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1. Similitudini nautiche: il Doppio di Eteocle e (è) Polinice

1.3. Lasciato il pelago

L’inconscio è la natura che mai inganna. G. Jervis, introduzione a C.G. Jung, Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna.293

Per una migliore comprensione delle dinamiche interiori di Polinice sarà opportuno confrontare la similitudine analizzata sopra con un’altra. Andando un poco oltre nella narrazione, ci si trova nella scena del libro II in cui vengono descritti i preparativi di Polinice e Tideo per le nozze con le figlie di Adrasto (vv. 134-305): Polinice, accettando l’offerta di sposare Argia, paragona se stesso ad una nave che si avvicina felicemente alla terraferma dopo aver subito il rischio di naufragio (vv. 189-197):

‘anne aliquis soceros accedere tales

abnuat? exulibus quamquam patriaque fugatis nondum laeta Venus, tamen omnis corde resedit tristitia, adfixique animo cessere dolores.

nec minus haec laeti trahimus solacia, quam si praecipiti convulsa Noto prospectet amicam puppis humum. iuvat ingressos felicia regni omina quod superest fati vitaque laborum fortuna transire tua’.

Sembrerebbe che, una volta raggiunta la terraferma, Polinice abbia riacquistato i punti simbolici di riferimento all’interno (porto, mura, palazzo) di un ambiente infido e ostile, approdando infine a una condizione positiva. Come osserva Margaret Cohen nello studio dedicato al cronotopo del mare:

La riva è uno spazio di forte interazione sociale, che somiglia al cronotopo della strada – caratterizzato, secondo Bachtin, dagli incontri tra gruppi che, pur abitando nello stesso mondo, di solito sono separati a causa della stratificazione sociale. Sulla riva, il sociale si espande fino a includere persone provenienti da tutte le regioni del globo, compresi i senza patria, e quelli che trafficano col soprannaturale: pirati, disertori, naufraghi, semidèi, maghi. La riva offre così un ottimo esempio di ciò che Mary Louise Pratt definisce “zona di contatto”, uno spazio di confine dotato di un’identità precisa [...]. Sulla riva, però, i confini non vengono oltrepassati, quanto piuttosto messi alla prova e poi riaffermati.294

Dunque, sulla terraferma lo spazio del protagonista si interseca con quello degli altri personaggi e occorre proseguire l’indagine dell’identità di Polinice che emerge dal suo rapporto con gli eroi che lo circondano.

La risposta di Polinice sembra avere un tono positivo e gioioso (Iuvat ingressos felicia regni, v. 195; fortuna transire tua, v. 197) espresso anche dalla similitudine nautica, a cui egli ricorre comparando il proprio matrimonio e la vita felice grazie alla protezione di Adrasto, a una nave che, dopo aver subito il rischio di naufragio, si avvicina alla terra: la stessa similitudine, tuttavia, lascia presupporre dinamiche interiori al personaggio non del tutto univoche.

Al pari dell’isola la nave è un autentico microcosmo sociale. Nella topica letteraria la navigazione e la tempesta sono largamente impiegate e riconoscibili come metafora della sventura ed incombente disgrazia politica. Per cogliere in tutte le sue implicazioni l’equivalenza tempesta/naufragio/disgrazia civile sarà necessario tenere presente il grande modello alcaico: lo stesso Alceo aveva messo in relazione con l’esilio l’immagine della nave nel fr. 73, che, di fatto, schizza nelle linee fondamentali il sistema allegorico-metaforico poi utilizzato e variato in tutta

294 M. COHEN, Il mare, in F. MORETTI, a cura di, Il romanzo, vol. IV: Temi, luoghi, eroi,

la poesia dell’esilio. 295 Per la contesa dei venti, ad esempio, è usato il termine

στάσις, che in greco spesso designa la “rivolta politica”: la similitudine della nave sembra nascondere un’idea di sventura tanto sul piano politico quanto sul piano personale (l’esilio).

Naturalmente, la retorica della tempesta arriva a Stazio già codificata, e molto praticata, quasi al limite della consunzione. Non vorrei qui tracciare per esteso la storia di un topos che è stato già indagato.296 Siamo stimolati

invece a chiederci perché tali indiscutibili metafore dell’esilio appaiono proprio nel momento in cui Polinice sembrerebbe avvicinarsi al periodo più che mai felice della sua esistenza (la nave, come si è visto, ha evitato il naufragio).

Le immagini nautiche, in effetti, rappresentano la concretizzazione visiva della condizione di esule appena ricordata da Polinice (exulibus quamquam, v. 190). La similitudine rivela la scissione interiore del personaggio: egli, pur essendo contento dell’idea del matrimonio e del benessere sia sociale che amoroso (laeta Venus, v. 191; animo cessere dolores, v. 192; iuvat ingressos felicia regni […], v. 195), rimane sempre esule nonostante la sua nuova condizione.297 Il motivo dello spazio assume rilievo nella rappresentazione

simbolica della distanza che divide l’eroe da Tebe: l’esilio, infatti, è sentito come trappola del suo spirito. Polinice nasce nella città di cui suo padre è

295 Già a partire dalla poesia più antica si può assistere con estrema frequenza allo

slittamento naturale verso un’utilizzazione ancora più specifica e caratterizzante della metafora della navigazione. Il mare da generico ‘spazio dell’esistenza’ diventa spazio politico, sede del rischio incombente di una catastrofe non solo individuale, ma sociale: la nave è lo stato – ossia la città -, il timoniere colui che la governa. Si rimanda anche a G. LENTINI, La nave e gli ἑταῖροι: ιn margine ad Alceo frr. 6, 73, 208a V, in «MD», 46, 2001, pp. 159-

170; rif. pp. 167 ss.

296 Sull’allegoria della nave dello stato, cfr. E. SCHÄFER, Das Staatsscheff. Zur Präzision eines

Topos, in P. JEHN, a cura di, Toposforschung, Frankfurt am Mein, Athenaeum, 1972, pp. 259- 292; G. LIEBERG, Seefahrt und Werk. Untersuchungen zu einer Metapher der Antiken, besonders der

lateinischen Literatur. Von Pindar bis Horaz, in «GIF», 21, 1969, pp. 209-213; E.R. CURTIUS,

Letteratura europea e Medio Evo latino (ed. or. Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter,

Bern, Francke, 1948), Firenze, La Nuova Italia, pp. 147-148.

297 “[...] when Polynices compares himself to a storm-tossed ship seeking refuge in a

harbour, he is expressing an attitude to Argos: it is a transient stage in his own fortuna: a temporary home, not a final destination. He thinks of himself as an Aeneas cast ashore and meeting unexpected friendliness. Adrastus does not miss the innuendo; he promises to restore the youths to their own kingdoms”. (F.M. AHL, Statius’ Thebaid: A Reconsideration, in

originario, ma da cui era stato espulso ancora prima del concepimento. Tebe per Polinice è lo spazio mai posseduto per intero, a differenza di quanto accadeva invece a Edipo, a cui, prima della rivelazione del delitto, la città veniva restituita almeno per un breve lasso di tempo. Il luogo natio, o il luogo originario della propria famiglia e della propria stirpe, è sentito dunque da Polinice come una forma imprescendibile dell’identità: rinunciare alle pretese al trono tebano significherebbe la rinuncia all’autoindentificazione culturale. L’esilio rappresenta, dunque, non solo negazione del potere, ma anche la negazione dello spazio fisico in cui l’identità trova la propria affermazione.

In tal modo diventa chiaro il senso anche dei discorsi di Polinice nel primo libro, in cui il personaggio viene interrogato da Adrasto relativamente alla sua origine (nec nos animi nec stirpis egentes - / ille refert contra, sed mens sibi conscia fati / cuntatur proferre patrem, vv. 465-467).298 Polinice tarda a

pronunciare il suo nome e interrompe più volte il discorso senza portarlo a termine: alla luce di quanto osservato, l’imbarazzo di Polinice (mens […] / cunctatur, vv. 466-467) e il lungo silenzio che precede al momento in cui egli decide di pronunciare il proprio nome (lunga silentia, v. 675) si potrebbe spiegare non solo come vergogna nei confronti della propria stirpe (evita di menzionare il nome di Edipo, mette l’accento sui nomi dei rappresentanti meno colpevoli della sua generazione, Cadmo - Cadmus origo patrum (v. 680) e Giocasta – est genetrix Iocasta mihi (v. 681)),299 ma anche come condizione

esistenziale di Polinice in quanto esule e quasi clandestino. Egli è ben consapevole che, secondo l’ideologia della società in cui vive, l’esilio è una sorta di maledizione, l’esule è figura maledetta, capace col solo contatto di

298 I. FRINGS, Gespräch und Handlung in der «Thebais» des Statius, Stuttgart, Teubner, 1991,

pp. 9-10; W.J. DOMINIK, Speech and Rhetoric in Statius’ Thebaid, Hildesheim-Zürich, Olms-

Weidmann, 1994, p. 262; D.E. HILL, Statius’ Thebaid: A Glimmer of Light in a Sea of Darkness, in

A.J. BOYLE, a cura di, The Imperial Muse: Ramus Essays on Roman Literature of the Empire:

Flavian Epicists to Claudian, Victoria, Aureal, 1990, pp. 98-118; rif. pp. 110-116.

299A differenza di Ipsipile e Tideo che identificano se stessi nominando il nome del padre:

magni de stripe creatum / Oeneos (I, 463-464); claro generata Thoante (V, 38). Cfr. a proposito di

questo passo l’analisi di N.W. BERNSTEIN, Ancestors, Status, and Self-presentation in Statius’

contaminare i membri della propria famiglia oppure di evocare con il suo stesso nome una terribile peste.

Le parole di Polinice potrebbero sembrare totalmente positive se non fosse per l’opposizione lacerante che attraversa il brano a livello semantico (corde resedit / tristitia, adflixique animo cessere dolores, II, 191-192; convulsa […] / puppis, vv. 193-194). All’interno della similitudine relativa alla nave che raggiunge la terra dopo aver rischiato il naufragio salta all’occhio l’espressione amicam / […] humum (vv. 194-195). La parola humum è usata nel senso dei litora del mare, terra solida, e, essendo accompagnata dall’aggettivo amicam acquisisce un valore semantico positivo, rafforzato dall’iperbato amicam / puppis humum.

Se si osservano, però, le attestazioni di humus nella Tebaide, risulta che il termine assume un significato opposto a quello che la riguarda nel discorso di Polinice. Nel libro VIII, ad esempio, Palemone racconta ad Adrasto come Amfiarao sia stato inghiottito da una voragine e definisce il campo di battaglia come “empia terra”: currus humus impia sorbet / armaque bellantesque viros (vv. 141-142). Nel libro XII (vv. 94-99), si trova il lamento di Creonte per i tutti caduti di guerra:

‘saevum agedum inmitemque vocent si funera Lernae tecum ardere veto; longos utinam addere sensus corporibus caeloque animas Ereboque nocentes pellere fas, ipsumque feras, ipsum unca volucrum ora sequi atque artus regum monstrare nefandos! ei mihi, quod positos humus alma diesque resolvet! [...]’

Creonte esprime un desiderio, alla realizzazione del quale non riesce a credere nemmeno lui stesso: utinam addere sensus / corporibus (vv. 95-96). Quindi, egli esclama: Ei mihi, quod positos humus alma diesque resolvet! (v. 99) L’humus possiede, in questo caso, una connotazione di violenza distruttiva. Il

significato tragico della parola viene rafforzato dal contrasto tra alma e resolvet.

Ancora nel libro XII, il termine humus è riferito al campo di battaglia su cui giace il corpo di Polinice. Menete, indicandolo ad Argia, lo chiama haec illa est crudelis humus (v. 250).

Possiamo affermare, dunque, che l’uso di humus di Theb., II, 194 ss. è caratterizzato dal procedimento dell’ironia tragica, per cui anche le parole risultino bivalenti nella misura in cui hanno un senso per Polinice che le pronuncia e un altro senso per il destinatario extratestuale.300 Si tratta cioè

del punto di vista parziale e inadeguato del personaggio (amicam humum) e del punto di vista onnisciente del destinatario dell’opera (crudelis humus), già informato sul mito. Il personaggio si inganna a proposito di una creduta semplicità della parola e del reale: tutto ciò che sembrerebbe portare a una soluzione lieta, conduce invece alla catastrofe luttuosa. Per riprendere le parole del saggio di Guido Paduano sul procedimento dell’ironia tragica:

[…] se veniamo alla forma espressiva e alla significazione puntuale dei passi ironico-tragici, constateremo che il rovesciamento viene effettuato all’interno di una problematica sempre e direttamente legata alla sfera del potere. 301

Proprio da questa ironia si sprigiona il pathos tragico che accompagna il personaggio fino al termine dell’opera. Soffermandoci ancora sul significato del passo, possiamo constatare il rovesciamento di una problematica sempre e direttamente connessa alla sfera del potere: Polinice, infatti, intende la

300 G. P

ADUANO (Sull’ironia tragica, in «Dioniso», 54, 1983, pp. 61-83; rif. p. 62): “Questo

strumento [l’ironia tragica], che certo è uno dei frutti più positivi della neo-retorica, è stato indubbiamente costituito per l’analisi del racconto, come mostra il suo articolarsi nel confronto bilaterale tra il narratore e personaggio. Si distingue così una focalizzazione zero, in cui il narratore è onnisciente, privilegiato rispetto alla conoscenza di ogni personaggio e alla somma di esse; una focalizzazione interna, in cui ottica del narratore coincide senza riserve con quella del personaggio; una focalizzazione esterna, in cui la conoscenza del narratore è data come inferiore a quella del personaggio, di cui si limita a registrare i comportamenti visibili”.

possibilità di ottenere la terra nel senso del regno, in realtà perderà per sempre questa medesima terra, nella misura in cui sarà essa stessa a seppellirlo. Attraverso esempi come questi, l’ambiguità si rivela come quel tratto fondamentale che contraddistingue tutti i registri narrativi della Tebaide. Il linguaggio di quest’opera si basa sull’apparenza falsa e sulla verità nascosta, presenta una sfida al lettore ponendolo di fronte ad una miriade di allusioni, doppi sensi, passaggi strani, ambigui o incoerenti, che possono essere interpretati in senso doppio e che costituiscono quindi degli ‘inciampi’ testuali. La comunicazione tra i personaggi principali si svolge a livello metalingustico: essi sono circondati da messaggi oracolari, profezie, sogni premonitori, frammenti del passato rimosso. La figura dell’ironia tragica rappresenta, secondo Paduano, l’estremo della rappresentabilità metaforica,302 segna il triste destino di quei personaggi che stanno per

sperimentare l’abisso doloroso pronto a spalancarsi sotto i loro piedi.303

302 Ivi, p. 81.

303 Anche i personaggi minori vengono caratterizzati da un linguaggio non meno

amfibologico: uno di questi è il giovane Partenopeo. I vv. 260-264 del IV libro concludono il catalogo degli eroi con una descrizione del giovane arcade, affrontando il suo atteggiamento nei confronti della guerra: prosilit audaci Martis percussus amore, / arma, tubas audire calens et

pulvere belli / flaventem sordere comam captoque referri / hostis equo: taedet nemorum, titulumque nocentem / sanguinis humani pudor est nescire sagittas. È reso subito noto come per Partenopeo

l’idea di guerra si riassuma in tre immagini: udire le trombe militari, sporcarsi liberamente i capelli e impadronirsi del cavallo di un nemico. Il giovane percepisce la guerra come un gioco affascinante, a cui vuole assolutamente partecipare per provare nuove esperienze e sottrarsi alla tutela della madre. L’idea di sporcarsi i capelli nella polvere può essere concepita solamente dal punto di vista dell’eroe inesperto e dietro il richiamo della pulvis

belli si cela infatti un’amara ironia tragica: Partenopeo non sa che nell’epica con la polvere

non si gioca, nella polvere si muore. L’espressione, di provenienza omerica (Hom., Il., III, 54- 55), è utilizzata spesso anche nell’epica virgiliana per denotare contesti luttuosi e tragici. L’idea dei “bei capelli infangati dalla polvere” si trova impiegata nel libro XII dell’Eneide, nel momento in cui Turno chiede alla sua lancia di abbattere Enea, ed è rappresentato come un effeminato frigio (Verg., Aen., XII, 95-100, cfr. sopr. semiviri Phrygis et fundare in pulvere crinis, v. 99). Non a caso lo spettro di Ettore appare in sogno a Enea tutto sporco di polvere (Verg.,

Aen., II, 270-273, cfr. in part. pulvere serque pedes traiectus lora tumentis, v. 273). Le ricorrenze

di pulvis nella Tebaide mostrano una stretta connessione con i concetti del lutto e della morte del guerriero in battaglia: in segno di lutto, Licurgo che ha perso il figlio, si cosparge di polvere la barba (VI, 30-32). Sono coperti dalla polvere i capelli di Tideo dopo la strage dei cinquanta guerrieri tebani (III, 324-327) e Tideo stesso trova la sua morte nel polveroso campo di battaglia (XII, 40-41). Nei campi polverosi Ida va a cercare i suoi figli morti per mano di Tideo (III, 133-134). A questo punto la polvere sui capelli di Partenopeo si accosta all’amicam humum a cui accenna Polinice nella risposta ad Adrasto (II, 189-97). Sia pulvis che

humus vengono dunque usati nel significato metaforico del campo di battaglia in cui

Lo stesso oggetto del paragone, cioè il nocchiero della nave, in riferimento a Polinice, ci consente di confrontare gli stati d’animo di quest’ultimo in due momenti diversi della sua esistenza. La descrizione della nave nel momento in cui sta per raggiungere la riva dopo aver evitato il pericolo (Noto prospectet amicam / puppis humum, vv. 196-197) lascia presupporre che a questo punto della narrazione Polinice abbia dimenticato il regno perduto e che quindi l’immagine di Eteocle abbia smesso di perseguitarlo. Tuttavia l’analisi del passo effettuata in precedenza ha rilevato la presenza di una parte scissa di cui Polinice non è consapevole: il personaggio, malgrado gli onori ricevuti ad Argo, è continuamente tormentato dal pensiero di Tebe e preoccupato per il suo status di esule (exulibus quamquam patriaque fugatis, v. 190). Il motivo del viaggio per mare diventa simbolo dello spazio che divide il personaggio da Tebe, la quale viene inconsciamente considerata come simbolo d’identità. Rinunciare in tal modo alle pretese al trono tebano significherebbe rinunciare al proprio io.

Da tutto ciò si potrebbe desumere che l’immagine del fratello-doppio diventa ancora più ossessiva quando l’eroe viene attirato dalla possibilità di amare e di entrare in contatto con una realtà diversa da sé (in questo caso è il matrimonio e la possibilità di cambiare il suo statuto di esule per una vita tranquilla e felice). Si sviluppano dunque due processi paralleli: a mano a mano che si fa più stretto il rapporto d’amore tra Polinice e Argia (in termini narrativi, lo spazio del protagonista si interseca in tal modo con lo spazio degli altri personaggi), il doppio aumenta la sua pressione persecutoria che disturba la relazione di Polinice con la giovane sposa sino a determinare la rottura causata dalla morte di Polinice. Tutto ciò non sfugge dall’occhio attento dell’innamorata sposa dell’eroe (II, 336-347):

sentio, pervigiles acuunt suspiria questus, numquam in pace sopor. quotiens haec ora natare

l’impiego dell’ironia tragica. Ringrazio per il suggerimento di questo caso dell’ironia tragica Enrico Tomasin che ha messo a mia disposizione la sua tesi sul personaggio di Partenopeo.

fletibus et magnas latrantia pectora curas admota deprendo manu! […]

tua me, properabo fateri, angit, amate, salus. tune incomitatus, inermis regna petes? poterisque tuis decedere Thebis, si neget? atque illum sollers deprendere semper Fama duces tumidum narrat raptoque superbum difficilemque tibi: necdum consumpserat annum.

Nell’ottica dell’importanza della tematica nautica nella costruzione dei caratteri dei personaggi, non sembra affatto casuale la metafora impiegata da Argia riguardo al viso di Polinice che di notte per la collera e la preoccupazione sta letteralmente nuotando nelle lacrime: quotiens haec ora natare / fletibus et magnas latrantia pectora curas admota deprendo manu (vv. 337- 338). A questo punto merita di essere presa in considerazione anche la similitudine precedente al dialogo che conclude la descrizione dello stato psichico di Polinice dopo il recente matrimonio (II, 323-330):

veluti dux taurus amata

valle carens, pulsum solito quem gramine victor iussit ab erepta longe mugire iuvenca,

cum profugo placuere tori cervixque recepto

sanguine magna redit fractaeque in pectora quercus, bella cupit pastusque et capta armenta reposcit iam pede, iam cornu melior (pavet ipse reversum victor, et attoniti vix agnovere magistri).

Il paragone del protagonista con il toro sconfitto che ritorna per vincere instaura una fitta rete di corrispondenze tra comparatum e comparandum: Polinice sua quaerere regna (v. 308) come il toro capta armenta reposcit (v. 328): l’eroe è privatus (v. 310) proprio come il toro è valle carens (v. 324); infine Polinice è exul (v. 317) e profugus (v. 326) così come l’animale è profugus,

mentre Eteocle è victor (v. 330) come il toro rivale. Tutti gli elementi della narrazione principale sono riflessi dunque nella similitudine in modo da riprodurre la dinamica interiore del personaggio in azione. Mentre la prima parte della similitudine corrisponde perfettamente alla reale situazione di Polinice, la seconda parte è presentata come l’intenzione del personaggio che pensa alla riconquista del trono. Contrariamente al suo modello letterario,304

Stazio si astiene dal comunicare quale esito ha avuto l’attacco del toro contro il suo antico vincitore ed espande, invece, la fase della preparazione e dell’attesa del nuovo combattimento, conferendo in tal modo maggior rilievo alle aspettative riguardo al nuovo scontro.

Tornando alla similitudine che paragona il protagonista alla nave che raggiunge il porto sicuro e collegandola a quella del toro che si prepara alla rivincita, si potrebbe affermare che essa ha la funzione di dimostrare come nella zona di contatto con i personaggi minori, in Polinice trionfa il desiderio