

105 Cfr. Cass. pen., Sez. Un., 31 gennaio 1987, Paolini, cit. e le recenti sentenze di legittimità a sezioni semplici che hanno ripreso tale indirizzo interpretativo, secondo il quale non si può ritenere che la recidiva rientri tra le aggravanti che rendono perseguibile d’ufficio il reato di frode informatica in quanto essa inerisce esclusivamente alla persona del colpevole e non incide sul fatto reato, sulla sua natura e sulla gravità oggettiva.

106 Per un quadro efficace delle interconnessioni tra fondamento, natura e disciplina si vedano, per tutti, E.M. AMBROSETTI, Recidiva e recidivismo, cit. p. 6 ss.; L. PELLEGRINI, Recidiva e concorso omogeneo

di circostanze ad effetto speciale, cit., pp. 1372-1375.

107 Cfr., sul punto, le lucide affermazioni di F.PALAZZO, Corso di diritto penale. Parte generale, V ed., Torino, 2013, p. 534, secondo il quale «la semplice esistenza di una condanna per un precedente reato

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Tale funzione viene assolta solamente nel caso in cui al provvedimento di condanna, conosciuto dal reo, si aggiungano ulteriori indici sintomatici, come la specificità, la temporaneità e la non occasionalità della condotta.

Sembra quindi che nessuna delle ricostruzioni precedenti sia riuscita a cogliere con esattezza la ratio della recidiva, per cui, al fine di risolvere questo nodo esegetico, diventa imprescindibile una lettura costituzionalmente orientata dell’istituto, specie con riguardo ai principi che governano la commisurazione della pena.

Non è ammissibile, in primo luogo, una lettura dell’aggravante in chiave di maggiore pericolosità sociale, che valorizza l’attitudine del soggetto alla reiterazione criminosa108.

In questa prospettiva, il disvalore che giustifica l’aumento sanzionatorio è esclusivamente incentrato sulla personalità del reo, incline a commettere nuovi reati, non solo o non tanto dopo una sentenza di condanna, quanto piuttosto dopo avere già violato in precedenza il precetto penale. Si tratta, dunque, di una valutazione prognostica proiettata verso il futuro, nella quale il ruolo del giudicato tende a svilirsi, in quanto rappresenta solo il documento formale che attesta la pericolosità del soggetto.

Se si guarda alla prassi applicativa, si può notare come i giudici, almeno per determinati aspetti, riconducano l’istituto proprio alla maggiore pericolosità sociale: basti qui pensare ad alcuni problemi interpretativi legati al ruolo della precedente condanna, come nel caso della c.d. recidiva per saltum. È maggioritario l’orientamento, difatti, che nega qualsiasi rilevanza alla precedente dichiarazione di recidiva semplice rispetto alla recidiva reiterata, per cui, al fine dell’applicazione

può essere solo un sintomo di una eventuale maggiore colpevolezza, la quale in concreto dipende da molti altri fattori».

108 Per una simile ricostruzione si veda, per tutti, F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte generale, p. 658 ss. L’illustre Autore sostiene che la ragione giustificatrice dell’aumento di pena vada ricercata nella volontà persistente nel delinquere e, perciò, nella maggiore capacità criminale: il recidivo, infatti, «palesa una notevole inclinazione al delitto» e «il suo comportamento autorizza il timore di ulteriori reati nell’avvenire» (p. 663).

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dell’aggravante ex art. 99, comma 4, c.p., è sufficiente l’avere riportato più di una condanna109.

La soluzione di rendere irrilevante la dichiarazione, peraltro assai discutibile110, ha una logica solo se si dà importanza al pregresso delitto, del quale la sentenza in sé e per sé considerata rappresenta la prova giudiziale e l’elemento formale. Così facendo, tuttavia, la pronuncia irrevocabile non riesce a esplicare la propria funzione di monito e la recidiva perde la sua autonomia perché viene accomunata a istituti giuridici che, invece, dovrebbero restare distinti, come la continuazione criminosa o il concorso materiale.

Allo stesso modo, ovverosia in un’ottica rivolta al futuro, una recente pronuncia delle Sezioni Unite – già menzionata in precedenza – ha sancito l’irrilevanza, ai fini della recidiva, della condanna estinta in seguito a esito positivo dell’affidamento in prova al servizio sociale111. I giudici di legittimità, nelle proprie argomentazioni, hanno dato rilievo al comportamento virtuoso del condannato che, quindi, viene recuperato e presumibilmente non ricadrà nuovamente nel reato.

Tuttavia, l’interpretazione dell’istituto in chiave di capacità a delinquere e pericolosità sociale – esemplificata dalle pronunce sopra menzionate – non è compatibile con i principi in materia di sanzione penale, specie con quelli di proporzione e di colpevolezza per il singolo fatto.

La pena, infatti, per non essere sentita come ingiusta dal condannato deve essere proporzionata alla gravità, oggettiva e soggettiva, del reato commesso. Per

109 Cfr. Cass. pen., Sez. II, 7 maggio 2010, n. 18701, in www.iusexplorer.it, secondo cui «la recidiva reiterata può essere riconosciuta in sede di cognizione anche quando in precedenza non sia stata dichiarata giudizialmente la recidiva semplice».

110 Critico nei confronti del menzionato orientamento giurisprudenziale è L. BISORI, La nuova recidiva

e le sue ricadute applicative, in F.GIUNTA (a cura di), Le innovazioni al sistema penale apportate dalla legge

5 dicembre 2005, n. 251, Milano, 2006, p. 54, il quale evidenzia come si possa giungere al «paradosso»

che da una recidiva semplice, esclusa perché non significativa dal punto di vista di un legame qualificato tra i due illeciti, possa scaturire per saltum una recidiva reiterata, con tutti gli effetti negativi che ci comporta. Contra C. TRANQUILLO, L’incerto regime applicativo della recidiva e gli spazi di

discrezionalità del giudice, in Arch. n. proc. pen., 2010, p. 287, nella parte in cui sostiene che «la

circostanza negativa della mancata declaratoria di recidiva […] non preclude al giudice del nuovo procedimento di dichiarare recidivo reiterato l’imputato».

111 Cfr. Cass. pen., Sez. Un., 27 ottobre 2011, n. 5859, cit. Nel dispositivo si legge espressamente che «l’estinzione di ogni effetto penale prevista dall’art. 47, comma 12, ord. pen., in conseguenza dell’esito positivo dell’affidamento in prova al servizio sociale, comporta, a mente dell’art. 106, comma 2, c.p., che della relativa condanna non possa tenersi conto agli effetti della recidiva».

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cui, se – come è stato autorevolmente sostento – la misura della sanzione corrispondente alla gravità dell’illecito rappresenta «il limite comunque invalicabile e che il criterio della capacità criminale può operare solo “verso il basso”»112 ne consegue inevitabilmente «che anche l’aumento di pena per la recidiva, al di sopra dei limiti segnati dalla colpevolezza per il fatto, non appare compatibile con l’art. 27 Cost., qualora della recidiva si dia una lettura in chiave di maggiore pericolosità del soggetto»113.

A quanto detto si aggiunga che non è del tutto chiaro il legame che può intercorrere tra una recidiva, vista come espressione di una più intensa pericolosità sociale, e pena. Non si capisce, infatti, quale funzione possa svolgere una sanzione, aggravata ex art. 99 c.p., nel contenimento e nel controllo della predetta pericolosità, che riguarda oltretutto un soggetto imputabile. Sarebbe forse più opportuno – come messo in luce da attenta dottrina – non irrogare una pena maggiore a colui che ricade nel crimine, ma accompagnarla con una misura di sicurezza, essendo quest’ultima ben più idonea allo scopo114.

Dopo aver contrastato la ratio della recidiva in termini di maggiore pericolosità sociale, allo stesso modo non possiamo condividere il fondamento “bidimensionale” dell’istituto, secondo cui quest’ultimo concorrerebbe a definire la colpevolezza per il fatto, in una funzione retributivo-proporzionale, e fungerebbe anche da indicatore della capacità di commissione di nuovi delitti, in una funzione tipicamente preventiva.

112 Si esprime così F.PALAZZO, Corso di diritto penale. Parte generale, V ed., Torino, 2013, p. 592, il quale sottolinea come una simile scelta tra i diversi criteri finalistici di commisurazione riflette una concezione di fondo in cui «la retribuzione opera in chiave di garanzia personalistica contro il rischio di eccessi punitivi, mentre la prevenzione speciale può operare nella fase di commisurazione solo al di sotto del limite della pena proporzionata».

113 Testualmente M. PELISSERO, Pericolosità sociale e doppio binario. Vecchi e nuovi modelli di

incapacitazione, Torino, 2008, p. 360. Nella medesima prospettiva, si vedano E. DOLCINI, Le due anime

della legge “ex Cirielli”, in Il Corriere del merito, 2006, p. 55 ss.; P. PITTARO, sub art. 27 Cost., in S.BARTOLE

–R.BIN (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, II ed., Padova, 2008, pp. 286-287, nella parte in cui sostiene che «il principio della colpevolezza costituisce il limite estremo superiore della sanzione».

114 Così R.BARTOLI, Lettura funzionale e costituzionale della recidiva e problemi di razionalità del sistema, cit. p. 1705, secondo cui sarebbe quindi più opportuna una misura di sicurezza per tenere sotto controllo la pericolosità sociale dell’individuo che ha già commesso un reato. L’Autore, inoltre, si chiede se sia possibile, a questo punto, «distinguere una pericolosità sociale della misura di sicurezza dalla pericolosità sociale della pena».

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Tale lettura è presente nella gran parte delle sentenze della Cassazione: per la Suprema Corte, infatti, affinché si possa precedere all’aumento di pena previsto dall’art. 99 c.p., è necessario verificare che il nuovo episodio delittuoso «appaia concretamente significativo di una più accentuata colpevolezza e di una maggiore pericolosità del reo»115.

L’interpretazione dei giudici di legittimità, ripresa anche in alcune celebri sentenze della Corte costituzionale116 e da autorevole dottrina117, è sorta sul finire degli anni Settanta118 al fine di sopire il vivace contrasto sul tema, tuttavia può essere alquanto problematica.

115 Cfr., per tutte, quale esempio dell’interpretazione indubbiamente maggioritaria in giurisprudenza, Cass. pen., Sez. Un., 27 maggio 2010, n. 35738, cit.

116 Si veda, in particolare, Corte cost., sent. 14 giugno 2007, n. 192, cit., nella parte in cui chiarisce che il nuovo delitto deve essere sintomatico «in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, ed avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 cod. pen., della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo». In termini analoghi si esprime Corte cost., ord. 29 maggio 2009, n. 171, in Giur. cost., 2009, p. 1906.

117 Si esprime in tal senso M.BERTOLINO, Il reo e la persona offesa. Il diritto penale minorile, cit., p. 141, nel momento in cui afferma che «la ricaduta nel reato non solo si presta a una valutazione proiettata al futuro, […] ma giustifica anche, con una proiezione verso il passato, un rimprovero maggiore che si può muovere al recidivo». In termini quasi analoghi si esprime T. MARTINA, voce Recidiva, cit., p. 2, secondo la quale al fondamento retributivo dell’istituto si deve aggiungere una «compresenza di finalità special preventive defensionistiche». Nella manualistica si vedano, per tutti, G.MARINUCCI – E.DOLCINI,Manuale di diritto penale. Parte generale, cit. p. 574; F.MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 658, che parla espressamente di istituto «bidimensionale»; P.NUVOLONE, Il sistema del diritto penale, II ed., Padova, 1982, p. 338, il quale constata come la bidimensionalità della recidiva «corrisponda anche alla bidimensionalità della pena»; G.FIANDACA –E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, VII ed., Bologna, 2014, p. 469, laddove sostengono che il recidivo dimostrerebbe, per il fatto stesso di persistere nell’illecito, «sia una maggiore insensibilità ai dettami dell’ordinamento, sia una maggiore propensione a delinquere in futuro».

118 La Corte di cassazione, infatti, già negli anni immediatamente successivi alla riforma del 1974 ha deciso di non prendere posizione in merito al fondamento della recidiva e, di conseguenza, di non spiegare se l’aumento di pena debba giustificarsi in un’ottica di retribuzione o come e misura di difesa sociale. In un arresto, anzi, si legge che «per l’esercizio del potere ora concesso al giudice dal nuovo testo dell’art. 99 del codice penale, non occorre prendere posizione sulla questione se la causa dell’aggravante della recidiva sia ravvisabile nell’aumento della pericolosità criminale dell’agente, oppure nella maggiore gravità del reato successivo rispetto ai precedenti, per effetto del mutamento dell’energia spirituale che lo caratterizza». Ciò che conta, al contrario, è «rilevare che la nuova norma, accogliendo il principio della recidiva facoltativa, muove dalla premessa che l’esistenza e la quantità del disvalore subiettivo della fattispecie recidivale non possono formare oggetto di presunzioni legali, ma debbono essere lasciate all’accertamento compiuto dal giudice caso per caso» (cfr. Cass. pen., Sez. V, 21 agosto 1975, Di Giorgio, in Cass. pen., 1976, p. 1082). Una panoramica delle sentenze di legittimità degli anni Settanta su tale specifico aspetto dell’istituto è presente in R. BERTONI, La

riforma penale dell’Aprile 1974 nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, cit., pp. 1393-1395; E.M.

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Si rischia, invero, di attribuire al giudice un potere troppo ampio, che può sconfinare nell’arbitrio, dal momento che il giudicante può ritenere un soggetto recidivo alternativamente perché riscontra in lui una maggiore colpevolezza ovvero perché è più spiccata la sua capacità a delinquere. Detto altrimenti e riprendendo quando detto da autorevole dottrina, un determinato «istituto non può essere interpretato in un senso o in un altro a seconda del caso concreto»119, anche perché ciò violerebbe senza dubbio il principio di uguaglianza.

Così, per non tradire i principi costituzionali, è necessario optare per una visione retributiva della recidiva, che valorizzi il passato e non il futuro, ossia ciò che il reo ha già compiuto120. Il giudice, quindi, deve orientare il proprio potere discrezionale verso la gravità del reato commesso, nello specifico verso la maggiore colpevolezza del soggetto, tralasciando la sua pericolosità sociale o ulteriori prognosi proiettate in avanti.

Chiaramente, il riferimento non è alla colpevolezza in senso psicologico121, quale mero contenitore dei due elementi soggettivi del dolo e della colpa, che non gioca un ruolo rilevante sul piano della recidiva.

119 Si esprime in questo modo R. BARTOLI, Lettura funzionale e costituzionale della recidiva e problemi di

razionalità del sistema, cit. p. 1703.

120 Sostengono tale opinione, benché con argomenti diversi, L. MAZZA, voce Recidiva, cit., p. 74, secondo il quale «non vi è dubbio che la colpevolezza dell’abitudinario, cioè del recidivo, ergendosi sul fatto e dominandolo, è più intenso di quella dell’agente che trasgredisce il precetto penale per la prima volta»; P.PITTARO, voce Recidiva, cit., p. 366, nella parte in cui afferma che l’aggravante investe «il fatto di reato e la sua colpevolezza, alla stregua id un’impostazione costituzionalmente orientata, ma mai la pericolosità del soggetto»; M.ROMANO,sub art. 99 c.p.,cit., p. 93, che parla di «centralità

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