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Ludovico Gimignani e Gian Giacomo Reyff

Copia Autore Cristiano Giomett

44. Ludovico Gimignani e Gian Giacomo Reyff

(Roma 1643 – Zagarolo 1697; Friburgo 1627 - Roma 1700)

Modello di cembalo

1665 ca.

terracotta dorata; cm 30 x 100 x 30 Inv. 10373; 1949; Collezione Gorga; in deposito presso il Museo degli Strumenti Musicali di Roma

Restauri: 2005-2006, Davide Fodaro La Galleria armonica è stata per lungo tempo una delle attrazioni più celebri della Roma del Seicento ed ha richiamto schiere di visitatori per la bizzarria della sua inven- zione. Il suo ideatore, il musicista Michele Todini (1616-1690), originario di Saluzzo ma a Roma già dal 1636, aveva allestito nella sua casa a via dell’Arco della Ciambella una mirabolante wunderkammer costituita da “macchine” armoniche e matematiche da lui stesso ideate. Guardiano degli strumen- tisti della Congregazione di Santa Cecilia (1650-1652) e successivamente decano dei

Musici di Campidoglio (1676-1684), To- dini dette inizio ai lavori della Galleria nel 1650 e, per portare a compimento il suo progetto, contrasse numerosi debiti che, nel 1677, ammontavano alla astronomica cifra di 9098 scudi e 90 baiocchi. Grazie ad un dettagliato resoconto del disegno e del fun- zionamento di quei complicati congegni, re- datto dal maestro e dato alle stampe a Roma (Dichiaratione della Galleria armonica, 1676), siamo in grado di ricostruirne visi- vamente l’aspetto. La cosiddetta “macchina maggiore” era costituita da ben sette stru- menti (clavicembalo, organo, tre diversi tipi di spinetta, violino, lira ad arco) che pote- vano essere azionati contemporaneamente, o in varie combinazioni, attraverso un’unica tastiera; pur non essendo ben chiara la loro disposizione all’interno dell’ambiente, sap- piamo che l’allestimento comprendeva anche una decorazione pittorica eseguita da Gaspar Dughet. Altrettanto ricca era la composizione della “macchina di Polifemo e Galatea”, di cui si conserva ancora il cem- balo – il cosiddetto “Golden Hapsicord” – entrato a far parte delle raccolte del Metro- politan Museum di New York nel 1902. Po- lifemo, assiso su una montagna, suona una sorta di cornamusa (la “soredellina”) per at- trarre l’attenzione di Galatea, e al contempo una teoria di tritoni e nereidi trasportano il cembalo, annunciati da Cupido seduto su una conchiglia portata da un delfino. Gli elementi figurali, tutti dorati, si completano con i rilievi rappresentanti il Trionfo di Ga-

latea, mentre alcune tele con scene marine,

sempre di Gaspar Dughet, sono andate per- dute. Le componenti scultoree furono ese- guite nel 1665 dal noto intagliatore di origine svizzera Gian Giacomo Reyff (ASR,

30 Notai Capitolini, uff. 2, vol. 255, in Bar-

bieri 2002), impegnato in quegli anni per i

più importanti committenti romani, dalla principessa Olimpia Aldobrandini ai cardi- nali Girolamo Farnese e Antonio Barberini. L’invenzione compositiva è invece stata at- tribuita a Ludovico Gimignani, pittore di forte impronta berniniana e attivo per la cer- chia dei Rospigliosi; il suo lavoro nel campo dei progetti scultorei è noto per l’ideazione del monumento al cardinale Agostino Favo-

riti, scolpito poi da Filippo Carcani ed eretto

in Santa Maria Maggiore, il cui bozzetto è conservato al Museo del Palazzo di Venezia (v. scheda n. 67). La critica è concorde nel- l’assegnare proprio a Gimignani l’esecuzione del bel modello in terracotta dorata del cla- vicordo per Todini, già nella collezione di Evangelista Gorga e ora in deposito presso il Museo degli Strumenti Musicali. L’opera, montata su una base in legno nero, non pre- senta grosse variazioni rispetto alla “mac- china” oggi a New York e nel complesso anche le condizioni conservative sono buone, se si esclude la perdita delle dita di alcuni personaggi e del drappo svolazzante intorno al corpo di Galatea. La qualità scultorea e la plasticità delle figure rivela l’intervento di un esperto plasticatore, ca- pace di declinare con sapienza anche le di- verse modalità espressive, come si legge nel volto estatico di Galatea o nello sguardo concentrato di Polifemo, intento a suonare

la “sordella”. Se una certa assonanza stili- stica con la produzione grafica di Gimi- gnani è piuttosto evidente – soprattutto con i numerosi disegni accademici di nudo conservati all’Istituto Nazionale per la Gra- fica –, risulta di contro più problematico attribuire al pittore anche la realizzazione del modello in esame, dal momento che niente si conosce della produzione sculto- rea dell’artista. Pare dunque plausibile, come per il Monumento Favoriti, che Gi- mignani abbia fatto ricorso ad uno scultore esperto, e dunque si può supporre che abbia affidato la traduzione plastica della sua idea proprio allo stesso Reyff, intaglia- tore di indubbio talento.

Bibliografia Pollens 1990, p. 33; Barberini 1991, p. 19; Cervelli 1994, pp. 304-305; Hammond 1999, pp. 203-204; Barbieri 2002, pp. 571-577; Barbieri 2006, pp. 304-305. 45. Ercola Ferrata

(Pellio Intelvi 1610 – Roma 1686)

Allegoria della Fede con il ritratto del cardi- nale Lelio Falconieri

1665-1666

terracotta; cm 52 x 44,5 x 32,5

Inv. GNAA 2556; Collezione Fassini; 1972, Acquisto Heim Gallery, Londra

A partire dal 1665, la cappella Falconieri, nella tribuna della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, divenne il luogo di incon- tro e di confronto per i tre più importanti scultori della generazione successiva a quella di Bernini ed Algardi. Sotto la dire- zione di Borromini, Antonio Raggi scol- piva, in uno stile dichiaratamente berniniano, il Battesimo di Cristo per la nic- chia dell’altare maggiore, mentre a Dome- nico Guidi fu affidata l’allegoria della Carità per il sepolcro di Orazio Falconieri e

Ottavia Sacchetti per la nicchia di destra.

Di fronte, Ercole Ferrata, forse da un’idea del maltese Melchiorre Cafà, eseguiva la fi- gura della Fede per il monumento del cardi-

nale Lelio Falconieri, creando uno dei suoi

massimi capolavori.

Nel 1664 in previsione della morte, il com- mittente Orazio Falconieri passò le redini del cantiere nelle mani del figlio ed erede Paolo Francesco che si dedicò con impe- gno a dare una rapida conclusione alla cap- pella, a cominciare dalla scelta degli scultori per il gruppo dell’altare maggiore e dei monumenti funebri. Restando ferma la volontà di non utilizzare le statue in prece- denza scolpite per quella sede da Francesco Mochi (oggi al Museo di Roma), Paolo Francesco commissionò un secondo gruppo del Battesimo ad Antonio Raggi,

che firmò il contratto di allogagione il 19 marzo del 1665 per un compenso di 2300 scudi. Il 29 dicembre dello stesso anno fu redatta la “polizza” di Domenico Guidi per l’esecuzione della figura della Carità desti- nata al sepolcro di Orazio e della moglie Ottavia Sacchetti; è plausibile che proprio in quei giorni anche Ercole Ferrata stipu- lasse il medesimo accordo con Falconieri, anche se il documento riferito alla sua Fede non è mai stato rintracciato nelle carte del- l’Archivio della famiglia a Carpegna. In linea generale, il contratto di Guidi, e dun- que di Ferrata, non differisce molto da quello di Antonio Raggi. I maestri si im- pegnavano ad eseguire i due modelli, “in piccolo a’ sodisfattione del detto Signor Paulo francesco, e poi farne un’altro […] in grande, come ha’ da essere la detta opera di marmo […]”; la consegna della scultura “Lavorata, Lustrata con tutta l’isquisitezza, e diligenza” era prevista entro la fine del 1667. Nella cifra complessiva di 800 scudi non era incluso l’acquisto del marmo, a ca- rico degli artisti, mentre il trasporto dalle rispettive botteghe alla chiesa dei Fioren- tini spettava a Falconieri. Il lavoro si pro- trasse un po’ più a lungo del previsto e solo il 26 marzo del 1669 il capomastro Anto- nio Fontana annotava nei suoi conti di “haver preso allo studio del Signor Ercole ferrata la Statua rappresentante la Fede che và alla suddetta Nicchia […] condotta alla Chiesa tirata sù, e messa in opera”. Pari- menti, riferiva di aver collocato anche “l’al- tro Deposito incontro il suddetto con Colonne simile basamento, piedistalli Sta- tue, et Arme” (AFC, Luoghi Pii, I, S. Gio-

vanni dei Fiorentini Chiesa, ed Ospizio in Roma ed in Napoli. Dal 1519 al 1842,

f.n.n, è segnalato in Salerno – Spezzaferro – Tafuri 1973, p. 247).

Sulla base dell’inventario post mortem di Ferrata redatto nel 1686 apprendiamo che nel suo studio di via delle Carceri Nuove erano conservati tre modelli per la figura della Fede, due dei quali autografi mentre il terzo registrato sotto il nome di Mel- chiorre Cafà, allievo e collaboratore del maestro prematuramente scomparso nel 1667 (Golzio 1935, pp 67, 73). Attual- mente sono noti ben 6 esemplari in terra- cotta di quest’opera che, con alcuni scarti qualitativi e stilistici, testimoniano le di- verse fasi dell’evoluzione di tale composi- zione. Tra le primissime idee tradotte nella creta si deve collocare il bozzetto oggi al Fitzwilliam Museum di Cambridge (h. cm 36,3, inv. M.6-1988) che differisce in maggior grado dalla versione marmorea per la posizione delle gambe con la parti- colare sporgenza della sinistra in luogo della destra. La freschezza del modellato suggerisce la fase iniziale della sperimenta-

zione, mentre l’alta qualità esecutiva ha fatto cautamente ipotizzare che la statuetta possa essere stata eseguita da Cafà, come ricordato nel già citato inventario del 1686 (Montagu 2006). Ancora ad uno stadio iniziale pertiene l’esemplare acquistato nel 1960 dal Toledo Museum of Art (h. cm 37,7, inv. 60.4) e ritenuto autografo da Olga Raggio (Art in Italy... 1965, cat. 46). Seguono altri tre modelli di una fase che potremmo definire intermedia: tra questi spicca per qualità e finitezza d’esecuzione proprio quello conservato a Palazzo Vene- zia (h. cm 52), mentre meno felici e forse da ritenere repliche di bottega sono le ter- recotte del soppresso Museo Artistico In- dustriale di Roma, ora in deposito presso la Galleria Nazionale di Arte Antica di Pa- lazzo Barberini (Brugnoli 1960, pp. 339- 345), e quella in collezione privata (h. cm 45), pubblicata da Fagiolo dell’Arco (1996). Infine, il modello del Museum für Kunst und Gewerbe di Amburgo (h. cm 40, inv. 1969.143), ritenuto concorde- mente autografo di Ferrata, rappresenta la versione definitiva poi tradotta in grande, soprattutto per la riproposizione fedele della posa delle figure e delle evoluzioni del panneggio.

La statuetta conservata a Palazzo Venezia potrebbe dunque rappresentare il modello in piccolo mostrato da Ferrata a Paolo Francesco Falconieri per ottenere l’appro- vazione definitiva e dare inizio ai lavori. La

Fede, che adesso ha perduto la mano destra

con la quale teneva il calice, presenta infatti una superficie levigata e rifinita nei detta- gli, così come ben caratterizzato è anche il ritratto di profilo di Lelio Falconieri entro il medaglione sorretto dall’angelo. “L’espressione estatica e vagamente senti- mentale” della figura allegorica, così come “il panneggio risolto in forma accademica” (Barberini 1991) sono caratteristiche pe- culiari dello stile maturo di Ferrata e con- corrono, una volta di più, a confermare l’attribuzione.

Bibliografia

Venturi 1931; Faldi 1972, pp. 38-39; Bar- berini 1991, pp. 53-54; Barberini 1994, p. 128; Bacchi 1996, p. 803; Fagiolo del- l’Arco 1996, pp. 27-30; Ferrari – Papaldo 1999, pp. 133-134, 506; Montagu 2006, pp. 68-71, 245.