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Navi magiche in Adriatico: fiabe e leggende di Giacomo Scotti

Nel documento UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE (pagine 121-128)

IL MEZZO NAUTICO E LE SUE INTERAZIONI CON IL TESTO-PAESAGGIO ADRIATICO

1.1 Letteratura del mare, imbarcazioni e Mar Adriatico: coordinate critiche e teoriche

1.2.12 Navi magiche in Adriatico: fiabe e leggende di Giacomo Scotti

Tra la sua vasta produzione letteraria, Giacomo Scotti può vantare anche due raccolte a sfondo favolistico: Fiabe e leggende dell’Istria e Fiabe e

leggende del Mar Adriatico. Vi sono narrati miti e leggende che da sempre

aleggiano sull’Adriatico e dei quali è evidente la derivazione comune e accomunante, con uno sguardo esplicitamente diretto alle due sponde del mare. Vale la pena di soffermarsi su alcuni di questi racconti, che qui interessano proprio a causa della dimensione leggendaria con cui in essi si narra di alcune barche dell’Adriatico, una dimensione che spesso si fonde con quella odeporica. L’operazione di recupero delle vecchie leggende istriane e dalmate, tutte adriatiche e a fondo piscatorio, riadattate sotto forma di racconto breve, è compiuta da Scotti tenendo ben presente la preziosa vicinanza socioculturale con le popolazioni della sponda italiana. Si tratta di miti e leggende raccolti con un intento aggregante, demolitore di distanze e interstizi geografici, liquidi e mentali.

Con il mare a fungere da sfondo tematico e ambientazione principale, anche le navi risultano dunque parte integrante di questo impianto narrativo geoantropologico. L’utilizzo frequente della nave o della barchetta come immagine-veicolo nella narrazione consente anche di illuminare la consueta

ridda di elementi scenico-narrativi complementari e affini al natante e alla navigazione: porti, baie, vedute di città dal mare, attrezzature di bordo, capitani e mozzi.

Nel racconto ambientato a Laurana (Lovran), per esempio, la barchetta di un pescatore diventa, dopo un incantesimo che aumenta a dismisura la distanza colmabile dalle vogate di chi la conduce, mezzo di condensazione dello spazio adriatico, addirittura volando sull’acqua. Il pescatore, nascondendosi nella barca e mimetizzandosi con parte delle attrezzature che essa ospita, diviene silente testimone di favolosi viaggi verso la Guyana o Alessandria d’Egitto, in una stupefacente alternanza tra il paesaggio di Laurana e quello, soltanto intuito, di terre lontane. La barchetta diventa dunque un luogo extratemporale, misterioso e fatato, abitato e utilizzato da streghe e fate dispettose che si divertono anche a mettere in disordine le dotazioni di bordo: gomene, cime, remi, ancorotti. Il mezzo natante è utilizzato anche come veicolo di trasporto dell’oggetto che coincide con il punto centrale narrativo e fiabesco, come nel caso delle campane della chiesa di Parenzo, rubate dai pirati e caricate sulle loro navi mentre si compiono atti di saccheggio e depredazione nel paesaggio adriatico istriano, costituito da chiese, palazzi, torri campanarie, mare, pinete. L’imbarcazione è anche, più “ordinariamente”, il veicolo a bordo del quale si perfezionano i momenti della partenza dell’eroe, del viaggio di conquista e del ritorno vittorioso a casa, come nel caso del galeone a bordo del quale l’eroe compirà il suo viaggio verso Oriente, che gli consentirà, imbarcatosi da semplice pescatore e ritornato comandante del veliero, di sposare la sua amata che lo attende a Isola d’Istria (Izola). Perfino la leggenda di Sant’Eufemia può offrire l’opportunità di tradurre in racconto la “veicolarità” del mezzo di trasporto in Adriatico, il potenziale letterario del suo contenuto e dei paesaggi che sfiora nella navigazione, il punto d’approdo in un’isoletta dell’Istria occidentale e i prodigi che vi importa170. Il corpo della santa, nel miracoloso viaggio da Calcedonia (nei pressi di Costantinopoli) a Rovigno, è dunque rinchiuso in un

170

Cfr. Fate e streghe in barca, Le campane di Parenzo, I merletti delle sirene e Il miracoloso

viaggio dell’arca di Sant’Eufemia, in G. Scotti, Fiabe e leggende del Mar Adriatico. Dall’Istria alla Dalmazia, all’Italia, Treviso, Santi Quaranta, 2005.

massiccio sarcofago marmoreo, sorta di atipico natante. Sospinto dalla furia del mare, il corpo dolcemente custodito da quella

splendida barca di pietra, fu spinto dalle braccia delicate delle onde dirigendosi con rotta sicura verso il porto stabilito dalla mente divina. […] la barca di pietra […] accolta dalle onde con un moto delicato, raggiunse la riva di un’isola dell’Adriatico, ai piedi di un monte chiamato Monte Rosso o Rubino, Ruigno, Rovigno, nelle immediate vicinanze della costa dell’Istria171.

Anche nella dimensione favolistico-leggendaria, dunque, barche e Mar Adriatico si delineano come felice e armonica coesione di topoi letterari attinenti all’universo marinaro.

La cornice fiabesca delle leggende rielaborate da Scotti è dichiarata ed evidente anche in Fiabe e leggende dell’Istria, opera omologa alla precedente, ristretta alla zona geografica istriana, considerata nella sua bipartizione geografica e sociale tra litorale costiero ed entroterra campagnolo, contadino, meno influenzato dal commercio con altri paesi e dunque più genuino e meno toccato da influenze esterne. Una bipartizione che, come precisa l’autore nella prefazione, coinvolge anche la genesi e la diffusione dei racconti stessi.

Solo un racconto sembra tratteggiare la figura di un mezzo di trasporto in maniera degna di nota per quanto riguarda questo lavoro: si tratta della galea172, la cui presenza è legata al tema del vento, più precisamente della bora, nel racconto di una delle sue tante leggende. La galea veneziana è brevemente presentata in uno scritto che si occupa della storia della sua costruzione, a partire dai materiali, fino alla descrizione delle situazioni di

171

G. Scotti, Il miracoloso viaggio dell’arca di Sant’Eufemia, in ivi, p. 73.

172La galea può considerarsi un sottoelemento paesaggistico, descrittivo e narrativo, nonché una sorta di suggestivo sottoluogo letterario della letteratura del mare. Essa compare in parecchie prose o saggi relativi all’Adriatico, alla sua storia e alla sua marineria. Alcuni riferimenti, seppur minimi, possono essere individuati in C. Caracci, La luce di Ragusa, Treviso, Santi Quaranta, 2005; L. Lo Basso, Uomini da remo. Galee e galeotti del

Mediterraneo in età moderna, Milano, Selene, 2003; Id., Una vita al remo. Galee e galeotti del Mediterraneo secc. XVI-XVIII, Arma di Taggia, Atene, 2008; Alessandro Marzo Magno, Il leone di Lissa, Milano, Il Saggiatore, 2003; F. Masiero, Sulle rotte della Serenissima. Con il «Vistona» verso gli scali veneziani in Levante, Milano, Mursia, 1983; P. Rumiz, La rotta per Lepanto, «La Repubblica», 5-27 agosto 2004.

bordo e con l’aggiunta di brevi specifiche tecniche. Quello che meglio è valorizzato nella manciata di righe di Le leggende della bora, incentrato non solo sulle galee ma anche sui “personaggi muti” rappresentati dagli infelici vogatori che ne costituivano equipaggio e propulsione, è proprio il rapporto tra Adriatico, mezzo navale e paesaggio. Una triade inscindibile dalla cornice favolistico-leggendaria in cui Scotti ha voluto inserire la sua raccolta, che apre più di uno spiraglio sull’ambito del folklore e delle tradizioni popolari173. Si manifesta una pluralità di elementi narrativo-descrittivi che si amalgamano: l’evanescente e sfuggente componente leggendaria, la solidità materiale del legno necessario a costruire le galee, il sangue e il sudore dei galeotti, il riferimento descrittivo alle conseguenti modificazioni dei profili costieri a causa del disboscamento operato dai veneziani per ottenere il legno da destinare alla costruzione degli scafi stessi. Di notevole impatto, ad esempio, è il brano in cui la scena è ripresa a bordo della galea con il suo urlante e penoso propulsore umano; siamo in navigazione nelle acque del Canale della Varesina, durante una tempesta con bora fortissima, e i forzati

disperati, doloranti e impotenti, stavolta levarono forte e in coro la loro voce di protesta verso il cielo: maledissero la terra che generava gli alberi, dai quali si otteneva il legno delle galee… La maledizione si avverò in parte: da allora, su molti tratti di costa della terraferma e delle isole scomparvero gli alberi, restò la nuda pietraia carsica174.

La presenza dell’elemento strettamente materiale e ligneo concerta anche una panoramica storica delle navi d’alto Adriatico, stavolta in relazione a un motivo ricorrente nella letteratura del mare, quello delle incursioni piratesche. Nell’atmosfera leggendaria si susseguono i profili di molti mezzi navali, in un affollato fondale descrittivo: galee, navi da guerra, velieri mercantili e soprattutto navi-pirata, sui cui alberi garriscono le bandiere saracene con la mezzaluna rossa. Sul piano narrativo, le scene

173 Nella prefazione al volume, l’autore afferma però di non aver avuto l’intenzione di proporre una rassegna di materiale folcloristico o etnografico, ma «di porgere ai lettori un “prodotto” letterario che discende dalla tradizione orale popolare»: G. Scotti, Nota a Id.,

Fiabe e leggende dell’Istria, Treviso, Santi Quaranta, 2003, p. 8.

dell’avvistamento in Quarnero e della successiva battaglia nei pressi dell’isola di Pago (Pag) sono sottaciute, smorzando la valenza sanguinaria e bellica delle navi stesse sul piano descrittivo e narrativo.

1.2.13 I fiumi dell’alto Adriatico, un kayak e un caffè. Il punto di vista marinaro “a pelo d’acqua” di Emilio Rigatti.

Chiudiamo il paragrafo dedicato all’area della costa italiana dell’alto Adriatico con l’analisi di un’opera molto recente. Lo scrittore-viaggiatore-ciclista Emilio Rigatti, più noto per la sua opera odeporica ciclistica (che sarà compiutamente analizzata nel quarto capitolo, quello dedicato alle biciclette), contribuisce a questo studio con alcuni atipici reportage nautici, che lo inquadrano dalla prospettiva di un mezzo davvero insolito per la narrativa o l’odeporica adriatica: il kayak. Si tratta di un mezzo di trasporto che esercita senza dubbio notevoli influenze letterarie e stilistiche sulla percezione e la restituzione del paesaggio stesso, osservato da prospettive poco esplorate nell’odeporica adriatica tradizionale.

Nell’agosto del 2010 il quotidiano triestino «Il Piccolo» pubblica la prima puntata settimanale del resoconto del viaggio da Aquileia, in provincia di Udine, a Padova, seguendo il corso della linea interna di navigazione fluviale e lagunare175. Sin dal momento della partenza si coglie la stretta interdipendenza della scrittura e della percezione del paesaggio con l’inusuale mezzo di trasporto navigante. Gli appunti di viaggio sono infatti densi di riferimenti all’agile natante (denominato “Starbuck”), alle manovre difficoltose, al suo cromatismo luminoso e gialleggiante e alla sua struttura

175 Cfr. E. Rigatti, Vado a prendere un caffè da mia madre. Da Aquileia a Padova in kayak

lungo le rotte della serenissima, «Il Piccolo», 12 agosto-2 settembre 2010. Alcuni mesi dopo,

precisamente nel febbraio del 2011, il quotidiano triestino pubblicherà un altro reportage canoistico dello scrittore, sempre proveniente dall’alto Adriatico e con minori suggestioni paesaggistico-descrittive legate al mezzo di trasporto: cfr. Id., Pagaiando tra i delfini dal

golfo di Panzano fino al porto di Trieste, «Il Piccolo», 28 febbraio 2011.

Nell’estate dello stesso anno le avventure in kayak si arricchiranno di un nuovo episodio, un viaggio verso Zara, che sarà trasformato in resoconto e pubblicato sulle pagine del quotidiano triestino, e la cui analisi può leggersi in questo lavoro nella parte dedicata all’Adriatico orientale: cfr. par. 1.4.16.

nautica: si tratta di un coacervo di fattori che senza dubbio sortisce grande effetto anche sulla rappresentazione del paesaggio circostante, oltre che sull’impasto narrativo. Da un moletto nei pressi di un’osteria aquileiese Rigatti salta sul kayak e affronta i primi metri dell’itinerario fluviale para-adriatico. Le prime osservazioni chiariscono già con decisione quelli che saranno i fili conduttori dell’intero viaggio. Nel silenzio delle acque pare quasi di sentire il solo gorgogliare della pagaia a contatto con il fiume, mentre nel moto ondoso si distinguono le immagini riflesse di case e barche. L’oleografia para-adriatica è nobilitata e de-stereotipata proprio dalla presenza del mezzo, che offre visuali appiattite, allungate, leggermente distorte dal punto di vista ottico. Forma e struttura del mezzo, inoltre, consentono anche di giocare con le similitudini nautiche:

[…] Starbuck fluttua già sulle onde mielose che distorcono i riflessi delle case e delle barche smerigliati dalle gocce di pioggia, avanzo verso la laguna tra lo sciacquio che riverbera sull'orribile cemento del nuovo porto. Per un centinaio di metri mi pare di essere un sommergibile atomico che esce dalla base sotterranea, ma poi, dove termina l'opera dell'uomo, i brusii della pioggia sull'acqua e lo sfrigolare delle cannelle confortano176.

In queste fasi iniziali di percorso fluviale si inserisce, inoltre, un orizzonte molto peculiare, anomalo. La prospettiva generale colta dal kayak, infatti, provoca delle approfondite riflessioni sulla cartografia e sulla rappresentazione topografica di queste terre para-adriatiche, nella zona di Lignano Sabbiadoro. La cittadina balneare e turistica subisce l’alterazione prospettica e percettiva, da cui tutto il paesaggio e di conseguenza la prosa sono evidentemente influenzati. L’atto di rimirarla viaggiando a pelo d’acqua, in solitudine e silenzio, la decostruisce dal punto di vista iconico, l’allontana dalla dimensione turisticizzata, accomunandola iconograficamente, per ammissione dello stesso autore, a una di quelle cittadine asiatiche fluviali. Proprio tale posizione di navigazione, inoltre, suscita stimolanti paralleli visuali con la cartografia, con la mappa geografica che pochi giorni prima lo

stesso scrittore aveva visionato a casa sua, in preparazione del breve viaggio. La prima tappa, fattasi ormai sera, si chiude con una navigazione incorniciata da un fondale davvero suggestivo, con l’ombra della pagaia che si proietta alla tenue luce lunare, che trapela dai canneti palustri.

Questo tipo di navigazione consente dunque di percorrere itinerari adriatici poco frequentati e raccontati, e la prosecuzione del viaggio conferma la sua particolare configurazione stilistico-odeporica, regalando visuali inedite e orizzonti originali, di cui è paradigmatica la descrizione del piccolo e poco frequentato abitato di Brussa, lungo la litoranea veneta, strangolato fra colossi del turismo estivo come Bibione, Caorle e Jesolo. Osservata dalla spartana imbarcazione, nel suo anomalo e quasi surreale isolamento, la località suggerisce a Rigatti l’immagine di paludi tropicali.

Nei pressi del fiume Sile il paesaggio uniforme trova una cesura descrittiva nel faro di Jesolo, i cui profili bianchi e rossi si scorgono ormai nettamente. È in questo punto della narrazione che compaiono i mezzi di trasporto nautici utilizzati come contraltare scenografico, in cui si innesta uno sguardo sociologico non dissimile da quelli utilizzati, per esempio, da Paolo Rumiz. Il lettore si imbatte allora in alcuni barconi turistici, carichi di tedeschi che non perdono l’occasione di interagire con il solitario kayak, ma anche in «motoscafi pretenziosi e molti che vorrebbero esserlo»177. Avvicinandosi all’isola di Torcello l’ambiente palustre, verdeggiante e mosso dal vento aumenta il grado di saturazione della prosa descrittiva, ma il paesaggio a sfondo naturalistico cede presto il ruolo principale a quello antropico, con i campanili di Burano e della stessa Torcello. Nel frattempo, il nuovo tramonto regala ennesime visioni tetre, con un piatto orizzonte rigato soltanto dalla silhouette dei campanili stessi.

Il momento dell’entrata a Venezia è opportunamente trasferito su pagina ricorrendo all’immagine del labirinto, rinvigorita dalla navigazione sul peculiare mezzo. Ma del capoluogo veneto non rimane granché nel resoconto178. Più interessante, qui, è la pagaiata in avvicinamento alla foce del

177

Ivi, 23 agosto 2010.

178 Una testimonianza odeporica più approfondita della Venezia raccontata dal kayak, seppur travisata dall’atmosfera carnascialesca che rende il capoluogo lagunare quasi irriconoscibile

Brenta, cinque chilometri faticosi e pesaggisticamente segnati dal complesso petrolchimico di Porto Marghera, i cui industriali contorni si sagomano all’orizzonte:

L’installazione metallica di Marghera ha un suo fascino futurista vista dall'acqua, coi riflessi argentei zigrinati dalla brezza che raddoppiano la missilistica traiettoria del gasdotto. Mi avvicino all'isolotto di San Giorgio in Alga, circondato da rosse mura corrose […]179 .

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