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Misurare l’inclusione socio-lavorativa degli immigrati

Nel documento MIGRAZIONI, AGRICOLTURA E RURALITÀ (pagine 126-130)

Meccanismi per la tutela dei diritti dei lavoratori nel sistema agro-alimentare

5.2 Misurare l’inclusione socio-lavorativa degli immigrati

5.2.1 Misurare l’inclusione socio-lavorativa degli immigrati

Il termine inclusione presenta, comunque, differenti accezioni attribuite, di volta in volta, anche in relazione al contesto locale e alla situazione specifica e con

rife-Strumenti per l’inclusione dei migranti. Il contributo dell’agricoltura sociale

rimento a particolari gruppi sociali. Per tentare una sintesi, potremmo affermare che l’inclusione sociale e lavorativa degli immigrati necessita di almeno tre livelli di analisi: a livello nazionale è utile verificare il quadro normativo di riferimento e le mi-sure messe in campo; le competenze in materia di integrazione, formazione, lavoro e molte altre materie, tuttavia, hanno luogo a livello regionale, ed è questo il secondo livello di analisi da considerare; infine, l’inclusione trova espressione nel tessuto loca-le dove vengono realizzate iniziative concrete che utilizzano gli strumenti normativi e finanziari messi a disposizione.

Misurare l’inclusione degli immigrati richiede dunque uno sforzo concettuale non indifferente in termini di individuazione degli indicatori che possano consentirne una misurazione, anche in riferimento alle differenti accezioni attribuite al termine e ai modelli di intervento che hanno preso forma presso le diverse realtà nazionali. Ca-tarci (2014) segnala tre modelli europei differenti, che rappresentano degli idealtipi in senso weberiano, in quanto delineati sulla base di alcuni tratti chiave rilevati in casi empirici. Il primo, quello francese, viene definito “assimilazionista” in quanto l’in-tegrazione viene regolata dal principio di eguaglianza e consiste in una progressiva acquisizione delle forme della cittadinanza francese, «superando così le specificità le-gate a singole tradizioni, religioni, linguaggi» (Catarci, 2014, p. 75). In questo modello, l’eguaglianza è propria della dimensione pubblica, mentre la sfera culturale è relegata alla dimensione privata, con una conseguente condizione di “doppia assenza” per i migranti che si trovano a non vivere pienamente né nel paese di origine né in quello di destinazione, come rilevato in studi sul caso dell’immigrazione algerina in Francia (Sayad, 2002).

Il modello “pluralista” o “multiculturale”, proprio della Gran Bretagna, prevede invece che lo Stato svolga un ruolo di mediazione tra i diversi gruppi culturali, che hanno una forte autonomia, e la possibilità di conservare e manifestare le proprie specificità anche nella dimensione pubblica. Tuttavia, anche nel modello britannico se un gruppo culturale non risponde ai parametri linguistici e culturali dominanti viene considerato sistematicamente “altro”; tale emarginazione si ripete nel tempo, per effetto di una “stratificazione” razzista che determina divisioni tra avvantaggiati e svantaggiati (Gundara, 2003).

Il terzo modello, diffuso in Germania, può essere definito di “istituzionalizzazione della precarietà” in riferimento alla scelta di attribuire al fenomeno migratorio un carattere temporaneo e di indirizzare le politiche verso il controllo e la flessibilità dello stesso, in relazione alle necessità del ricorso all’importazione di manodopera

straniera. Il modello tedesco si è caratterizzato negli anni per la presenza di una dop-pia strategia volta da una parte a integrare gli immigrati già presenti sul territorio e dall’altra a limitare l’arrivo di nuovi immigrati (selezionati in base alle richieste del mercato del lavoro interno) e favorirne il ritorno nel paese di origine una volta esau-rito il loro ruolo.

In Italia non esiste un modello consolidato, ma piuttosto un insieme eterogeneo di iniziative e interventi con caratteristiche differenti, che si sono succedute nel tempo soprattutto per far fronte a situazioni di emergenza. Attualmente, le principali attività di accoglienza e integrazione sono ascrivibili a due tipologie principali di interven-to. La prima è la cosiddetta accoglienza straordinaria, organizzata per sopperire alla mancanza di posti nelle strutture ordinarie di accoglienza o nei servizi predisposti dagli enti locali, in caso di arrivi consistenti e ravvicinati di richiedenti asilo. I Centri di accoglienza straordinaria (Cas) vengono individuati dalle prefetture, in conven-zione con cooperative, associazioni e strutture alberghiere, secondo le procedure di affidamento dei contratti pubblici, sentito l’ente locale nel cui territorio la struttura è situata. La permanenza nei Cas dovrebbe essere limitata al tempo strettamente ne-cessario al trasferimento del richiedente nelle strutture di seconda accoglienza; tut-tavia, attualmente questa costituisce la modalità ordinaria di intervento e copre circa l’80% dell’accoglienza. La seconda tipologia è costituita dal Sistema di protezione ri-chiedenti asilo e rifugiati (Sprar), coordinato dal Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Viminale e gestito dall’Anci1 (l’associazione dei Comuni italiani).

Il richiedente che ha formalizzato la richiesta di asilo e non dispone di mezzi di sus-sistenza viene inserito nel sistema di accoglienza in centri di secondo livello, la cosid-detta “seconda accoglienza”. Oltre al vitto e all’alloggio, questi centri devono erogare servizi come la mediazione linguistica e culturale, corsi di lingua italiana, percorsi di formazione e professionali, orientamento e assistenza legale, finalizzati all’integra-zione. L'accoglienza è prevista per sei mesi, rinnovabili per altri sei ed è comunque garantita fino alla decisione della Commissione territoriale oppure, in caso di ricor-so, fino all’esito dell’istanza sospensiva e/o alla definizione del procedimento. Si basa sulla costruzione di reti tra i diversi attori coinvolti, una progettazione articolata di interventi indirizzati a tutta la popolazione locale e non solo agli immigrati accolti. I progetti Spar – di cui si parla in maniera approfondita nel capitolo 6 di questo volume – sono caratterizzati da una dimensione medio-piccola (sono ideati e attuati a livello

1 L’Anci a sua volta, per l’attuazione delle attività, si avvale del supporto operativo della Fondazione Cittalia.

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locale) e dalla partecipazione degli attori presenti sul territorio alla progettazione e realizzazione delle attività. Questi tipi di intervento contribuiscono a rafforzare una cultura dell’accoglienza presso le comunità locali e favoriscono la continuità dei per-corsi di inserimento socio-economico dei beneficiari. Quello dello Spar è un modello di intervento che ha dato risultati molto positivi non solo in termini di inclusione dei migranti ma anche in termini di attivazione di servizi universalistici e di processi di sviluppo locale; esso, tuttavia, rappresenta un intervento marginale all’interno del sistema italiano, che è basato soprattutto sul sistema dei Cas, ed è stato messo in di-scussione dai recenti interventi di politica che ne riducono ancora di più la portata.

Occorre, inoltre, ricordare che l’inclusione dipende solo in parte dalle politiche volontarie esplicitamente rivolte all’integrazione degli immigrati (Hampshire, 2013).

Le politiche pubbliche che nei Paesi europei, a livello nazionale e locale, sono state messe in campo per favorire l’integrazione non hanno dato sempre risultati positivi, sia per quanto riguarda gli interventi volti a migliorare l’integrazione degli immigrati, sia per quelli finalizzati all’integrazione culturale e sociale (King et al. 2016). Il moti-vo risiede soprattutto nella mancanza di coerenza e coordinamento degli interventi;

non mancano, tuttavia, risultati interessanti dal punto di vista delle misure adottate e delle modalità di realizzazione, soprattutto in alcuni contesti specifici. Ad esempio, le misure che favoriscono l'apprendimento della lingua per gli adulti risultano avere un impatto molto positivo (Hampshire, 2013). La formazione professionale e l’orien-tamento, invece, hanno spesso effetti positivi in termini di incremento della velocità dei processi di integrazione, perché potenziano le competenze professionali e accre-scono il capitale sociale, ma se realizzati esclusivamente per immigrati, rischiano di produrre un effetto di stigmatizzazione. Gli incentivi economici alle imprese private vincolati all’assunzione di immigrati sono la misura più efficace e stabile nel tempo, come dimostrato da un’analisi di 33 indagini valutative locali in sette nazioni europee (Butsheck e Walter, 2014).

Da questi pochi esempi emerge chiaramente l’importanza di politiche che ricorra-no a servizi universalisti e di qualità, ricorra-non rivolti esclusivamente agli immigrati (o, più in generale, a gruppi svantaggiati di popolazione). Le intenzioni politiche non danno sempre luogo a interventi implementati con successo con copertura globale, né sono necessariamente efficaci e portano a posizioni nel mercato del lavoro più vantaggiose per gli immigrati. La copertura completa dei programmi di integrazione degli im-migrati o il loro carattere obbligatorio, infine, non garantiscono un’integrazione più favorevole del mercato del lavoro degli immigrati. Una politica di inclusione risulta

invece efficace quando aiuta i partecipanti ad acquisire competenze, fornisce loro informazioni utili per muoversi nel mercato del lavoro e li dota di caratteristiche che possono essere adeguatamente percepite dai datori di lavoro (Kogan 2016).

Nel documento MIGRAZIONI, AGRICOLTURA E RURALITÀ (pagine 126-130)