Meccanismi per la tutela dei diritti dei lavoratori nel sistema agro-alimentare
6.2 Le politiche di sviluppo territoriale: concetti e metodi
Le politiche di sviluppo territoriale (di seguito anche politiche territoriali) si sono sviluppate principalmente in Europa a partire dalla fine degli anni ottanta, grazie agli input della Commissione europea nel delineare le sue politiche strutturali e di coesione (Mantino, 2002). Esse, però, sono anche emblematiche delle trasformazioni dell’azione collettiva, che trova terreno fertile nei processi di decentralizzazione dei livelli di decisione politica, economica e finanziaria avviati a partire dagli anni set-tanta dai diversi Stati membri, compresa l’Italia; processi che hanno portato, di fatto, ad un intervento crescente dello stato a livello locale, determinando così una forte territorializzazione delle politiche pubbliche (Denieuil, 2008).
Migrazioni, ruralita’ e sviluppo territoriale. Politiche e progetti in corso
Dette politiche si differenziano dalle altre in quanto si fondano sulla combinazio-ne di azioni di sistema programmate dalla sfera pubblica e l’agire locale (ossia, sulla capacità di costruire delle azioni collettive attorno al territorio) (Denieuil, 2008, Bar-ca, 2009). Di base, quindi, implicano un intervento esogeno del potere pubblico, che assume differenti gradazioni di condizionamento a seconda delle scelte programma-tiche adottate a monte dalle istituzioni che le promuovono (comunitarie o nazionali).
Nello stesso tempo, il carattere innovativo e flessibile di queste politiche fa sì che l’in-tensità del grado di condizionamento da parte delle istituzioni sia anche determinato dalla maggiore o minore autonomia dei territori nel porsi come autori della strategia di intervento da adottare e non meri destinatari della stessa. Autonomia che, a sua volta, si esprime attraverso una conoscenza fine della propria situazione, una capacità di dare una rappresentazione condivisa del proprio futuro, di elaborare e realizzare una strategia che permetta di collegare la situazione di partenza ai risultati attesi.
Le politiche di sviluppo territoriale, in qualche modo, possono essere lette come traduzione politica dello sviluppo locale (riconducibile, invece, nella sua forma più pura, alla sola mobilitazione spontanea degli attori locali), caratterizzate appunto dall’inclusione dell’agire locale nelle politiche pubbliche. Così intese, esse presuppon-gono la necessità di leggere il territorio non solo come luogo fisico, di vita (spazio vissuto e percepito), ma anche come espressione di un sistema di valori e di relazioni da sostenere. La loro finalità, come già accennato, è proprio quella di “stimolare l’or-goglio per l’appartenenza locale perché si assume che sia necessario una sorta di training autogeno da parte della popolazione per ottenere quella determinazione tanto indi-spensabile a raggiungere gli obiettivi di sviluppo” (Marini, 2002).
Così come per lo sviluppo locale, anche per le politiche territoriali è ancora pre-maturo fare riferimento ad un corpo teorico unico e consolidato. Si tratta, piuttosto, di un susseguirsi di riflessioni che si traducono, sul piano programmatorio, in prati-che, approcci e metodi da sperimentare sul territorio sotto forma di “progetto pilota”.
È dalla progettazione e attuazione di progetti pilota, infatti, che si apprende e che si consolida la teorizzazione, pur nella consapevolezza che ogni esperienza ha la sua unicità in quanto strettamente influenzata dalla specificità del contesto territoriale.
Nella programmazione e attuazione di queste politiche, il territorio “definito for-malmente e […], in quanto tale, […] oggetto di esercizio di funzioni e di trasferimenti di risorse finanziarie ordinarie e straordinarie provenienti dai diversi livelli di governo”
è affiancato (e qualche volta anche sovrapposto) da un’altra tipologia di territorio
“che non preesiste, ma è frutto di una costruzione collettiva (un insieme di attori) in
una cornice di riferimento geografico che si organizza per risolvere un problema giu-dicato comune per questi attori” (Pecquer, 2014), costruzione collettiva promossa da politiche pubbliche specifiche, come, ad esempio, quelle basate sull’approccio Leader e Snai. Va precisato, comunque, che il territorio “costruito” non rappresenta di per sé il segnale della nascita di nuove scale territoriali amministrative, ma potrebbe contri-buire a favorire il processo di revisione dell’architettura istituzionale locale. In Italia, ad esempio, aver posto per i comuni la gestione associata di funzioni e servizi come requisito formale di accesso alla Snai, sta dando un contributo fattivo al superamento del vuoto lasciato dallo scioglimento di organismi istituzionali intermedi, quali le Comunità montane e le Province.
Le politiche territoriali tendono, quindi, ad incidere anche sul livello istituzionale, spingendo i responsabili decisionali e gestionali non solo a collaborare fra di loro, ma anche, e soprattutto, a instaurare contatti più diretti con i contesti locali. L’intento di base è quello di dare vita ad un nuovo patto sociale fra i differenti attori (istituzionali e non) interessati dagli interventi e finalizzato, a sua volta, a creare nuove forme di collaborazioni impegnate a far collimare le offerte della politica con i fabbisogni reali espressi dai territori. Così, i differenti attori si impegnano attorno ad operazioni con-giunte, indirizzate a spazi locali, ma estese a larga parte della compagine economica e sociale locale (Gagnon e Kleinin, 1991). La visione collettiva condivisa trova espres-sione, a livello locale, nella costituzione di un partenariato. Gli attori interessati con-vergono, quindi, in una gestione associata dei rapporti sociali “dove inquadramento ed autonomia non si respingono ma si integrano sui piani a volte economico, sociale e politico, istituendo anche un processo dove la prossimità spaziale è più importante delle distanze sociali” (Gagnon e Kleinin, 1991). Come ben sintetizzato da Lukesch e Schuh (2007), “il partenariato locale è lo strumento più idoneo in quanto coniuga un’ampia partecipazione ascendente della popolazione locale con un sostegno e un fi-nanziamento discendenti e centralizzati derivanti da programmi regionali e nazionali”.
Se da un lato esso rappresenta un requisito formale per una sana governance, nello stesso tempo il partenariato rappresenta il luogo dove dare visibilità e trasparenza alla coerenza e alla qualità della strategia adottata.
Uno dei valori aggiunti delle nuove pratiche di sviluppo territoriale risiede nei meccanismi attuativi che consentono di valorizzare “la rete relazionale” sui territori di competenza. Il tempo e le energie dedicate a questo aspetto giustificano, almeno in parte, i costi di gestione di questa tipologia di interventi pubblici, più eleva-ti rispetto ad una geseleva-tione “ordinaria” degli inveseleva-timeneleva-ti, i quali, invece, possono
Migrazioni, ruralita’ e sviluppo territoriale. Politiche e progetti in corso
contare su meccanismi procedurali standardizzati e competenze ormai consolidate.
Lavorare sulle relazioni locali comporta la necessità (o meglio, la sfida) di garantire una partecipazione più attiva dei cittadini ai processi decisionali che impattano sulle scelte strategiche da adottare e si basa su “una concezione sostanziale e non for-male della democrazia e della cittadinanza. Democrazia sostanziale si intende come la possibilità di tutti di partecipare all’orientamento di destino comune” (Calame, 2009).
Sul piano concreto, però, più si allarga la platea di soggetti da coinvolgere nei percorsi di sviluppo, più diventa complesso garantirne una partecipazione equa e comprensiva. Tale limite, di difficile soluzione, richiede un’attenzione specifica alla qualità, pertinenza e sostenibilità dei dispositivi partecipavi e formativi di cui avva-lersi sul campo, distinguendone la natura e la forma anche in relazione alle diverse fasi che caratterizzano un percorso di sviluppo territoriale. Occorre, di fatto, com-prendere, sin dalle prime fasi, quali conoscenze (intese in senso lato) vanno sostenute e mobilitate e, di riflesso, come valorizzare quelle già preesistenti, nonché quali pro-cessi di apprendimento attivare per coprire eventuali deficit informativi e formativi. È proprio attraverso i processi di apprendimento condivisi che si modificano i valori e le convinzioni locali, che si rafforza la fiducia reciproca e si producono cambiamenti di comportamento che generano nuove decisioni, istituzioni e regole di convivenza.
Si tratta di una questione cruciale, che richiederebbe maggiore attenzione da parte sia di chi governa le politiche sia dei territori stessi che ne beneficiano.
Ciò assume una valenza maggiore nel caso in cui ci si trova di fronte alla necessità (opportunità diremmo) di recepire e governare, a livello locale, processi di inclusio-ne di nuovi abitanti. Le politiche territoriali di cui tratteremo inclusio-nel presente Capitolo e finalizzate a porre rimedio ai processi di depauperamento ambientale, sociale ed economico delle aree rurali, hanno preso in carico tale necessità, offrendo in alcuni casi, soluzioni innovative al tema.
Come si vedrà nei prossimi paragrafi, attraverso anche l’illustrazione di alcuni casi concreti Leader, Snai e Sprar, hanno messo in campo azioni di inclusione che, oltre a perseguire l’emancipazione dei migranti dal bisogno e dall’assistenza, hanno avuto un impatto significativo sul contesto socioeconomico, contribuendo così a superare quelle ostilità che portano i migranti a svendere il proprio lavoro, a accettare siste-mazioni di fortuna, a rimanere ai margini della vita culturale e sociale delle comunità locali. Come già accennato, il valore aggiunto di queste politiche, ed in particolare di Leader e Snai, è dato dal fatto che le soluzioni adottate hanno trovato collocazione in
una prospettiva di sviluppo territoriale più ampia, che ha permesso ai migranti inte-ressati di porsi come attori proattivi nel contesto in cui si sono insediati.