Chi dunque fia, chi mai fia che a questi occhi miseri e ’nfermi subministri el pianto, onde poi tante lachrime trabocchi el cor, che lavi questo corpo sancto.
Deh, dolce Signor mio, perché hor non tocchi la mente di color che amato hai tanto,
che per lor morir vuoi, sì che solo ami Te, seguiti, disii, cerchi, arda et brama.
242I. v. 1 O voi che…: Benivieni ricalca Lam. 1,12: «O vos omnes qui transitis per viam, attendite, et videte
si est dolor sicut dolor meus! Quoniam vindemiavit me, ut locutus est Dominus, in die irae furoris sui». Il testo biblico è stato anche sostrato di Vita Nova VII, vv. 1-3: «O voi che per la via d’Amor passate». Il tono di questo verso proemiale inoltre richiama l’attacco di certi componimenti di Castellani (come per esempio «O voi, che siate in questa valle oscura»). Per la «via d’Amor», cfr. Iacopone, O anema mia,
creata gentile, vv. 64-66: «Or non tardare la via tua êll’amore/ se i dai ’l to core, dàtesse en patto/ el
suo entrasatto ‘n to redetato».
II. vv. 6-8: cfr. Trattato dell’Amore di Gesù Cristo, p. 112: «Tu vedi il tuo sposo in tante passioni per tuo
amore posto; tu lo vedi tutto impiagato e lacerato e fatto come un lebbroso, di sangue bagnato da capo a piedi, e non bagni il viso di qualche lachrymetta. Tu non sospiri; tu non muovi a pietade; tu non rompi il tuo cuore ferreo; tu non ti riscaldi d’amore; tu non ami dolcemente il Redentore; tu non lasci li peccati». Cfr. anche laude XV, vv. 11-12: «Tu sol tanti lamenti,/ Cor mio, non senti e ’l suo duol non t’offende».
v. 6 superbo et ingrato: la dittologia anche in laude IV, vv. 30-34: «…ma io/ come superb’et ingrato/ t’ho
sol col mio peccato,/ col core et con la voce/ posto, o Iesù mio, in croce».
III. vv. 1-2 che a questi occhi… el pianto: cfr. Trattato dell’Amore di Gesù Cristo, p. 126: «Consolati
dunque, umana generazione, e prendi gaudio con lacrime dolce senza fine. Consolatevi, iusti e santi, perché oggi appropinquate alla palma e al dolce e gran trionfo. Consolatevi, peccatori, e di lacrime amorose bagnate el viso, perché siete invitati alla venia».
182 IV
Come ti veggo, dolce Signor mio, come ti veggo, afflicto et lacerato, come ti veggo, dolce Iesù pio,243 pendere in croce nudo et vulnerato, come veggo io hor te, che sè mio Dio, che sè pur quel Signor che m’hai creato, che m’hai col proprio tuo sangue redempto, come ti veggo pien d’ogni tormento.
V
Non è questo colui che ’l tutto muove, che l’Universo penetra et misura?
Non è questo quel fonte onde ogn’hor piove la vita et l’esser d’ogni creatura?
Non è questo quel primo mio Ben. dove gli angeli, l’huomo, e Cieli et la Natura, l’Aria, el Foco, la Terra et ogni cosa,
che in loro come in suo fin s’inclina et posa? VI
Non è questa, cor mio, quella suprema, quella immensa virtù, quel sommo Bene che l’abysso, che ’l ciel, che ’l mondo trema? Come hor, lasso, lo veggo, e ’n quante pene! Qual maraviglia è, cor, che l’alma tema pensando alla persona che sostiene tanti mali, et per chi? Dimelo, o core se tu ’l sai, che ’l fai pure pe ’l tuo errore. VII
S’egli è el vero Signor mio, come egli è el vero, che tu patisca solo pe ’l mio defecto,
et che da l’impie man del crudo et fero tyranno m’hai con la tua morte erepto, tuo è el mio core et ogni suo pensiero, la mente, l’alma, el corpo et l’intellecto, et tutto quel, Signor, ch’io posso et sono
243IV. vv. 1-4: cfr. laude XV, vv. 1-2: «Veggo Iesù, ’l mio Dio, che in croce pende/ Morto pel mio peccato/
e’l cor mio ingrato nol conosce o intende»
V. vv. 3-4 quel fonte…d’ogni creatura: cfr. Apocalisse 21, 6: «Et dixit mihi: Factum est. Ego sum alpha
et omega, initium et finis. Ego sitienti dabo de fonte aquae vitae, gratis». vv. 5-8: «Non è questo forse questo mio unico Bene, nel quale posa ogni cosa creata (gli angeli, gli uomini, il cielo e la natura, il fuoco, l’aria, la terra e ogni altra cosa)». L’ottava richiama diversi passi del Commento sopra a una canzone
d’Amore di Pico.
VI. vv. 1-3: cfr. Siracide 16, 18-19: «18Ecce caelum et caeli caelorum, abyssus, et universa terra, et quae in eis sunt, in conspectu illius commovebuntur. 19Montes simul, et colles, et fundamenta terrae, cum conspexerit illa Deus, tremore concutientur»
VII. v. 1 S’egli è…: cfr. laude VII, v. 5 e nota. vv. 3-4 crudo et fero tyranno: cfr. Commento III 50, vv. 40-
45: «è questo el primo et vero/ splendor della tua gloria/ e del suo ben, Signor, forma et figura? per cui dall’impio et fero/ Tyranno ampla victoria/ reca»
183 et come tuo te lo largisco et dono.
VIII244
Fa’ dunque, Signor mio, quel che a Te piace di me, purchè d’un tanto benefitio
io non sia ingrato et come contumace e ’ndegno d’un tal dono, a quel supplitio mi renda, donde per posarmi in pace de’ primi padri el male concepto vitio nel sangue tuo che sol far lo potevi spento, con la tua morte al cielo mi levi. IX
Lievimi al ciel, ma perché sotto el peso di questa carne relegato sono,
che poss’io per me fare, quantunche acceso a seguir Te, Signore, se per tuo dono da questo ingrato carcere sospeso
non surge el core, ch’hor per me indarno sprono? Indarno, Signor mio, se la tua luce
non li scorge la via che ad Te el conduce. X
Apri el tuo fonte, o Iesù dolce, et piovi, piovi quella pietà sopra a noi, quella, quella, o dolce Iesù, che in Te rinnuovi, rinnuovi l’alma et faccila più bella più bella al sol de’ tuo increati et nuovi nuovi razi, Signore, ond’ogni stella ogni stella ch’in Cielo e ’n Terra splende splende per Te, da cui sua luce prende.
244VIII vv. 1-8: «Signore, fai di me quello che più ti aggrada, purché io però non risulti indegno e
disubbidiente di un tale dono, e che sia meritevole del sacrificio (infatti per portarmi in pace soltanto tu potevi spegnere, lavandola col tuo sangue, la colpa del peccato originale), ed elevami con la tua morte al cielo».
X. v. 1 Apri el fonte…: cfr. Commento III, 35 vv. 33-35: «Apri el tuo fonte e piovi/ Iesù benigno, hor
quella/ gratia…» e laude VIII, vv. 80-84: «…ogn’altra cosa è vana/ fuor di Te, viva fontana/ onde in Te l’acqua trabocca». vv. 6-8: cfr. Commento III 50, vv. 19-21: «È questo el Sol che splende/ tanto, c’ogni altro lume/ sua luce indarno muove?».
184
III. LE STANZE
I Adomintione de lo Huomo ad la anima per la quale demonstra come lei
possa per el mezo delle creature conoscere e consequentemente amare el suo Creatore, Che cerchi anima, che vuoi, che chiedi?
L’Admonitione è una serie di trenta ottave costruite ancora una volta secondo lo schema di un dialogo interiore sul tema della conoscenza di Dio attraverso la contemplazione del Creato.
Nell’epistola dedicatoria al Gondi, pubblicata anche nella stampa in introduzione all’operetta, il Benivieni indicava gli enunciati principali poi illustrati nei versi delle sue stanze:
Volendo lo Omnipotente Dio, dilectissimo mio Bernardo, per la exultantia del suo Amore manifestare sé medesimo et la infinita sua bonità, creò questo universo per el quale Lui, che vedere non si poteva, si monstrò sotto el velo delle sue creature a’ gli occhi nostri: et così quello che di sua natura è invisibile per quello che da lui fu facto visibile s’è potuto in qualche modo vedere, conoscere et fruire. Tre sono le cose invisibile in Dio: la Potentia, la Sapientia, la Benignità, e come da queste tre cose procedono tutte le creature, così in queste tre si conservano, et queste tre sono recte et governate. La Potentia crea, la Sapientia governa, la Benignità conserva, le quali tre cose come in Dio per un modo ineffabile sono una così non si possono nelle loro operationi in alcun modo l’una dall’altra separare. La Potenzia appare per la immensità et grandeza de le cose create; la Sapientia per l’utile et per la belleza; la Benignità per lo utile con modo et necessità di quelle.
Le radici filosofiche del testo affondano nel medesimo terreno cui erano radicate le basi della prima parte del Commento, ovvero nella riflessione teologica di Bonaventura da Bagnoregio condita dalla preziosa lettura delle opere di Pico della Mirandola, in particolare dei primi libri del Commento sopra a una canzone d’Amore e dall’Oratio de hominis dignitate.
Nell’Admonitione lo scambio tra l’Uomo e l’anima dura solo per le prime cinque ottave, nelle quali la seconda, distratta dalla vanità dei peccati terreni, s’interroga sulla possibilità di poter cogliere la presenza di Dio nel mondo, per poter trovare il modo d’incentivare il suo percorso di fede (ott. V: «S’io pur vedessi almen qualche scintilla,/ in me, in questo o in quel creato obiecto/ de la sua bonità, qualche favilla/ del suo Amor drento al mio
185 infelice pecto,/ l’avida mente mia, lieta et tranquilla,/ riconoscendo el suo amoroso affecto,/ subito absorta per virtù di Amore/ s’unire’ tutta al suo Sposo et Signore»). Nel discorso successivo, ribadendo la presenza di Dio nel mondo sensibile (ott. VIII, vv. 1-4: «S’ egli è el ver, Signor mio, com’ egli è certo/ ch’ in ciò ch’io veggo, ch’io palpo et discerno/ si absconda un’ombra, anzi un vivace et certo/ raggio, una immagin del tuo Verbo eterno») viene innalzata una lode di tutto il creato, esaminato in tutte le sue componenti, dai Cieli alle creature terrestre sino all’Uomo, descritto con toni e argomenti che rimandano all’antropocentrismo pichiano: (ott. XXVII, vv. 1-4: «Tu facesti, Signor, l’huom per Te solo/ et per lui ciascun’altra creatura. / Tu volesti che a lui come a figliuolo/ serviss’ el Ciel, la Terra et la Natura»).
Il fulcro filosofico dell’operetta è una breve eppure intricata descrizione della teoria di conoscenza di Dio (ott. XX-XXII), compendio del pensiero bonaventuriano. Immancabile, come in molti testi benivieniani, il ricordo del sacrificio di Cristo, (ott. XVIII-XIX) esempio estremo dell’amore di Dio per l’umanità e punto di partenza per la redenzione di ognuno.
In quest’ottica l’Admonitione. lungi dall’essere vincolata nei canoni di un’operetta meramente didascalica, si carica di una precisa componente edificante, comune a tutta la poesia religiosa benivieniana, che ne diventa quella cruciale e determinante. L’ottava conclusiva («Che scusa hor dunque harai più, alma ingrata…») certifica l’assenza di ogni tipo di giustificazione per il peccatore, lasciandogli la libera possibilità di un limpido e corretto percorso di vita e Fede.
186 HIERONYMO BENIVIENI A BERNARDO GONDI. SALUTE.
Volendo lo Omnipotente Dio, dilectissimo mio Bernardo, per la exultantia del suo Amore manifestare sé medesimo et la infinita sua bonità, creò questo universo per el quale Lui, che vedere non si poteva, si monstrò sotto el velo delle sue creature a’ gli occhi nostri: et così quello che di sua natura è invisibile per quello che da lui fu facto visibile s’è potuto in qualche modo vedere, conoscere et fruire. Tre sono le cose invisibile in Dio: la Potentia, la Sapientia, la Benignità, e come da queste tre cose procedono tutte le creature, così in queste tre si conservano, et queste tre sono recte et governate. La Potentia crea, la Sapientia governa, la Benignità conserva, le quali tre cose come in Dio per un modo ineffabile sono una così non si possono nelle loro operationi in alcun modo l’una dall’altra separare. La Potenzia appare per la immensità et grandeza de le cose create; la Sapientia per l’utile et per la belleza; la Benignità per lo utile con modo et necessità di quelle. De le quali parlando noi non sono molti giorni insieme mi pregasti, come tu sai, che io fussi contento di redurre, quando mio commodo fare lo potessi, qualche parte di tali ragionamenti in versi, credo forse per accompagnare la utilità delle cose ragionate con la suavità et dolceza di quelli, cioè de epsi miei versi: se dolceza però et suavità può nascere in loro da la mia roza et inculta penna, la quale cosa anchora che a me per molti rispecti, ma precipue per la qualità et grandeza de la materia paressi sopra le mie forze et molta aliena da lo instituto de la mia presente professione, non mi sono però saputo per tale modo defendere dagli stimoli de’ tuoi desiderii, e quali io reputo miei debiti, che non habbi tentato di mettere la altrimenti debile et male corredata mia navicella, in tanto pelago con proposito non dico però di entrare molto adrento, et dove io combattuto della grandeza de le sue onde potessi essere in qualche modo sommerso, perché egl’è scripto: Qui scrutator est maiestatis opprimetur a gloria,245 ma per andare così lungo la riva raccogliendo qualche reliquia di quelle che questo mare suole alle sue prode condurre. Ricevi adunque, dilectissimo mio Bernardo, quelle poche benché per loro pretiose gemme, che io in questo mio breve et accelerato pileggio ho potuto in tanto pelago raccorre, ricevile dico senza havere rispecto della viltà et rozeza del vaso in el quale io te le presento, cioè a quelli miei quasi come per modo di improviso poco accuratamente pronunciati versi, et priega Dio che ci conceda che noi, mossi da la virtù del suo Sancto Spirito et portati dal vento suavissimo de la sua divina gratia possiamo per questo mare procelloso del mondo navigando ultimamente ad quello felicissimo porto condurci ove sono e thesori infiniti el el fonte indeficiente et perpetuo di queste et di tutte le altre sue riccheze visibile et invisibile, cioè ad quella Hierusalem celeste, in qua Rex Regum stellato sedet solio. Per Christum Dominum nostrum.
187 SCHEMA METRICO: serie di ottave.
Parla Lo Huomo
I
«Che cerchi anima mia, che vuoi, che chiedi?»246 «Dopo tanti sudor, pace et riposo».
«Pace non harai mai, se in Dio non credi, se in Lui non speri et se da questo odioso carcer del mondo, ov’hora in pianto siedi, sciolta non torni al tuo celeste sposo. Al tuo sposo, in cui solo è quella pace
che non può dare el mondo impio et fallace». II
«Gran cosa è creder quel ch’altri non vede, et maggiore amar quello onde alcun segno d’Amor verso l’amante non procede, ché del suo Amor l’amato facci degno. Et gran cosa è sperar, dov’ogni fede manca, che quel che io cerco et disegno possa, secondo el mio primo desire, al tempo in Terra et sempre in cielo fruire. III
Et però, se ben vincta dal disio
io penso et voglio amare el mio Signore, et creder et sperare in Lui, mio Dio, come el può fare el mio infelice core s’io nol conosco in qualche modo o s’io non ho alcun segno in me del suo Amore? Perché, se vero è quel che si ragiona,
246I. vv. 1-6: Il tono petrarchesco di quest’interrogazione iniziale è anche in Commento II 25, vv. 1-4:
«Che cerchi, alma, che vuoi, che chiedi? Pace?/ Pace non harai mai, se mentre in Terra/militi in pianto el cor tuo sempre in guerra/ non sia con quel che hor gli dilecta et piace». vv. 7-8: cfr. laude XVI, vv. 5-8: «Deh, Signor, se ti piace/ donami quella pace/ che ’l mondo impio et fallace/ non ha né può aver seco». II. vv. 1-8: «È un’ottima cosa riuscire a credere a quello che gli altri non vedono, ed è cosa ancora migliore amare ciò di cui non scende alcun segno dall’Amore verso l’amante, in modo che così renda il suo amato degno del suo Amore, e grande bene è sperare, anche quando ogni prova manca, di poter fruire di quel che io cerco e immagino sia in cielo che in Terra».
III. vv. 7-8: La citazione di Inf. V, v. 103, che chiude l’ottava, non è nuova nell’opera benivieniana. Il verso comprare anche in Commento III 21, vv. 1-4: «Io non posso udir più chi non ragiona/ né legger chi del mio Signore/ scripto non ha: così m’ha concio Amore/ Amor, che nullo amato amar perdona», così esplicato nella glossa: «Non perdona Amore amare de lo Amato, et cioè vuole et è così nella sua legge divina et naturale fixa et stabilita che colui el quale è amato d’uno puro et sincero Amore ami parimente per reciproca di lezione lo Amante: conciosia che nessuna più debita et grata retributione si possa dare ad Amore che Amore: et però havendo Dio amato, in tanto la humana generatione che per la sua salute di quella dette il suo unigenito figliuolo nessun altro maggiore più a llui deibito et grato sono gli possiam dare che Amore» (f. 94r) Il verso
188 Amore a nullo amato amar perdona.247
IV
S’io pur vedessi almen qualche scintilla in me, in questo o in quel creato obiecto de la sua bonità, qualche favilla
del suo Amor drento al mio infelice pecto, l’avida mente mia, lieta et tranquilla, riconoscendo el suo amoroso affecto, subito absorta per virtù di Amore s’unire’ tutta al suo Sposo et Signore. V
Ma perché l’occhio mio, debile e ’nfermo, in tante et tante tenebre non vede
el lume di quel Sole ovunch’io el fermo, ivi si posa, si quieta et siede.
Et così, fuor di Lui, dentro a questo ermo del mondo, senza Amore et senza Fede, senza Speranza et senza luce alcuna, mi resto tutta in man de la Fortuna». VI
«Qual maraviglia è, ingrata anima mia, se mentre in tante tenebre el cor siede quel primo et vero Sol, che ognun disia, o l’ombra almen del suo splendor non vede? Maraviglia, et non piccola, sarìa
sopra ogni ingegno human, sopra ogni fede, che l’ombra insieme in un subietto el Sole fussin che la Natura e ’l ciel non vuole.
247dantesco è citato poi un’altra volta nel prosimetro, in una glossa a Commento III 45 (ff. 128r-v).
IV. vv. 1-8: Nel Creato è nascosta un’impronta di Dio, che è necessario conoscere per poter iniziare il proprio percorso ascetico verso Dio. Questa visione della realtà, frutto di un’unione tra il pensiero bonvaenturiano e la dottrina neoplatonica, era alla base della prima parte del Commento del 1500. Come unico esempio, cfr. Commento I 3, «Quando, perché veder l’alma smarrita/ in tanto exilio el suo sposo dilecto/non può, contempla in questo et in quello obiecto/l’ombra talhor di sua beltà infinita» e la glossa: «Imperocché essendo tutto questo universo quasi come una scala ordinatissima, per la quale possa l’anima nostra a Dio contemplando salire, et essendo in quello alcune cose corporee et come una ombra et uno vestigio di Dio alchune spirituale, et come una imagine di quello, alcune temporale, alcune eterne, et però questo alcune in noi, alcune fuori di noi, dico che volendo l’anima nostra a epso Dio primo et spiritualissimo principio d’ogni cosa creata ordinatamente per quelle elevarsi gli è necessario passare per e vestigii corporei et temporali fuori di sé». (f. 10v)
V. vv. 7-8: cfr. Commento II 9, vv. 5-6: «Fortuna el preme et di sue fraude armato/ lusinga el mondo l’anima smarrita» e la glossa: «Fortuna, cioè epsa instabilità, vana et incerta conditione delle cose del