[ ] agente precipitante
3. Diffrazione di raggi X
3.2. Luce di sincrotrone
Questa sorgente non convenzionale viene comunemente preferita a quella sopra descritta per le caratteristiche di maggior potenza e versatilità; Le sue caratteristiche principali sono il maggior flusso di radiazione e la maggior intensità di radiazione collimata, che si traducono in maggior brillanza e nella possibilità di selezionare la lunghezza d’onda del fascio incidente.
Il ricorso alla luce di sincrotrone si addice particolarmente alla risoluzione di strutture proteiche a causa delle peculiari caratteristiche di questo tipo di cristalli. Il fenomeno della diffrazione è influenzato da numerosi fattori: intensità della radiazione utilizzata, presenza di disordine strutturale sia statico che dinamico, volume del cristallo e della cella elementare e fattori di scattering degli atomi. I cristalli di proteine, rispetto a cristalli di piccole dimensioni, si caratterizzano proprio per la accentuata, povertà di diffrazione; essa è causata dalla presenza praticamente esclusiva di elementi con pochi elettroni e numero atomico basso (C,H,O,N), associata con le elevate dimensioni della cella elementare e con il relativamente elevato disordine strutturale. Quest’ultimo è causato anche dalla presenza di solvente (si possono raggiungere valori fino al 75% del volume) disordinato all'interno del cristallo. La povertà di diffrazione, in virtù della legge di Bragg, si traduce in un abbassamento del limite massimo di risoluzione; infatti l’angolo massimo di diffrazione (ϑmax) è inversamente proporzionale alla spaziatura minima (dmin) dei piani cristallini, che è chiamata risoluzione
max min sin 2⋅ λϑ = d
La bassa risoluzione penalizza i dettagli strutturali dalle mappe di densità elettronica: disponendo di dati con valore attorno a 6Å, si riesce a intravedere la struttura della proteina in modo approssimativo. Ad esempio per una proteina globulare a questa risoluzione si riesce solo a individuare la presenza di α-eliche. La catena polipeptidica in questo caso può essere tracciata con molta difficoltà. A 3Å di risoluzione molte delle catene laterali cominciano ad essere visibili nelle mappe, ma non possono ancora essere identificate con sicurezza. Soltanto in presenza di dati di diffrazione con risoluzione fino a 2Å è possibile identificare non solo la struttura della catena principale, ma anche riconoscere i residui delle catene laterali. A questo livello di risoluzione possono essere localizzate anche molte molecole d’acqua che appaiono come picchi quasi sferici. Per valori più alti di risoluzione si raggiunge un’accuratezza strutturale di livello atomico. Di conseguenza, per descrivere in dettaglio il ripiegamento delle catene polipeptidiche, per osservare i dettagli molecolari, come la disposizione di leganti nel sito catalitico, e per descriverne accuratamente le interazioni con i residui proteici o con le molecole di solvente, sono necessari dati con una risoluzione migliore di 2Å. L’elevata brillanza (figura 8), caratterizzata da una alta intensità e collimazione della radiazione di sincrotrone, consentono di ottenere dati di diffrazione a più alta risoluzione rispetto alle sorgenti convenzionali.
Un grosso vantaggio inoltre, nell’utilizzo di luce di sincrotrone, è rappresentato dalla possibilità di selezionare un valore ben preciso della lunghezza d’onda della radiazione X. Come noto per risolvere il problema della fase molti esperimenti di diffrazione (MAD, SAD, MIR, SIRAS, etc.) richiedono l’utilizzo di un ben preciso valore della lunghezza d’onda della
radiazione incidente prossimo allo spigolo di assorbimento di un qualche atomo presente nel cristallo. E’ da evidenziare che utilizzando sorgenti di raggi-X molto brillanti, il flusso di fotoni può essere così elevato da causare un danneggiamento del cristallo e un progressivo indebolimento del segnale di diffrazione durante la raccolta dati, a partire proprio dai dati a più alta risoluzione (il tempo di vita di un cristallo di proteina esposto a luce di sincrotrone può essere nell’ordine dei secondi). In questo caso si rende necessario l'abbassamento della temperatura del cristallo per diminuire gli effetti di danneggiamento del cristallo dovuti all’esposizione ai raggi-X. Questo permette sia di ridurre la degradazione del campione da parte della radiazione X incidente, che la diminuzione dei moti termici degli atomi nel cristallo (disordine dinamico), permettendo così di raggiungere un ancor migliore limite di risoluzione dei dati di diffrazione. Questa operazione viene effettuata generalmente anche quando vengono usate le sorgenti convenzionali in particolare quando i campioni analizzati sono macromolecole.
a b
b c
a
Figura 8. a. Grafico dello spettro di brillanza espresso come intensità della radiazione in funzione dell’energia derivante dai fotoni emessi (eV). b. Fotografie dell'apparato sperimentale della linea di diffrazione di raggi X installata presso il laboratorio Sincrotrone Elettra. Gli ingrandimenti (b, c) illustrano il collimatore da cui esce il fascio incidente, l'alloggiamento del campione sulla testina goniometrica, il beam stopper il sistema criogenico con flusso di azoto a 100 K e il detector Mar-CCD.
3.3. Crioprotezione
Negli esperimenti di diffrazione da raggi X, l’uso di cristalli raffreddati a bassa temperatura (crio-cristallografia) permette di ottenere dati a più alta risoluzione, grazie al “congelamento” dei moti termici degli atomi. Il danneggiamento operato dal fascio di raggi X, in sede di raccolta dati, risulta particolarmente accentuato su cristalli di tipo proteico.
Essi, costituiti per il 40-50% del loro volume dal solvente acquoso, sono sensibilmente esposti alle reazioni radicaliche scatenate dalla radiolisi delle molecole d'acqua.
La soluzione adottata è quella di congelare il cristallo a temperature molto basse che possono però causare la formazione di ghiaccio che si origina dal solvente contenuto nei canali interstiziali del cristallo (Garman E.F. 1997) con serie ripercussioni sullo stesso, quali variazioni delle dimensioni di cella con stress meccanici che si riflettono in un aumento della mosaicità. La transizione del solvente liquido in forma microcristallina origina, infatti, un caratteristico spettro di polvere ad anelli circolari che si sovrappone a quello del cristallo singolo e che causa difficoltà nella riduzione dei dati di diffrazione. La tecnica impiegata è dunque quella del flashcooling: un flusso di azoto freddo (cryostream), di solito alla temperatura di 100 K, viene convogliato direttamente sul cristallo, in presenza di un crioprotettore; avviene così una transizione di fase dell'acqua contenuta nel cristallo verso uno stato amorfo vetroso. Il solvente crioprotettore, generalmente un alcool come il glicerolo, interrompe il network di legami a idrogeno inibendo la formazione di ghiaccio. Per limitare effetti di shock osmotici, la soluzione crioprotettrice viene preparata a partire dal reservoir da cui si è ottenuto il cristallo, a cui viene aggiunto il crioprotettore.
Dopo aver raccolto il cristallo dalla goccia in cui si è formato mediante un loop (filo di nylon dalle dimensioni leggermente superiori a quelle del cristallo) (figura 9), si passa velocemente quest'ultimo in una goccia della soluzione crioprotettrice. Rapidamente si monta il loop sulla testina goniometrica e lo si investe istantaneamente con il flusso d'azoto. È opportuno testare il crioprotettore, prima di utilizzare i cristalli, controllando che la soluzione crioprotettrice nel loop si conservi limpida dopo il congelamento ed effettuando una immagine di diffrazione.
Figura 9. Cristallo crioprotetto e montato su un loop.