• Non ci sono risultati.

Copia Autore Cristiano Giomett

10. Scultore attivo a Roma

San Matteo e l’angelo

inizio XVII secolo

terracotta; cm 40 x 24,5 x 20,5

Inv. 10401; 1952, Donazione Nicod Sus- smann

La scultura è entrata a far parte delle colle- zioni del Museo di Palazzo Venezia nel 1952 a seguito della donazione di Marga- ret Nicod Sussman in memoria del co- gnato, l’archeologo Ludwig Pollak. Lo stato di conservazione non è eccellente a causa dell’umidità sofferta durante il rico- vero nel corso della Seconda guerra mon- diale che ne ha provocato lo sfaldamento degli strati superficiali di materia; si segna- lano inoltre la perdita di entrambe le mani del santo e un certo appiattimento dei tratti del volto di entrambe le figure. Mat- teo è assiso con le gambe scalate e tiene sulla sinistra il libro con l’aiuto dell’angelo, stante al suo fianco; il santo è in atto di scrivere e volge di scatto la testa verso de- stra, colto da improvvisa illuminazione. La parte tergale presenta un’ampia fessura che ha consentito lo svuotamento dell’interno e la superficie liscia, con le pieghe del manto dell’evangelista appena accennate, denota la futura collocazione entro una nicchia o a ridosso di una parete.

La prima indagine critica dell’opera si deve a Valentino Martinelli (1951) che ne evi- denziò la stretta relazione con la scultura in travertino di analogo tema realizzata nel 1608 da Francesco Mochi (1580-1654) per una nicchia all’esterno della cappella Paolina in Santa Maria Maggiore. Lo studioso met- teva in risalto la grande qualità del model- lato, per “la vigoria del serrato, sonoro contrappunto di pieni e dei vuoti, dei vo- lumi luminosi in alterno gioco con i pro- fondi canali d’ombra, addensata nelle

continue fossature delle pieghe”; inoltre “la ruvida grossezza dei panni, la testa squadrata e il braccio forte di popolano” rappresenta- vano il chiaro sintomo che “l’eco dello scan- dalo del san Matteo di Caravaggio per la Contarelli non era ancora spento”. Santan- gelo (1954), pur riconoscendo una certa af- finità con l’opera di Mochi così come con il

Sant’Atanasio di Nicolas Cordier (1567-

1612) sempre in Santa Maria Maggiore, ri- fiutò l’attribuzione ravvisandovi piuttosto i modi giovanili di Stefano Maderno (1570- 1636). Il curatore non si sbilanciò per una attribuzione definitiva, assegnandone la pa- ternità ad uno dei “maestri comacini e lom- bardi operanti a Roma ai primi del Seicento, difficilmente individuabile anche a causa delle interferenze reciproche nei rapporti di lavoro”. Più di recente Barberini (1991) ha condiviso la posizione di Santangelo, rile- vando le notevoli differenze compositive tra la traduzione definitiva e il bozzetto in esame, che definisce “di fattura povera” e privo di quell’impeto e del movimento ti- pico delle figure di Mochi. Infine Favero (2008), nella monografia dedicata all’artista, inserisce la terracotta tra le opere attribuite e, sebbene non esprima esplicitamente il suo pensiero, lascia intendere un’opinione nega- tiva alla paternità di Mochi.

Si deve concordare con Santangelo e Barbe- rini sull’estraneità dell’opera rispetto ai modi di Mochi, le cui figure hanno corpi allun- gati e sempre in movimento, quasi contorti da una forza interiore che si riverbera anche nelle vesti e nei mantelli, solcati da ampie pieghe concentriche, ben esemplate nella

Santa Veronica della basilica Vaticana (1629-

1632), o nello stesso San Matteo della libe- riana. Pare assai più pertinente riportare l’attenzione sul nome di Stefano Maderno autore di numerosi gruppi in terracotta, copie dall’antico e creazioni originali. Tra queste, già Santangelo aveva ricordato il ri- lievo con il Cristo sorretto da Nicodemo del 1605, oggi allo Staatliche Museen di Ber- lino (inv. 2326), cui si può associare anche la statuetta di analogo tema dell’Hermitage di San Pietroburgo (inv. 560). In entrambe le sculture, il volto di Nicodemo, dalla barba folta e dall’espressione accigliata, mostra una stretta relazione con il San Matteo di Palazzo Venezia ed anche la composizione generale, animata ma non febbrile, ben si conforma ai modi pacati di Maderno. Nel nostro caso, si potrebbe dunque parlare di un modello for- temente influenzato dalla plastica mader- niana e forse creato all’interno della sua stessa bottega.

Bibliografia

Martinelli 1951, p. 228; Santangelo 1954, pp. 84-85; Barberini 1991, p. 31; Ferrari – Papaldo, p. 510; Favero 2008, p. 105.

11. Scultore attivo a Roma

Testa del cosiddetto Seneca (da Guido Reni)

prima metà XVII secolo terracotta; cm 48,5 x 35 x 23

Inv. 10588; 1770 ca., Collezione Cava- ceppi; 1800, Collezione Torlonia; 1958, Collezione Ravajoli

Tra le numerosissime terrecotte apparte- nute allo scultore Bartolomeo Cavaceppi figurava anche una “bella testa di vecchio che guarda in sù” (BAV, Ferrajoli mss. 974, 16). A seguito dell’acquisito, insieme all’intera raccolta, da parte del marchese Giovanni Torlonia, dell’opera si sono poi perse le tracce fino alla sua ricomparsa nel 1958 quando fu acquisita dallo Stato Ita- liano e destinata al Museo di Palazzo Ve- nezia. A quella data la composizione era ben nota alla critica ed identificata con la

Testa di Seneca citata da Carlo Cesare Mal-

vasia nelle pagine della Felsina pittrice de- dicate a Guido Reni. Tracciando una carrellata della produzione plastica del fa- moso pittore, lo storiografo sottolineava come, anche in quella pratica, Reni si fosse distinto per la sua abilità. “Fece di rilievo e se ne diportò bene – scrive Malvasia (ed. 1841) –, come dalla famosa testa detta del Seneca che cammina per tutte le scuole e che cavò da uno schiavo in Roma che trovò a Ripa, modelleggiando in quella guisa”. Reni dunque, nella città dei papi in diversi momenti tra il 1601 e il 1614, rea- lizzò l’opera osservando dal vero uno schiavo, uno studio dal naturale secondo la tradizione dell’accademia dei Carracci presso la quale l’esercizio della scultura era ritenuto di estrema importanza formativa.

Inoltre, dal verbo utilizzato da Malvasia – “modelleggiare” – si inferisce che Guido debba aver plasmato quella testa, presu- mibilmente in terracotta, per poi riutiliz- zarne il sembiante in alcune delle sue composizioni pittoriche successive: la stessa fisionomia di vecchio si riconosce, ad esempio, in uno dei sacerdoti della Cir-

concisione nella chiesa di San Martino a

Siena (1636), e ancora nel pastore ingi- nocchiato dell’Adorazione della National Gallery di Londra (1640 ca.). Tuttavia, quel modello “ideale” di Seneca si diffuse ben presto tra gli artisti di Roma, e quindi d’Europa, e ad oggi sono state individuate numerose derivazioni e repliche in diversi materiali. La prima ad essere riconosciuta, e quindi ricondotta al racconto di Malva- sia, fu la versione in gesso conservata al- l’Accademia Clementina di Bologna e pubblicata da Francesco Malaguzzi Valeri nel 1926; soltanto qualche anno più tardi, Otto Kurz (1942) ha incrementato questa galleria con il busto in bronzo del Museo Arqueologico Nacional di Madrid, quello in stucco della biblioteca del palazzo del Lichtenstein a Vienna, uno in pietra col- locato sulla facciata del palazzo della Le- gion d’Onore a Parigi, oltre che ad alcuni fogli della collezione Certani di Bologna (oggi alla Fondazione Giorgio Cini di Ve- nezia, invv. 36128; 31162; 31177) e alla Royal Library di Windsor (inv. 3200). Ancor più di recente si sono poi aggiunti alla lista il dipinto alla Galleria Spada, at- tribuito da Federico Zeri (1954) a Eber- hard Keyl (1624-1687), i bronzi dell’Art Museum di Princeton e della collezione di Franco Maria Ricci a Milano e, natural- mente, la terracotta di Palazzo Venezia. L’opera si distingue per il taglio del busto all’altezza delle clavicole che enfatizza lo sforzo del vecchio, con lo sguardo rivolto verso l’alto, la bocca semiaperta e i nervi del collo ben tesi. Un modellato forte- mente pittorico caratterizza inoltre la resa dell’epidermide, solcata da numerose e profonde rughe che, soprattutto sulla nuca, si moltiplicano ammonticchiandosi l’una sull’altra. Reni conferma la sua particolare predilezione e abilità nel ritrarre “quelle forme che sono proprie della beltà matura”, come ricordava Bellori (1672 [1976]), poi- ché la bellezza secondo il pittore riguardava “non meno l’arie delle donne e giovini belle, che quelle de’ vecchi”. La qualità della terracotta in esame e senza dubbio notevole, seppur con qualche lieve cedi- mento nella modellazione delle orecchie; nonostante ciò, la mancanza di evidenze documentarie e l’ancora esiguo corpus di opere plastiche riferibili con certezza all’ar- tista non consentono una sicura attribu- zione del pezzo che potrebbe parimenti

Copia Autore Cristiano Giometti

essere una derivazione dal modello reniano eseguita da uno scultore romano entro la prima metà del XVII secolo.

Bibliografia

Malvasia (ed. 1841), II, p. 59; Malaguzzi Valeri 1926, pp. 227-230; Kurtz 1942, pp. 222-226; Zeri 1954, p. 90; Santangelo 1958, pp. 378-379; Barberini 1994, p. 134; Bacchi 2004, pp. 51-53; Vigliarolo 2009, p. 84. 12. Alessandro Algardi (Bologna 1598 – Roma 1654)

Santi e beati della compagnia di Gesù

1629

terracotta ricoperta con foglia d’oro; cm 29 x 51

Inv. 10395; 1770 ca., Collezione Cava- ceppi; 1791, Collezione del gesuita padre Thorpe; 1949, Collezione Gorga

Restauri: 2010, Davide Fodaro, Livia Sforzini Il 2 gennaio del 1629 i fonditori Angelo Pellegrini e Francuccio Francucci si impe- gnavano con il padre gesuita Orazio Grassi a realizzare un’urna che avrebbe accolto le spoglie di Sant’Ignazio di Loyola nella chiesa della Compagnia a Roma. I due ar- tigiani si dovevano attenere ai modelli for- niti da padre Grassi; sebbene i documenti non ne facciano esplicita menzione, appare chiaro che, almeno per il rilievo centrale, l’autore dell’idea fu Alessandro Algardi. Il maestro bolognese studiò la composizione in un disegno oggi all’Hermitage e nella terracotta dorata del Museo di Palazzo Ve- nezia, eseguiti plausibilmente entrambi entro il 1629; tuttavia, nonostante i lavori di gettatura fossero eseguiti nell’imme- diato, per la traslazione delle ceneri del

santo si dovette attendere il 23 luglio del 1637. Dopo un lungo periodo di oblio, il piccolo rilievo algardiano ricomparve nella collezione dello scultore e restauratore Bar- tolomeo Cavaceppi: all’incirca verso il 1770, nel suo studio è infatti ricordato un “bassorilievo rappresentante S. Ignazio e compagni opera della Schola dell’Algardi” (BAV, Ferrajoli mss. 974, 16). È assai pro- babile che, qualche tempo dopo, Cava- ceppi abbia venduto il pezzo al gesuita inglese padre Thorpe che, nel suo testa- mento redatto a Roma il 10 ottobre del 1791, lasciava all’ordine “the gilded terra cotta model of the basrelief of the saints of the Society with its frame” (Montagu 1985). Ancora una volta, dopo più di un secolo di silenzio, l’opera ricompare all’ini- zio del Novecento nella raccolta del can- tante lirico Evan Gorga che, dopo varie traversie, nel 1949 confluì al Museo di Pa-

lazzo Venezia. Si segnala inonltre che anche Ercole Ferrata possedeva “due pezzi di creta modelli del paliotto della Chiesa del Gesù”; tuttavia, la genericità della descrizione, tratta dall’inventario del suo studio del 1686 (Golzio 1935, p. 70), non permette l’identificazione certa con l’opera in esame. Il rifacimento dell’altare di Sant’Ignazio su disegno di padre Andrea Pozzo (1642-1709) a partire dal 1695 ha inizialmente influen- zato il giudizio della critica, volta ad indivi- duare l’autore della terracotta in uno dei protagonisti di quella vastissima impresa de- corativa. Galassi Paluzzi (1925) ha riferito il disegno della composizione proprio a Pozzo, mentre Hermanin (1948) ha assegnato al- l’artista gesuita anche l’esecuzione del ri- lievo. Antonino Santangelo, nelle bozze dattiloscritte del catalogo del museo, attri-

buisce correttamente ad Algardi la realizza- zione del rilievo sulla base delle affermazioni di Lione Pascoli; tuttavia, nella versione a stampa (1954), lo studioso riconsidera la sua posizione chiamando in causa Giuseppe Ru- sconi, autore, nel 1735, del paliotto dell’al- tare. Per tale ragione, scrive Santangelo, “è da credere che questi abbia rinnovato anche l’urna del Santo che presenta netti caratteri settecenteschi”. La corretta attribuzione ad Algardi si deve ad Enno Neumann (1977) ed è stata successivamente confermata da Montagu (1985) e Barberini (1991). L’opera rappresenta la prima prova del mae- stro bolognese nel campo del rilievo sculto- reo e la fitta trama di personaggi, che costruisce l’intero spazio della composi- zione, ruota attorno alla figura di San- t’Ignazio in atto di mostrare il libro con le Regole dell’Ordine. Alla sua destra si rico- noscono San Francesco Saverio e, di seguito, Roberto Bellarmino che tiene la mano de- stra sul capo di San Luigi Gonzaga genu- flesso. Dietro di lui, l’ecclesiastico con l’ampio manto e il libro aperto potrebbe es- sere identificato con il beato Pietro Canisio. San Francesco Borgia, canonizzato nel 1671, sta alla sinistra di Sant’Ignazio e mo- stra l’ostensorio al giovane San Stanislao Ko- stka, inginocchiato ai suoi piedi in atto di adorazione. Segue il beato Ignazio de Aze- vedo che indica al suo compagno la tavo- letta che rappresenta l’icona della Vergine di Santa Maria Maggiore. Dietro di loro, si in- travedono il patriarca di Etiopia, Andrea Oviedo, con indosso la mitria e alcuni dei gesuiti martiri in Giappone che sollevano le croci. Rispetto alla versione bronzea, in cui lo spazio è ancora più compresso per un lieve ingrandimento delle figure, si nota l’assenza di due dettagli e cioè del teschio e della corona rispettivamente ai piedi di Francesco Saverio e del Borgia. Tale assenza può essere plausibilmente giustificata con una rottura del pezzo che ne ha compro- messo alcuni brani della sezione inferiore, come rivela un restauro antico che ha rico- struito la terracotta reintegrando anche la parte terminale della tunica di Francesco Saverio. Sono ancora di sostituzione le teste del santo inginocchiato alla sinistra del ri- lievo e del compagno che lo assiste da dietro.

Bibliografia

Galassi Paluzzi 1925, pp. 17-18; Riccoboni 1942, p. 177; Hermanin 1948, p. 280; Santangelo 1954, p. 91; Santangelo 1959, p. 205; Heimbürger Ravalli 1973, pp. 130- 132; Neumann 1977, pp. 318-328; Mon- tagu 1985, pp. 387-389; Barberini 1991, p. 33; Barberini 1994, p. 133; Barberini 1996, pp. 64-65; Barberini 1999, pp. 104- 105; Ferrari – Papaldo 1999, p. 500; Pitti- glio 2009, p. 84; Barberini 2011, p. 262.

Copia Autore Cristiano Giometti