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Lo sviluppo della biblioteca pubblica in Italia

CAPITOLO III BREVE STORIA DELLA PUBLIC LIBRARY

3.4 Lo sviluppo della biblioteca pubblica in Italia

La penisola italiana vide un’affermazione piuttosto lenta dell’istituto anglo-sassone. All’indomani dell’unificazione vi erano un gran numero di biblioteche ereditate dagli Stati pre-unitari aventi una cifra ragguardevole di volumi. Secondo un censimento del 1863, infatti, risultavano 210 biblioteche di cui 133 pubbliche (33 governative e 100 «di appartenenza locale») e comprese altre 31 aperte al pubblico ma di enti privati. I volumi censiti, invece, superavano i 4 milioni43.

Nonostante i dati notevoli, le biblioteche si trovavano in una situazione difficile poiché vi era scarsità di titoli moderni e i libri erano piuttosto mal distribuiti [Traniello, 2014, p. 14- 15]. La situazione complessiva era ancora più grave se si considera che la società italiana all’indomani dell’unità: l’analfabetismo colpiva il 75 % di una popolazione [Lazzari, 1985, p. 15] prevalentemente dedita all’agricoltura e priva della possibilità di accedere

43 Il censimento non considera le biblioteche delle odierne regioni del Veneto, Trentino-Alto Adige, Friuli V. G., Lazio e della provincia di Mantova poiché, all’epoca, non facevano parte del Regno d’Italia.

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all’istruzione. Nonostante la ricchezza relativa in fatto di biblioteche, esse restavano dunque impotenti e insufficienti di fronte alla realtà sociale e culturale della penisola.

Per ovviare ad una situazione così arretrata le soluzioni arrivarono soprattutto dal settore privato. I primi decenni del periodo post-unitario videro moltiplicarsi iniziative atte a istituire luoghi che potessero contribuire all’istruzione delle classi popolari; tra questi luoghi vi erano le cosiddette ‘Biblioteche popolari’ spesso chiamate anche ‘circolanti’ quando queste prevedevano il prestito dei libri.

Il fenomeno delle biblioteche popolari italiane ebbe uno sviluppo simile al ricorso delle maree: ad un’espansione segue una contrazione a distanza di tempo più o meno regolare. Ad una prima fioritura di iniziative lungo i primi due decenni dall’unità, infatti, seguì una fase in cui esse diminuirono in numero a causa dell’esaurimento delle forze dei promotori. Ai primi del ‘900, tuttavia, vi fu il ritorno dell’attività con tanto di reflusso durante il periodo bellico. Nel 1908 venne fondata la prima associazione nazionale avente per scopo l’istituto, ossia la Federazione italiana delle biblioteche popolari.

Se gli obiettivi ed i mezzi presentano molte analogie con le public libraries inglesi (filantropia e iniziativa privata rispettivamente), ciò non si può dire del sostegno governativo. A differenza della Gran Bretagna in Italia non esisterà una legislazione adeguata fino all’istituzione delle Regioni negli anni ’70 del XX secolo e anche allora si tratterà di una legislazione meno sistematica se comparata a quella tedesca o inglese.

Sebbene le biblioteche popolari presentassero limiti organizzativi e cronica mancanza di fondi ed energie atte alla continuazione della loro attività, con esse si prese coscienza della necessità di un solido intervento pubblico in ambito locale:

Il movimento per le biblioteche popolari, nato sul terreno delle iniziative volontarie a carattere filantropico di singoli e di associazioni, ha progressivamente acquisito nel corso del secolo scorso la coscienza della necessità di inserire questo tipo di istituto tra i sevizi di pertinenza degli enti locali, dotandolo così a pieno titolo di un carattere pubblico. Ciò tuttavia richiedeva preliminarmente l’esistenza contemporanea di due condizioni, l’una di carattere politico amministrativo, l’altra storico culturale. La prima […] consisteva nell’esistenza di un sistema di autonomie locali sufficientemente forte […] da permettere ai comuni e alle altre autorità territoriali interessate di sostenere adeguatamente l’onere del servizio […]. La seconda condizione […] stava nella possibilità da parte degli enti locali […] di concentrare i propri sforzi nella creazione di servizi bibliotecari sostanzialmente nuovi, indirizzati nel senso dell’offerta di strumenti di comunicazione e di informazione attuali. [Traniello, 1997, p. 184]

Le proposte per strutturare le biblioteche popolari entro un sistema organizzativo pubblico nazionale, d’altro canto, sembrano numerose se si vagliando i lavori di Lazzari e Traniello, ma i governi succedutisi nel corso della storia unitaria non hanno mai legiferato

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a livelli così sistemici. Ciò non toglie che alcuni provvedimenti siano stati presi a livello nazionale. Il decreto luogotenenziale del 2 settembre 1917 n. 15 ne è esempio, infatti è «quella che può essere definita la prima organica carta fondamentale dello Stato italiano in materia di biblioteche popolari […] che rimarrà in questo campo l’unico intervento legislativo, fino alle leggi fasciste degli anni trenta» [Lazzari, 1985, p. 62]. La legge prevedeva che sul territorio nazionale vi fosse una biblioteca pubblica presso ogni scuola, ma rimase inattuata nella pratica.

Durante il periodo fascista la ‘politica del consenso’ e la fascistizzazione degli enti pubblici toccarono anche per le biblioteche. La principale associazione nazionale, la Federazione per le biblioteche popolari, fu epurata degli elementi estranei all’ideologia del regime, mentre i contenuti delle collezioni furono posti sotto il controllo della censura. Se da un lato vi fu un impoverimento nei contenuti delle biblioteche, dall’altro vi fu un accrescimento del loro numero e di quello degli organi statali preposti all’organizzazione delle stesse. Alcuni di questi furono la Direzione generale delle accademie e biblioteche, in seno al Ministero dell’istruzione pubblica, fondata nel 1926; l’Associazione italiana biblioteche, nata nel 1930 su iniziativa dei bibliotecari, e, fondato nel 1932, l’Ente nazionale per le biblioteche popolari e scolastiche (E.N.B.P.S.) il cui scopo avrebbe dovuto essere quello della promozione della lettura tra le classi popolari. I primi due sono attivi ancora oggi, mentre il terzo non più. Per quanto concerne la legislazione, è del 1941 un’altra legge che, a livello nazionale, istituiva l’obbligatorietà di una biblioteca pubblica per ogni capoluogo di provincia, ma a sua volta parzialmente disattesa.

L’intento generale perseguito dal regime rimase quello dell’istruzione popolare, ma nell’ottica fascista: alla censura andò a sommarsi l’arricchimento delle collezioni con opere afferenti la cultura dominante.

Durante i primi decenni del secondo dopoguerra vi fu un’altra serie di iniziative orientate alla promozione della cultura entro i ceti popolari, ma come nei casi precedenti sembra che non furono ben coordinate, razionali e, dunque, particolarmente efficaci44.

Esperienza più positiva fu quella del Sevizio nazionale di lettura. L’organo operò tra i primi anni ’50 e il 1977, quando le sue funzioni furono delegate alle regioni. L’importanza del

44 Basti guardare – come riporta Lazzari – le biblioteche del contadino, i centri di lettura, biblioteche di villaggio, le biblioteche del ‘piano L’. La loro inefficacia va di pari passo con lo spreco di risorse pubbliche che, ribadisce Busetto (Schema di progetto per l’organizzazione di un sistema

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Servizio è stata quella del «inserimento dell’aspetto bibliotecario tra i problemi della gestione pubblica del territorio e in particolare delle strutture culturali su di esso operanti» [Traniello, 2014, p. 146]. A questa esperienza ne va aggiunta un’altra piuttosto interessante – sebbene numericamente esigua – che ebbe luogo nel corso della seconda metà degli anni ‘60: si tratta dei Centri di servizi comunitari, ossia luoghi di incontro per i cittadini organizzati attorno a delle biblioteche e adibiti alla promozione di attività culturali. Questa dev’essere inquadrata negli interventi statali per lo sviluppo sociale ed economico per il Mezzogiorno, ma potrebbe sembrare una biblioteca 2.0 ante litteram per gli obiettivi prefissati.

La svolta arrivò, come precedentemente accennato, solo a partire dagli anni ’70 quando fu attuata la costituzione degli enti regionali. A essi fu devoluto l’intero spettro di competenze amministrative e normative sulle biblioteche di ente locale nel 1977 con il d.p.r. 616. In questo periodo la diffusione di biblioteche di ente locale ebbe conobbe un’accelerazione ulteriore dopo il pur comunque ottimo decennio precedente, sia dal punto di vista quantitativo che dal punto di vista qualitativo [Traniello, 2014, p. 148-149].

Tutto ciò avvenne parallelamente ad un cambiamento nel paradigma ideologico alla base delle biblioteche: se almeno fino alla fine degli anni ’50 vi fu una sostanziale continuità d’intenti soggiacenti all’istituto (istruzione popolare), a partire dagli anni ’60 incominciò ad affermarsi sempre più l’idea di public library anglo-americana come biblioteca aperta e rivolta a tutti

volta quindi a soddisfare nella misura più larga possibile le esigenze dei singoli. Ciò sul presupposto che la democrazia consista essenzialmente nel fornire a tutti i cittadini uguali possibilità in tutti i campi, quindi anche in quello culturale, possibilità che spetterà poi agli stessi individui far fruttare come meglio avranno saputo (teoria delle «pari opportunità»). [Traniello, 2014, p. 144]

Le forze e le disponibilità finanziarie diventarono sufficienti - affinché vi fosse una tale evoluzione in senso statistico ed ideologico - solo a partire dallo sviluppo economico e sociale che ebbe luogo durante il secondo dopoguerra. La public library è espressione, infatti, di una società industrializzata in cui esiste parallelamente un’organizzazione amministrativa sufficientemente decentrata [Traniello, 2005]. Questo contribuisce a spiegare in parte i ritardi italiani e, allo stesso tempo, il fatto che il fenomeno a ‘marea’ coincida con le tempistiche dello sviluppo industriale del paese.

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