La laude, costruita in forma di canzone in settenari ed endecasillabi, è occupata da un lamento del poeta-peccatore che, piangendo la sua condizione, supplica Gesù per essere liberato dalle tentazioni mondane e conquistare così la salvezza eterna. Il tema viene in questo caso declinato in una canzone di sei stanze in endecasillabi e settenari. Ritornano metafore consueta della poesia benivieniana e già osservate nei testi precedenti, come l’immagine, petrarchesca, dei «lacci» della tentazione da sciogliere (come ad esempio i vv. 50-53: «piacciati, o Iesù, sciorre/ quelli insolubil nodi/ che l’anima in mille modi/ legano…») o quella delle «piume» del v. 14, immagine d’ascendenza biblica per la quale è importante anche in quest’occasione un passo del Commento.
Diversi sono i rapporti con i testi della laudistica quattrocentesca e non solo (Belcari, Iustinian, anche Iacopone). Si presenta qui, per la prima volta tra le laudi, il sintagma cieco carcer d’origine dantesca (dal decimo dell’Inferno, come indicato in nota), usato in diverse occasioni dal Benivieni, probabilmente con la mediazione di Petrarca, anche come metafora del corpo umano, prigione dell’anima.
Emergono dai versi della canzone diversi elementi tratti dai testi biblici, soprattutto dai Vangeli (sin dall’inizio, con una immediata citazione da Giovanni) e dalle lettere di san Paolo.
125 SCHEMA METRICO: canzone di sei stanze da nove versi ciascuna, in settenari e endecasillabi, con schema rimico ababbccdD. Rima equivoca morte:morte tra i vv. 38 e 41.
Poi che l’anima mia201 da te, Iesù, partita fu, perché tu sol via
sè, verità e vita,
sempre stata è smarrita, 5
sempre senza alcun senso, et così sarà, penso,
finché dal suo errore
volta non torna ad Te, dolce Signore.
E ci vorre’ ben tornare 10
a Te, suo vivo lume, ma non glie’ lascia fare el mal preso costume. Vestali quelle piume
o Iesu mio, quelle ale, 15
quelle sol con le quale possa hor da questo cieco
carcer lieta venirsi albergar teco. Ella è pur, Signor, quella
201vv. 1-6: cfr. Commento III, 50, vv. 27-29: «È questa, Amor, quella una/ via, verità et vita/ per cui chi el
suo ben vuol forza è che ascenda/ fuor del cui corso alcuna/ via più l’alma smarrita/ non ha che al vero suo fin la inclini et renda?» nella glossa al passo il Benivieni riporta, come base teologica della sua affermazione, un passo evangelico: «Imperocché questa è sola quella porta, della quale è scripto: Qui non
intrat per ostium [in ovile ovium], sed ascendit aliunde, ille fur est et latro [Ioh.10,1]» [c.136r]. vv. 3-4
perché tu sol via/ se’, verità e vita: citazione evangelica (Iov. 14, 5: «Ego sum via, et veritas, et vita»),
particolarmente presente nella tradizione laudistica (per es. Feo Belcari, Chi non cerca Gesù, vv. 1-4: «Chi non cercherà Gesù con mente pia/ è dell’alma accecato/ perch’egli è vita, verità e via/ d’ogni perfetto stato») e già presente, come abbiam visto, nella poesia di Benivieni. vv. 8-9: «Fino a quando, non allontanandosi [volta] dal suo errore, la mia anima non ritorni verso di te, dolce suo Signore». vv. 10-13: per i richiami rimici lume:costume:piume si avverte in questo passo qualche reminescenza petrarchesca (Rvf VII, vv.1-6: «La gola e ’l somno et l’otïose piume/ ànno del mondo ogni vertù sbandita/ ond’è dal corso suo quasi smarrita/ nostra natura vinta dal costume/ et è sì spento ogni benigno lume/ del ciel…») e pure un possibile influsso belcariano (cfr. Gesu, dolcezza mia, vv. 5-7: «I’ veggio nella mente un vero lume/ ch’è pien di vertù/ il qual mi mostra il mio pravo costume»). vv. 14-18: «fa’ indossare alla mia anima quelle ali, o dolce Gesù, le uniche per le quali essa possa abbandonando la prigionia della sua anima venire a star insieme a te». vv. 14-15 quelle piume, quelle ale…: cfr. Commento II, 14, vv. 4-48: «…quelle ale/ quelle sole, con le quale/ l’alma sempre al suo ben sospesa ascende;/ l’alma, che bene intende/ che qual per se al ciel volare presume/ et d’amorose piume/ non veste l’ale sue, cade vilmente». L’immagine si trova già qui in laude I, vv. 13-14. vv. 16-18: cfr. Commento III, 90-94: « onde Amor quelle ale/ ne diè al cor, con le quale/ Signor drieto al suo ben sospesa hor vola,/per cui dal tristo e cieco/carcer/ lieto sen venga albergar teco.» cieco carcer: sintagma d’origine dantesca (Inf. X, vv. 58-60: «se in questo cieco/ carcer vai per altezza d’ingegno/ mio figlio ov’è? e perché non è teco?») per indicare gli Inferi, è diffusamente usato nella lirica benivieniana (e quasi sempre in enjambement, come nella fonte e nei brani qui citati) come metafora della prigionia del corpo carnale. v. 20 che tu per te creasti: che creasti a tua immagine e somiglianza
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che Tu per Te creasti, 20
tanto, o Signor mio, bella che te ne innamorasti et che già tanto amasti, che ’l tuo proprio figliuolo
desti per lei: o solo, 25
solo Amor vivo et vero,
dimmi, qual maraviglia è, se ’n Te spero?
Egli è pur, Signor mio, ver che tu m’hai più amato
che tuo figliuol, ma io 30
come superbo e ’ngrato
t’ho sol col mio peccato, col core et con la voce
posto, o Iesù mio, in croce,
et pongoti qualhora 35
miser t’offendo, ché ti offendo ogn’hora. Tu, Signor mio, morendo
per me vincta hai la morte et io per te vivendo
con l’opere mie torte 40
le già recluse et morte piaghe rinfresco e ’l sangue che del primo antiquo angue
spense in croce el veneno che morto vive anchor dentro al mio seno. 45 Et perché tu sol puoi,
Signore, a quel fren porre
et fare anchor lo vuoi, però ad Te el cor recorre,
piacciati, o Iesù, sciorre 50
quelli insolubil nodi che l’alma in mille modi202 legano, acciò che scossa
da quei nuda ad Te nudo in croce ir possa.
202v. 54: la partecipazione dell’anima peccatrice al sacrificio di Cristo come via per la salvezza è un motivo
savonaroliano: cfr. Trattato dell’Amore di Gesù Cristo, p. 111: «Chi mi concederà che io sia teco crucifisso? Chi mi farà questa grazia che io sia teco nella croce confitto?» nuda: libera dal corpo. Cfr. Commento III 1, vv. 12-14: «… che da tuoi lacci scinto/ lasciando in terra la più fragil parte/ nudo mi torno ad riveder le stelle.»
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