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Copia Autore Cristiano Giomett

41. Melchiorre Cafà

(Vittoriosa, Malta, 1636 - Roma 1667)

Martirio di sant’Eustachio

1659-1660

terracotta; cm 51 x 42

Inv. 10093; 1686, Studio Ferrata; 1770 ca., Collezione Cavaceppi; 1937, Donazione Tomassi

Restauri: 2005, Tony Sigel

Nel 1660, lo scultore maltese Melchiorre Cafà, appena giunto a Roma, fu introdotto nello studio di Ercole Ferrata di cui divenne ben presto l’allievo e il collaboratore più fi- dato. Fu probabilmente grazie all’interces- sione del maestro se, proprio nello stesso anno, Don Camillo Pamphilj lo incaricò di eseguire un bassorilievo con la storia del

Martirio di Sant’Eustachio per il primo altare

a sinistra della chiesa di Sant’Agnese in Agone. Cafà firmò il contratto con il prin- cipe il 16 dicembre impegnandosi a eseguire il lavoro entro due anni a partire dal gennaio del 1661 per la somma complessiva di 1000 scudi (Di Gioia 1984). Per parte sua il com- mittente, che aveva già esaminato ed appro- vato il modello in piccolo, avrebbe sostenuto le spese per la fornitura del marmo, e messo a disposizione dell’artista maestranze e stru- menti necessari allo svolgimento del lavoro. Il maltese si dedicò subito alla realizzazione del modello in grande di stucco che fu poi col-

locato sull’altare della chiesa pamphiliana, ove rimase probabilmente fino al 1668: al- cuni pagamenti dell’Archivio Doria Pamphilj (Garms 1972, p. 166) lasciano supporre che nella primavera del 1661 questo prototipo a grandezza naturale fosse già terminato. Al contrario il lavoro sul marmo procedette con notevole lentezza, per il ritardo nella forni- tura del materiale da Carrara e forse anche a causa di sopravvenute commissioni che al- lontanarono lo scultore dall’impresa; le rice- vute in favore di Cafà ripresero nel luglio del 1665 e continuarono per tutto l’anno suc- cessivo. Il 27 agosto del 1667, l’architetto della fabbrica, Giovanni Maria Baratta, venne incaricato di assicurare altro marmo “che bisogna a Melchiorre per finire il suo la- voro” (Di Gioia 2002a). Il 4 settembre suc- cessivo lo scultore morì improvvisamente lasciando l’opera incompiuta. Si aprì così una lunga vertenza tra Giovanni Battista Pam- philj, succeduto al padre nella direzione della fabbrica, e gli eredi di Cafà, rappresentati a Roma da Marco Antonio Verospi, ricevitore dell’Ordine di Malta. Una prima perizia per la valutazione dell’intero lavoro redatta da Paolo Naldini nel 1668 non fu accolta; solo 19 settembre del 1669, dopo la nomina di Ercole Ferrata per parte della famiglia Pam- philj, e di Cosimo Fancelli designato dagli eredi, si giunse ad un accordo tra le parti (Preimesberger 1973). Dal documento si ap- prende che lo scultore aveva quasi terminato l’esecuzione della figura di Sant’Eustachio e aveva abbozzato altri due blocchi che, se- condo Preimesberger, dovevano corrispon- dere alla figura del figlio inginocchiato. Nel frattempo proprio Ferrata, nel maggio del 1669, si era impegnato a portare a compi- mento il rilievo con l’aiuto del suo collabo- ratore Giovanni Francesco de Rossi per la somma di 800 scudi; secondo Di Gioia (2002), soprattutto l’intervento di quest’ul- timo “reca i segni della fredda e incompleta esecuzione di un modello eccellente da parte di uno scultore irrimediabilmente lontano dal temperamento artistico di Cafà”. L’iter compositivo della pala può essere ri- costruito piuttosto fedelmente attraverso una nutrita serie di materiali a partire pro- prio dal bel modello del Museo di Palazzo Venezia, correttamente assegnato allo scul- tore maltese già nella Guida Generale delle

Mostre Retrospettive in Castel Sant’Angelo del

1911. Si deve trattare di una delle prime idee elaborate da Cafà e forse mostrate al committente, anche se successivamente de- vono essere state apportate alcune varianti viste le differenze con il marmo pamphi- liano. La composizione si snoda attorno alla ispirata figura di Eustachio, il generale ro- mano che venne dato in pasto ai leoni, in- sieme alla moglie e ai figli, dall’imperatore Adriano per essersi rifiutato di sacrificare agli

Copia Autore Cristiano Giometti

dei nel tempio di Apollo; una volta nel- l’arena, le belve tuttavia si dimostrarono mansuete e docili, risparmiando miracolo- samente i quattro sventurati cristiani. Incar- dinato al centro della scena, Eustachio si rifà nella posa al San Longino di Bernini (1628- 1638) e vive l’evento miracoloso in totale comunione con gli uomini, gli animali e la natura che lo circondano. La figura ingi- nocchiata in basso a sinistra e l’angelo che si libra con la palma del martirio in alto a de- stra costituiscono i punti di riferimento della diagonale su cui è intessuta l’intera compo- sizione; la luce dà loro risalto, sfiorando ap- pena altre zone che emergono con sensibilità pittorica dal fondo in un paesaggio che passa dallo stiacciato, al mezzo rilievo, al rilievo pieno. Secondo l’interpretazione, ancora at- tualissima, di Preimesberger (1973) Cafà va al di là delle modalità espressive del suo maestro Ferrata, e adotta “un “sotto in su” illusionistico tipico dei rilievi berniniani. Nell’apparente sregolatezza del modellato, […] si avverte in embrione una nuova con- cezione – che è tardo barocca – del rilievo”. Un recente restauro ha eliminato il pesante strato di vernice acrilica che lo ricopriva, ri- velando la raffinata tecnica del modellato ot- tenuta con l’uso di stecche dentate, cavaterra a sezione ovale e spatole di setola.

La qualità altissima del modello conferma l’interesse dello scultore maltese a saggiare i rapporti tra disegno, pittura e scultura nel duttile medium dell’argilla. Una sperimen- tazione che si ritrova anche in due sezioni frammentarie di studio per la pala ritenute concordemente autografe dalla critica. La prima, per la figura genuflessa nella parte bassa di sinistra, conservata al Museo di Roma, e l’altra, molto compromessa, con il leone che lecca il piede al santo, rinvenuta nel 1989 al Museo Nazionale di Castel San- t’Angelo. Esistono inoltre altri due studi parziali riferibili all’opera e entrambe asse- gnate da Brinckmann (1923) ad Ercole Fer- rata, ma più verosimilmente da considerarsi esercitazioni di bottega su disegni o modelli di Cafà. Uno studio per la figura di Eusta- chio si trova alla Liebieghaus di Francoforte si (inv. 793) e rappresenta il martire con la mano destra sul petto, il mantello svolaz- zante, e alla sua sinistra, in rilievo appena ac- cennato, la moglie in atto di preghiera, in una posizione del tutto simile a quella della pala marmorea. Infine un piccolo rilievo in terracotta al Carnegie Institute of Art di Pittsburgh raffigura il giovane inginocchiato in basso a sinistra, dietro il quale si intrave- dono un leone e la balaustra con gli spetta- tori, in una composizione che si avvicina molto all’impostazione dell’opera finita. La quantità di bozzetti e modelli preparatori eseguiti da Cafà per la pala di Sant’Agnese è testimoniata inoltre dal numero di pezzi ri-

cordati nel dettagliato inventario dello stu- dio di Ferrata, che aveva trattenuto molte opere di piccola plastica del giovane colla- boratore. Oltre a “due bassi rilievi di San- t’Eustachio”, e “un Sant’Eustacchio di creta cotta”, è segnalato anche “un bassorilievo di creta con cornice di legno di Sant’Eustachio del Melchior” (Golzio 1935), pezzo da iden- tificare quasi certamente con la terracotta di Palazzo Venezia. Successivamente l’opera è rintracciabile nella collezione di Bartolomeo Cavaceppi ove è descritta come un “bassori- lievo di S. Eustachio che l’opera stà à Santa Sagnese a Piazza Navona fatta da Melchio Maltese” (BAV, Ferrajoli mss. 974, 16).

Bibliografia

Mostre Retrospettive… 1911, p. 229; Her-

manin 1948, p. 280; Santangelo 1954, p. 83; Preimesberger 1973, pp. 230-235; Di Gioia 1984, pp. 48-67; Di Gioia 1986, pp. 189-195; Contardi 1989, p. 25-33; Barbe- rini 1991, p. 43; Barberini 1994, p. 130; Ferrari – Papaldo 1999, p. 504; Boucher 2001, pp. 214-216; Di Gioia 2006, pp. 56-61; Sigel 2006, pp. 165-172; Montagu 2008b, pp. 84-87; Pittiglio 2009, p. 88.

42. Melchiorre Cafà

(Vittoriosa, Malta, 1636 – Roma 1667)

Studio preparatorio per santa Rosa da Lima

1663-1664

terracotta; cm 14,7 x 26

Inv. 1210; 1920, Castel Sant’Angelo, n. 349

Rosa da Lima, al secolo Isabella Flores, nacque nel 1586 e sin da fanciulla si de- dicò con grande devozione all’esercizio delle virtù cristiane. Entrata come terziaria nel monastero delle Domenicane nel 1606, Rosa intensificò nel tempo le mor- tificazioni fisiche al fine di rivivere sul pro- prio corpo le sofferenze patite da Cristo, e proprio come Cristo era solita indossare una corona d’argento con i chiodi. L’in- tensità di queste pratiche la portarono ad una prematura morte, occorsa alla giovane età di trentuno anni, il 24 agosto del 1617. La fama delle sue visioni e delle miraco- lose guarigioni si diffuse ben presto e Rosa fu oggetto di immediato culto popolare, tanto che, già nel 1625, giunsero a Roma, alla Sacra Congregazione dei Riti, le prime petizioni per la beatificazione. A causa del- l’eccessiva devozione dei fedeli del Perù, il culto venne interdetto ma nel 1663 la causa venne riaperta grazie all’intenso la- voro del domenicano Francesco Gonzales de Acuña e all’interessamento del cardinal Decio Azzolini. Il 12 febbraio del 1668, papa Clemente IX Rospigliosi firmò il de- creto di beatificazione che fu sancito, con solenni cerimonie, il 15 aprile dello stesso anno, mentre il suo successore, Clemente X, proclamò Rosa da Lima protettrice delle Americhe e delle Indie l’11 agosto del 1670. È in questo clima di fervore cele- brativo che nel 1663, in netto anticipo sulla data di beatificazione, venne com- missionata una effigie marmorea della gio-

vane terziaria domenicana allo scultore Melchiorre Cafà ed è assai probabile, come ha proposto Jennifer Montagu (1984), che il promotore dell’impresa sia stato proprio Gonzales de Acuña.

Giunto a Roma dalla nativa Malta nel 1660, Cafà entrò nello studio di Ercole Ferrata ma, come ricorda Lione Pascoli (ed. 1992), “poco ebbe a faticare con lui il maestro; perché era tale, e tanta l’abilità sua, e l’apertura sua di mente, che appena aveva veduta fare una cosa, che così ben l’apprendeva, che avrebbe potuto inse- gnarla agli altri”. La sua fama si consolidò rapidamente se già nel 1660, all’indomani del suo arrivo, firmò il contratto per la pala d’altare con il Martirio di Sant’Eusta-

chio per la chiesa di Sant’Agnese in Agone

(v. scheda n. 41). Dunque i domenicani a lui si rivolsero verso 1663 per l’esecuzione della statua giacente di Rosa da Lima che Cafà portò a termine nel 1665 (Mujica Pi- nella 1995), come dimostra l’iscrizione sul marmo che legge: “Melchior Cafa/ Meli- tensis/ Faciebat/ Romae/ A d.ni/ MDCLXV” (Aneslmi 2006). Terminata in tutte le sue parti prima della partenza dello scultore per Malta nel 1666, l’opera rimase a Roma ancora per alcuni anni e giunse al porto di Callao in Perù solo il 15 giugno del 1670 ove fu temporaneamente esposta nella cappella del Palazzo Reale, per essere infine collocata nella cattedrale di San Domenico a Lima. Una dilazione assai lunga che, secondo Anselmi (2006), potrebbe far pensare ad una possibile ori- ginaria collocazione in una chiesa dome- nicana di Roma, ipotesi plausibile ma ancora da vagliare a livello documentario. L’opera, a grandezza naturale (cm 150x70x80), rappresenta la santa distesa su un giaciglio roccioso lievemente digra- dante; dalla pietra che le fa da cuscino emerge una rosa, mentre un rosario è ab- bandonato a fianco della sua mano destra. L’abito domenicano, percorso da una serie di sottili risvolti, permette di percepire la gracilità delle membra di Rosa, mentre alle sue spalle un angioletto che l’assiste solleva un lembo della manica e del copricapo, la- sciando intravedere la corona di spine. Come ha sottolineato Di Gioia (2002) “al- cuni aspetti compositivi, come gli occhi semiaperti e le labbra dischiuse, sono un preciso riferimento al suo esemplare tra- passo […]: sereno, radioso tra le sofferenze del corpo, con squarci di visioni paradi- siache”. Domenico Leoni, nella Vita dedi- cata alla santa del 1665 (p. 88 v), ricorda che anche dopo il trapasso Rosa “rimase bellissima con gli occhi aperti e non ser- rati e con la bocca mezzo aperta come se stesse ridendo”, quasi in uno stato di estasi. Santa Rosa dunque pare fondere

nella sua immagine di devozione gli esempi di santa Caterina da Siena, so- prattutto come modello dell’imitatio

Christi, e di santa Teresa, per l’esperienza

mistica dell’amore verso Cristo. E Cafà prende a modello compositivo proprio il gruppo di Bernini che rappresenta la tra- sverberazione teresiana nella cappella Cor- naro a Santa Maria della Vittoria (1647-1651), ma da esso se ne discosta per creare una effigie più confacente al modello di santità impersonato da santa Rosa che perde la forza sensuale e vibrante dell’estasi di Teresa in favore di un abban- dono pacato e totale, anche nell’aderenza delicata delle vesti al corpo.

Molto più vicino al prototipo berniniano è invece lo studio preparatorio in terracotta del Museo di Palazzo Venezia, ove la santa è distesa su una sezione di roccia decisamente più inclinata: ancora una volta Cafà attenua la tensione quasi elettrica che pervade santa Teresa per rappresentare il momento in cui il corpo si restituisce lasso alla natura. Nella parte tergale, due gambine appoggiate alla roccia lasciano intendere la presenza dell’an- gelo, figura che è andata perduta o che è stata eliminata dallo scultore stesso in corso d’opera per un pentimento. Anche l’abbas- samento dell’inclinazione tra il modello e l’opera finita può forse essere spiegato in ra- gione della collocazione finale del marmo, sotto un altare – come, ad esempio, la Santa

Cecilia di Stefano Maderno nell’omonima

chiesa di Trastevere –; la netta verticalità della prima idea ne avrebbe forse compro- messo l’inserimento. Tuttavia, l’evidente meditazione sulla composizione della cap-

pella Cornaro ha inizialmente indotto la cri- tica ad attribuire l’opera proprio a Bernini: Hermanin (1948) lo riteneva il primo boz- zetto per la statua della Beata Ludovica Al-

bertoni in San Francesco a Ripa (1673-1674), mentre Santangelo lo riferì direttamente al gruppo di Santa Maria della Vittoria, basando la sua ipotesi pro- prio sulla presenza delle gambe dell’angelo, e con lo stesso riferimento la scultura era stata esposta alle Mostre retrospettive in Ca-

stel Sant’Angelo del 1911.

La corretta identificazione dell’autore e del- l’iconografia si deve a Rudolph Preimesber- ger (1969), e la sua interpretazione è stata accolta da tutta la critica successiva.

Bibliografia

Mostre Retrospettive… 1911, p. 230; Her-

manin 1948, p. 278; Santangelo 1954, p. 91; Nava Cellini 1956, p. 21; Preimesber- ger 1969, pp. 178-183; Di Gioia 1987, pp. 39-53; Barberini 1991, p. 46; Mujica Pi- nilla 1995; Barberini 1996, p. 72; Ferrari – Papaldo 1999, pp. 504; Boucher 2001, pp. 210-211; Di Gioia 2002a, pp. 165-175; Cannata 2003a, p. 229; Anselmi 2006, pp. 89-96.

43. Giovanni Battista Fonti su disegno di