CAPITOLO 2- Revisione della letteratura scientifica
2.3 Le figure professionali coinvolte nell’intervento con i MNA
L’attenzione pedagogica appare essenziale rispetto al tema delle figure professionali coinvolte in modo diretto nell’accoglienza dei Minori Non Accompagnati.
L’intervento rispetto alle procedure burocratiche per il riconoscimento dello status, l’inserimento in un percorso di formazione, e successivamente di ricerca e avvio al lavoro, il supporto nell’accesso al diritto alla salute, la preparazione alla maggiore età (in termini burocratici e operativi) richiedono di essere affiancati ad obiettivi a carattere pedagogico che riguardano lo sviluppo della conoscenza del sé, l’acquisizione di strumenti di riflessività, la capacità di progettare il futuro (Bertozzi, 2018; Traverso, 2018), che sono possibili solo attraverso la costruzione di una relazione educativa. Come sottolinea Biagioli (2015), infatti, il compito professionale degli operatori dei centri di accoglienza è quello di svolgere un importante ruolo a sostegno di un rapporto intersoggettivo capace di arricchire la relazione tra due persone. Dal momento che i Minori Non Accompagnati devono contare sull’ambiente sostitutivo dei centri di accoglienza e sugli operatori per costruirsi una nuova vita (Montgomery, Roy, 2003), uno dei principali ruoli degli operatori è quello di far emergere aree di forza e di aiutare i minori a trarre da essa il potenziale che possiedono, su cui possono far leva per costruire un progetto di vita.
Nonostante tali presupposti, appaiono alcuni elementi critici che sembrano limitare la caratterizzazione in termini educativi degli interventi. Da un lato infatti Surian e colleghi (2018) osservano come la maggior attenzione di minori e operatori riguardi il mondo del lavoro. Tale modalità di approccio appare da un lato legata al poco tempo a disposizione, e alle condizioni lavorative precarie degli stessi operatori (come sottolineato da Di Masi e Defrancisci), dall’altro dalla ‘rincorsa’ al diciottesimo anno di età, momento che sancisce la necessità per il minore di essere autonomo ed indipendente. In questo senso appare utile una consapevolezza dei modi in cui interagiscono la dimensione lavorativa, abitativa, della formazione, dello status legale che non sia limitata alle fasi immediatamente precedenti il compimento dei diciotto anni. Ancora, persistono o si esacerbano condizioni macro (con riferimento specifico ad alcuni Paesi del nord Europa) che limitano l’intervento possibile/dovuto nei confronti dei MNA alla mera richiesta del rispetto delle regole e alla sorveglianza (Campart Cano, 2017; Biffi, Edling, Francia, 2018).
Infine, i vissuti complessi e le condizioni spesso traumatiche dei minori (Unar, Idos, 2016), così come la molteplicità dei bisogni da loro espressi, richiedono una formazione specifica, spesso ancora mancante agli operatori di questo settore.
Il frequente ricambio del personale, le pressioni del sistema dei servizi e, in parte, i disinvestimenti da parte dei sistemi di welfare, la complessità delle istanze di cui si fanno portatori i MNA, rendono difficile la costruzione di setting educativi e relazionali (Di Masi, Defrancisci, 2018) in grado di promuovere la ridefinizione di un progetto di vita (Simoneschi, 2017); ma soprattutto consentendo agli operatori un approccio riflessivo rispetto alle loro rappresentazioni nei riguardi utenti e all’orizzonte teorico cui riferirsi al fine di orientare l’intervento. In questo senso Lorenzini (2018) evidenzia una carenza nel personale dei servizi di seconda accoglienza nella capacità di risalire alle teorie sottostanti le prassi consolidate, in termini tanto pedagogici quanto interculturali, mentre Surian, Segatto e Di Masi (2018) rilevano una mancanza di coinvolgimento attivo dei minori nell’utilizzo di strumenti tipici dell’intervento educativo, quale il PEI, oltre che una mancanza di differenziazione dei percorsi e dei progetti, riportando uno schiacciamento degli obiettivi sull’apprendimento della lingua, la ricerca del lavoro, la conclusione (eventuale) di un percorso formativo. Tali evidenze aprono al tema della formazione specifica per gli operatori dei centri di accoglienza, che si dispiega secondo il costrutto delle conoscenze (Saglietti, 2013; Lorenzini, 2018; Bertozzi, 2018; Di Masi, Defrancisci, 2018) e secondo quello delle competenze (Bertozzi, 2018).
I percorsi formativi dedicati all’accoglienza - la cui assenza viene percepita come problematica dagli stessi operatori (Di Masi, Defrancisci, 2018) - richiedono dunque un focus sulle conoscenze utili per la gestione delle pratiche di accoglienza dei MNA (anche alla luce dei cambiamenti avvenuti nel corso del tempo rispetto alle riorganizzazioni dei sistemi d’accoglienza e ai diversi bisogni dei minori) (Saglietti , 2013), ma anche un affondo sulle competenze degli operatori, che sono chiamati a confrontarsi con minori sempre più portatori di vissuti traumatici, senza tuttavia disconoscerne la capacità di resilienza (Di Nuzzo, 2013).
Secondo Bertozzi (2018) le competenze che gli operatori necessitano di sviluppare fanno riferimento a 4 specifiche aree di intervento, nelle quali gli operatori devono sapersi muovere con fluidità:
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riconoscere le aspettative e le risorse di ogni soggetto, aiutandolo a tenere insieme identità e percorsi personali con i vincoli imposti dal contesto e dalle normative;-
proteggere e allo stesso tempo accompagnare verso il futuro, con un approccio che responsabilizzi e guidi all’autonomia, affinché i MNA siano in grado di affrontare la vita adulta da neomaggiorenni (Zamarchi, 2014);-
riorientare le alte aspettative personali dei MNA in virtù delle reali possibilità offerte dal sistema e dai contesti ricettivi;-
riformulare le aspettative di lavoro.Un ultimo passaggio riguarda la ricerca che si è interrogata circa il ruolo di un’altra figura chiave nell’ambito del sistema dell’accoglienza, rappresentata dal mediatore culturale. Tale figura riveste un ruolo essenziale (Benini, De Simone, 2013), ma risulta avere un riconoscimento professionale ancora marginale, caratterizzato da diversità di riconoscimento a livello regionale e da una diffusa carenza di formazione (Luatti, 2006; Luatti e Torre, 2012). Anche a livello europeo persistono difficoltà nel riconoscere questa professione (Casadei e Franceschetti, 2009), per quanto secondo Bertozzi e Sarius (2018) l’acquisizione di un corpus solido di competenze di mediazione culturale può avere un impatto notevole sulla gestione di vissuti emotivamente pesanti, sulla rappresentazione che gli operatori hanno dei Minori Non Accompagnati e sulle modalità di intervento. In questo senso propongono lo sviluppo di competenze secondo il modello ‘conoscenze, atteggiamenti, capacità’, individuando:
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conoscenze linguistiche e culturali, conoscenza del sistema di accoglienza e delle normative,-
attitudine all’adattamento, disponibilità a destrutturare gli stereotipi,-
capacità di comunicazione verbale e non verbale, capacità di facilitazione e attivazione, capacità di gestione delle emozioni,Gli autori suggeriscono come alcune di queste possano risultare utili anche per altre professionalità e come da esse possano essere tratte indicazioni rispetto ad aree di potenziamento professionale per coloro che lavorano o si accingono a lavorare con i Minori Non Accompagnati.