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Le legge Tambroni del 1956: una prima “ripulitura” legislativa

DALLA COSTITUZIONE A OGGI

2. Le legge Tambroni del 1956: una prima “ripulitura” legislativa

Alle suddette indicazioni, il legislatore tentò di adeguarsi sul finire dello stesso anno, mediante l’approvazione della legge del 27 dicembre 1956, n. 1423, recante «misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità»24.

costituzionale» (corsivo nel testo). Sul punto si veda anche G. MORTATI, Rimpatrio obbligatorio e Costituzione,

in Giur. cost., 1960, p. 685, il quale critica le soluzioni adottate dalla Corte costituzionale nel 1956 ritenendo che le conseguenze derivanti dal rimpatrio fossero più severe di quelle derivanti dall’ammonizione.

22 Per questa e per la citazione precedente cfr. Corte cost., 3 luglio 1956, n. 11.

23 Così si legge in Corte cost., 20 giugno 1964, n. 68. In senso critico cfr. L. ELIA, Le misure di prevenzione tra

l’art. 13 e l’art. 25 della Costituzione, in Giur. cost., 1964, p. 943, il quale parla di «formula […] ardita (per non

dire disinvolta)».

24 In quei mesi il parlamento era alle prese con un disegno di legge con cui si intendeva riformare, in maniera

più organica, la legge di pubblica sicurezza del 1931. Tuttavia, le pronunce della Corte costituzionale suggerirono alla maggioranza parlamentare di “regolarizzare” immediatamente la materia delle misure di prevenzione, senza attendere il completamento dell’iter parlamentare di quel disegno di legge; sul punto cfr.

G. D’AGOSTINO, Le misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose nei lavori parlamentari, in Riv. poliz.,

1967, p. 298 ss.

Per una completa ricostruzione della disciplina dettata da questa legge si rinvia a B. SICLARI, Le misure di

prevenzione…, cit., passim, nonché a M. DI RAIMONDO, Lineamenti delle misure di prevenzione (con le novità

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È proprio con questa legge, che ha rappresentato la base normativa di questa materia sino al 2011, che nacque l’etichetta “misure di prevenzione”25.

Nonostante la “contiguità” delle misure di polizia alle misure di sicurezza, e nonostante una delle poche note di differenziazione tra questi istituti fosse rappresentata dall’autorità competente a disporne l’applicazione (autorità amministrativa per le misure di polizia, autorità giudiziaria per le misure di sicurezza)26, allorché – a seguito delle pronunce della Corte costituzionale sopra esaminate – si dovette avviare la “giurisdizionalizzazione” delle prime il legislatore ci tenne comunque a precisare che continuava a trattarsi di materia diversa da quella delle misure di sicurezza27.

2.1. Le “nuove” misure e i soggetti destinatari

25 Osserva G. VASSALLI, Misure di prevenzione e diritto penale, cit., p. 1624, che nel 1956 «il legislatore si trovava

di fronte all’impossibilità di usare il termine “misure di polizia” nell’atto in cui sottraeva la più gran parte di esse al potere esecutivo; e non ardiva a chiamare misure di sicurezza misure che non venivano ancora ad inserirsi nel preesistente sistema di codici penali».

26 Cfr. supra, sez. I, par. 4.3.

27 In dottrina, però, alcuni Autori non mancarono di rilevare che la nuova sorveglianza speciale di pubblica

sicurezza non rappresentasse altro che una nuova misura di sicurezza.

Per una breve ricostruzione del dibattito dottrinale all’indomani dell’entrata in vigore della legge Tambroni

si veda G. D’AGOSTINO, La natura giuridica delle misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la

sicurezza e per la pubblica moralità, in Riv. poliz., 1967, p. 361 ss., cui si rinvia anche per i richiami bibliografici,

nonché A. CHIAPPETTI, Fondamento costituzionale della sorveglianza speciale e delle altre misure di prevenzione

limitatrici della libertà personale, in Riv. poliz., 1968, p. 65 ss. Per una critica alla distinzione tra misure di

sicurezza e misure di prevenzione, espressa a pochi mesi di distanza dall’entrata in vigore della legge in esame,

si vedano in particolare le condivisibili osservazioni di A. MARUCCI, Misure di sicurezza e misure di prevenzione,

in Rass. studi penit., 1957, p. 589: «le misure di prevenzione hanno identica natura delle misure di sicurezza. Unica saliente differenza era quella della loro applicazione da parte dell’autorità amministrativa; ma oggi che è venuto meno integralmente tale elemento, ritengo decisamente che anche le misure di prevenzione siano sanzioni criminali applicate con processo giurisdizionale […]». Sul punto cfr. anche infra, cap. IV, par. 5.2.

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La legge in esame disciplinava da un lato la motivata diffida28 e l’ordine di rimpatrio con foglio di via obbligatorio29, di competenza del questore, dall’altro la «sorveglianza speciale della pubblica sicurezza», alla cui applicazione provvedeva il tribunale.

A quest’ultima misura – che poteva essere disposta solo nei confronti delle persone che, già “diffidate”, non avessero cambiato condotta30 – era possibile aggiungere il divieto di soggiorno in uno o più comuni o in una o più province, nonché, nei casi di particolare gravità, l’obbligo del soggiorno in un determinato comune.

Nel nuovo assetto delle misure di prevenzione personali applicate dall’autorità giudiziaria era possibile rivedere non solo la vecchia ammonizione, ma anche una nuova “versione” del confino di polizia31.

Nell’applicare l’obbligo di soggiorno, infatti, l’autorità giudiziaria era libera di individuare il comune di destinazione con ampia discrezionalità, potendo optare anche per comuni geograficamente molto lontani da quello di residenza o dimora del sorvegliato32. Di questa continuità tra ammonizione e sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, da un lato, e confino di polizia e obbligo di soggiorno, dall’altro, vi è peraltro traccia proprio in

28 Ai sensi dell’art. 1 l. 27 dicembre 1956, n. 1423, la diffida consisteva nell’invito formale a cambiare

condotta, con l’avvertimento che, in caso contrario, sarebbe stata avanzata proposta per l’applicazione di una

misura di prevenzione. Sul punto cfr. A. ANTONUCCI, Alcune considerazioni sulla legge 27 dicembre 1956, n.

1423, in Riv. Pen., 1964, II, p. 983, secondo cui il suddetto invito formale non poteva neppure definirsi un

vero e proprio provvedimento, non presentandone «le caratteristiche essenziali», ma costituiva «la base per un

successivo regolare procedimento». Nello stesso senso G. MANSI, Valutazioni sull’istituto della diffida con

particolare riferimento a quella di pubblica sicurezza, in Riv. poliz., 1968, p. 380. Quanto alla forma della diffida,

nel silenzio della legge la giurisprudenza si orientò nel senso di ritenere ancora in vigore le disposizioni contenute nel regolamento di esecuzione del t.u.l.p.s. del 1931: pertanto, la diffida doveva essere fatta dal questore alla presenza del diffidato; per un approfondimento e per gli opportuni richiami giurisprudenziali

cfr. A. DELL’ORCO, Presupposti, struttura e funzione del provvedimento di diffida, in Riv. Pol., 1968, p. 3 ss.

29 Art. 2 l. 27 dicembre 1956, n. 1423. Per un’analisi della disciplina dettata dalla legge Tambroni in relazione

a questa misura e delle differenze con quella precedente cfr. M. D’ANIELLO, Brevi note sulla disciplina del

rimpatrio obbligatorio, in Riv. poliz., 1962, p. 57 ss. e L. LEONELLI, La diffida e il rimpatrio obbligatorio nella nuova

legge di prevenzione nei confronti delle persone pericolose (l. 27 dicembre 1956 n. 1423), in Giust. pen., 1958, I, p. 46.

30 La legge non precisava entro quale termine l’intimato avrebbe dovuto dimostrare di aver mutato condotta.

Secondo E. CIACCIO, voce Diffida, cit., p. 508, doveva ritenersi che la denuncia per l’applicazione della

sorveglianza speciale non potesse essere fatta «prima di un periodo di tempo ragionevolmente sufficiente per la valutazione del nuovo comportamento del diffidato».

31 In termini G. FERRARI, voce Confino di polizia, in Enc. Dir., VIII, Giuffrè, Milano, 1961, p. 971, il quale

osserva: «come al “domicilio coatto” seguì il confino di polizia, così a questo è succeduto l’“obbligo di

soggiorno in un determinato comune”». V. anche A. MARUCCI, Misure di sicurezza e misure di prevenzione, cit.,

p. 578: «superfluo spiegare che la sorveglianza speciale è l’antica ammonizione e l’obbligo di soggiorno in un

determinato Comune è l’antico confino»; L. LACCHÈ, Uno “sguardo fugace”…, cit., p. 435.

32 Per un approfondimento sul punto cfr. P.V.MOLINARI –U.PAPADIA, Le misure di prevenzione nella legge

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una disposizione della legge in esame: l’art. 13, infatti, prevedeva che l’applicazione delle nuove misure di prevenzione avrebbe comportato «gli stessi effetti consequenziali prodotti dall’ammonizione e dall’assegnazione al confino secondo il precedente ordinamento».

Questo “erede” del vecchio confino sparì soltanto molti anni più tardi, quando, con la legge 24 luglio 1993, n. 256, il legislatore previde che l’obbligo di soggiorno potesse essere disposto non in un qualsiasi comune, bensì soltanto «nel comune di residenza o di dimora abituale»33. Tale scelta fu dettata dalla convinzione che, negli anni della sua applicazione, questa misura si fosse rivelata non solo inutile, ma anche dannosa, in quanto i soggiornanti obbligati, anziché «recidere i legami con la criminalità di origine, non [avevano] fatto altro che stabilire nuove basi di attività nelle varie regioni d’Italia»34.

Quanto ai soggetti destinatari, l’art. 1 della legge Tambroni individuò cinque categorie35. Nella prima rientravano gli oziosi e i vagabondi abituali, validi al lavoro. La

seconda era rappresentata dai soggetti «abitualmente e notoriamente dediti a traffici illeciti».

Nella terza erano inclusi, da un lato, coloro che dessero «fondato motivo di ritenere» di essere «proclivi a delinquere» e, dall’altro, i soggetti che, «per la condotta e il tenore di vita», dovevano ritenersi vivere abitualmente, anche in parte, con il provento di delitti o con il favoreggiamento. La quarta categoria riguardava coloro che, «per il loro comportamento», fossero ritenuti dediti a favorire o sfruttare la prostituzione o la tratta delle donne o la corruzione dei minori, a esercitare il contrabbando ovvero il traffico illecito di sostanze tossiche o stupefacenti o ad agevolarne dolosamente l’uso. Infine, le misure di prevenzione erano applicabili a tutti coloro che svolgessero abitualmente «altre attività contrarie alla morale pubblica e al buon costume»36.

Il panorama, insomma, non era poi così rivoluzionario, come invece ci si poteva attendere da una legge emanata con il fine di adeguare la materia allo spirito Costituzione.

33 Cfr. art. 5, co. 5, l. 27 dicembre 1956, n. 1423, come modificato dall’art. 1, co. 1, lett. b, l. 24 luglio 1993,

n. 256.

34 Cfr. l’intervento dell’onorevole Imposimato, Commissione II, giustizia, n. 23, seduta di giovedì 15 luglio

1993, p. 172.

35 Per approfondimenti su queste fattispecie si veda N. DE RUBERTIS, Le misure di prevenzione nei confronti delle

persone pericolose e delle associazioni mafiose, Noccioli, Firenze, 1972 p. 23 ss., nonché M. PAVARINI, Le fattispecie

soggettive di pericolosità nelle leggi 27 dicembre 1956 n. 1423 e 31 maggio 1965 n. 575, in Le misure di prevenzione. Atti del convegno di Studi Enrico de Nicola, Giuffrè, Milano 1975, p. 283.

36 All’interno di questa formulazione, estremamente ampia, la giurisprudenza riconduceva tutti quei

«comportamenti abituali che offendono le norme di costume propri della collettività e la cui violazione costituisce un indice di pericolosità indipendentemente dal carattere eventualmente delittuoso dei fatti in cui

si concretizzano», cfr. R. JUSO, Appunti sulle misure di prevenzione nei confronti della prostituzione, in Riv. poliz.,

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Dalle indicazioni della Consulta, che aveva “bocciato” i sospetti, richiedendo l’individuazione di fatti concreti37, si sarebbe invero potuto trarre molto di più.

È vero che, proprio come era avvenuto con la legge di pubblica sicurezza del 188938, il legislatore aveva accuratamente evitato di usare il termine “sospetto”39; ma ciò non impediva di cogliere una forte continuità con la previgente disciplina di epoca liberale e fascista. I soggetti destinatari, ancora una volta, erano individuati attraverso espressioni che, o si rifacevano “tipi d’autore” (si pensi agli oziosi, ai vagabondi, ai proclivi a delinquere), o rinviavano a pregresse attività delittuose, di cui, però, non era richiesto alcun accertamento40.

Ciononostante, si deve qui segnalare che le suddette fattispecie, a qualche anno dalla loro entrata in vigore, superarono positivamente il vaglio della Corte costituzionale, la quale, con un’importante pronuncia del 1964, nell’affermare che l’adozione delle misure di prevenzione può essere collegata «a un complesso di comportamenti che costituiscano una “condotta”, assunta dal legislatore come indice di pericolosità sociale», precisò che ai fini della descrizione di queste fattispecie è possibile «far riferimento anche a elementi presuntivi, corrispondenti però sempre a comportamenti obiettivamente identificabili», essendo richiesto non un «minor rigore», ma un «diverso rigore» rispetto a quello necessario per la previsione dei reati e l’irrogazione di una pena41.

2.2. La “rinascita” del procedimento di prevenzione

37 Cfr. supra, par. 1.1.

38 Cfr. supra, sez. I, par. 3.3.

39 Lo osserva F. BRICOLA, Forme di tutela «ante delictum», cit., p. 33.

40 In termini, all’indomani dell’entrata in vigore della legge in esame, A. MARUCCI, Il processo di prevenzione,

in Rass. studi penit., 1958, II, pp. 538-539.

41 Cfr. Corte cost., 23 marzo 1964, n. 23 per tutte le citazioni contenute in questo periodo. Esprime perplessità

rispetto a questa sentenza P. NUVOLONE, Legalità e prevenzione, in Giur. cost., 1964, p. 197, pur non mettendo

in dubbio che «le misure ante delictum o extra delictum […] non si identificano nella categoria delle pene» e che, pertanto, «in relazione alla loro particolare natura preventiva, il problema della legalità vada posto in modo completamente diverso rispetto al modo con cui il problema stesso si pone in materia di delitti e di pene».

Per un commento in parte diverso cfr. R. G. DE FRANCO, Riserva di legge e «determinatezza» delle previsioni di

pericolosità ex lege n. 1423 del 1956, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1965, p. 112, secondo il quale, invece, l’elemento

della “determinatezza” è connesso alla riserva di legge assoluta in materia di libertà personale (art. 13 Cost.) non meno di quanto lo sia alla riserva di legge in materia penale (art. 25 Cost.), in quanto «l’una e l’altra riserva si riconducono ad un’identica ratio: la tutela della libertà personale; la quale, per definizione, risulta incompatibile con ogni idea di indeterminatezza».

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Come si è detto, con la legge del 1956 le misure di polizia si lasciarono alle spalle la piena “amministrativizzazione” che le aveva caratterizzate nel periodo fascista, per ricevere – oltre a una nuova “etichetta” – una “patina” di giurisdizionalità: da quel momento, infatti, all’applicazione della sorveglianza speciale, con o senza divieto o obbligo di soggiorno, avrebbe provveduto il tribunale.

Di seguito, vale la pena tratteggiare brevemente la disciplina del primo procedimento di prevenzione nell’ordinamento repubblicano.

Il potere di avanzare la “proposta” per l’applicazione della sorveglianza speciale fu attribuito all’autorità di pubblica sicurezza, e in particolare al questore della provincia in cui si trovava la “dimora” del soggetto42.

Nel corso del procedimento, però, la figura del questore lasciava il posto a quella del pubblico ministero, chiamato a intervenire all’udienza.

La proposta, da presentarsi direttamente al presidente del tribunale avente sede nel capoluogo di provincia, doveva essere necessariamente motivata. Il fatto che la legge richiedesse espressamente una motivazione indusse i primi commentatori a ritenere che con essa il questore dovesse esporre sia gli elementi di fatto che portavano a includere il soggetto in una determinata categoria di soggetti destinatari, sia quelli su cui si fondava il giudizio di pericolosità43.

A seguito del «promovimento dell’azione di prevenzione»44, il tribunale avrebbe provveduto, in camera di consiglio, «osservando, in quanto applicabili, le disposizioni degli articoli 636 e 637 del codice di procedura penale»45. A queste due disposizioni, prese “in prestito” dal procedimento per l’esecuzione delle misure di sicurezza (libro IV, titolo V, c.p.p. 1930), la legge Tambroni ne affiancò alcune altre, volte a implementare la partecipazione dell’interessato al procedimento.

Le garanzie difensive erano alquanto limitate e, in definitiva, si esaurivano nei seguenti tre aspetti.

42 Cfr. art. 4, co. 1, l. 27 dicembre 1956, n. 1423.

43 Cfr. A. ANTONUCCI, Ancora sulla legge 27 dicembre 1956, n. 1423, cit., p. 565; V. CAVALLARI, Il procedimento

delle misure di prevenzione. Analisi e spunti critici, in Le misure di prevenzione. Atti del convegno di Studi “Enrico De Nicola”, Giuffrè, Milano, 1975, p. 91.

44 Cfr. V. CAVALLARI, Il procedimento delle misure di prevenzione…, cit., p. 90.

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Anzitutto, il giudice, prima di provvedere, doveva necessariamente invitare l’interessato a «fare le dichiarazioni» ritenute «opportune nel suo interesse»46, dichiarazioni di cui doveva darsi conto in apposito processo verbale.

In secondo luogo, al soggetto proposto era riconosciuta la facoltà di presentare memorie.

Infine, e a differenza di quanto previsto per l’applicazione delle misure di sicurezza, nel corso dell’udienza egli avrebbe potuto farsi assistere da un avvocato o procuratore47.

Se il diritto alla prova del soggetto proposto appariva del tutto trascurato, ampi poteri investigativi erano invece riconosciuti al giudice: questi poteva infatti disporre tutti gli accertamenti ritenuti «opportuni»48, delegando l’autorità di pubblica sicurezza oppure, se del caso, il giudice di sorveglianza o il pretore di altro luogo. Inoltre, nel caso in cui il soggetto, ricevuto l’invito di cui si è già detto, avesse deciso di non comparire, il presidente del tribunale avrebbe potuto ordinarne l’accompagnamento, al fine di svolgere l’interrogatorio49.

Per i casi in cui con la proposta si chiedesse l’applicazione dell’obbligo di soggiorno in un determinato comune, era prevista la possibilità di adottare una “cautela” particolarmente afflittiva50. In presenza di «motivi di particolare gravità», infatti, il presidente poteva disporre che la persona «denunciata» fosse tenuta «sotto custodia in un carcere giudiziario»51 fino a quando il tribunale, con decreto immediatamente esecutivo, non avesse applicato la misura. La singolarità di una «restrizione in carcere […] quale garanzia per l’esecuzione di una misura […] non detentiva» non sfuggì alla dottrina, che subito ne denunciò l’«illogicità»52.

Una volta terminata l’udienza, il tribunale avrebbe potuto emettere la decisione anche in un giorno diverso, ma, stando alla lettera della legge, non oltre trenta giorni dalla

46 Cfr. art. 636 c.p.p. Del resto, come è stato correttamente osservato, già per l’applicazione delle misure di

sicurezza la garanzia giurisdizionale non sarebbe stata «completa» se il giudice avesse potuto «provvedere

inaudita parte», cfr. O. VANNINI, Manuale di diritto processuale penale italiano, Giuffrè, Milano, 1953, p. 398.

47 Cfr. art. 4, co. 3, l. 27 dicembre 1956, n. 1423. Secondo A. MARUCCI, Il processo di prevenzione, cit., p. 554,

si trattava di «un sistema pressoché intermedio fra quello penale e quello di sicurezza, analogo a quello degl’incidenti di esecuzione».

48 Cfr. art. 637 c.p.p. 1930, rubricato «investigazioni del giudice di sorveglianza».

49 Cfr. art. 4, co. 4, l. 27 dicembre 1956, n. 1423.

50 Parla di «istituto di natura processuale e tipicamente cautelare» G. D’AGOSTINO, La natura giuridica delle

misure di prevenzione nei confronti…, cit., p. 362.

51 Cfr. art. 6, co. 1, l. 27 dicembre 1956, n. 1423.

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presentazione della proposta; questo termine, però, fu da subito ritenuto dalla giurisprudenza come puramente ordinatorio53.

Il qualificare tale termine come ordinatorio provocò seri dubbi di legittimità costituzionale in relazione alla disposizione disciplinante la carcerazione preventiva di cui si è appena parlato, la cui durata era legata alla definizione del giudizio di prevenzione. A un procedimento dalla durata indeterminata sarebbe infatti corrisposta una carcerazione preventiva sine die, in palese contrasto con l’art. 13, co. V, Cost., ai sensi del quale la legge deve stabilire «i limiti massimi della carcerazione preventiva». Così, per “ricomporre” il sistema, la giurisprudenza affermò presto che il termine di 30 giorni, pur essendo ordinatorio rispetto alla durata del procedimento, dovesse ritenersi perentorio quanto alla durata della misura custodiale54.

La decisione veniva presa con decreto motivato.

Tale provvedimento doveva essere comunicato al procuratore della Repubblica, al procuratore generale presso la Corte di appello e all’interessato, ai quali era riconosciuta la facoltà di proporre ricorso alla Corte di appello, «anche per il merito»55.

Avverso il decreto emesso dalla Corte d’appello, poi, era possibile proporre ricorso per cassazione «per violazione di legge»56.

Anche nella materia delle impugnazioni, oltre che in quella dell’udienza, il legislatore del ’56 optò per un rinvio alle disposizioni dettate dal codice di procedura penale per le misure di sicurezza, e in particolare a quelle «riguardanti la proposizione e la decisione dei ricorsi»57. Nel richiamo, privo di “correttivi”, a queste disposizioni si annidava – come è stato messo in luce in dottrina – un «grave attentato al diritto di difesa»58, giacché esse non consentivano l’intervento dell’interessato nel giudizio di secondo grado59.

53 Cfr., ex plurimis, Cass. pen., Sez. I, 15 giugno 1960, in Giust. Pen., 1960, III, c. 606, con nota redazionale

che segnala trattavasi di orientamento già consolidato.

54 Cfr. Cass. pen., Sez. I, 4 giugno 1971, in Giust. Pen., 1972, III, cc. 585-586, con breve nota redazionale

recante osservazioni critiche.

55 Cfr. art. 4, co. 6, l. 27 dicembre 1956, n. 1423.

56 Cfr. art. 4, co. 8, l. 27 dicembre 1956, n. 1423.

57 Cfr. art. 4, co. 9, l. 27 dicembre 1956, n. 1423. In dottrina si osservò come, oltre alle disposizioni

espressamente richiamate, si dovesse fare riferimento anche alle norme generali in tema di impugnazioni, cfr.

G. CONSO, Minor rigore formale nella presentazione dei ricorsi relativi alle misure di prevenzione, in Riv. It. Dir. Proc.

Pen., 1958, pp. 222-223.

58 Così V. CAVALLARI, Il procedimento…, cit., p. 102.

59 In tal senso si orientò la giurisprudenza maggioritaria. Per una critica, nonché per alcuni richiami

giurisprudenziali, cfr. C. TAORMINA, Riflessioni sull’evoluzione giurisprudenziale in tema di procedimento per

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Infine, esauriti i mezzi di impugnazione (nessuno dei quali aveva effetto sospensivo), la legge attribuiva all’interessato – e solo a lui – la possibilità di proporre, in qualsiasi