IL MEZZO NAUTICO E LE SUE INTERAZIONI CON IL TESTO-PAESAGGIO ADRIATICO
1.3 Il medio e il basso Adriatico italiani
1.3.4 Storie e barche marchigiane: Sergio Anselmi
In una ricerca che ha come tema principale lo studio dei mezzi di trasporto nella letteratura dell’Adriatico non può mancare l’analisi di alcune delle storie raccolte da Sergio Anselmi, storico e scrittore dell’Adriatico. Molte volte in esse compaiono situazioni riferibili al mezzo di trasporto, alle imbarcazioni di tutti i tipi. Inoltre, le leggende197 raccolte coprono un arco
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Le definiamo tali, ma con una volontaria approssimazione, dato che, come lo stesso autore tiene a precisare nella nota introduttiva, si tratta di vicende che hanno un solido fondo di verità storica, supportata da documenti storiografici e materiale d’archivio: cfr. S. Anselmi,
cronologico molto ampio, offrendo dunque una preziosa possibilità di esplorare eventuali interazioni tra ambientazioni e mezzi di trasporto del passato adriatico meno recente. Si vedrà tra poco quanta importanza narrativa e scenica occupino le vele, con i loro colori, materiali, disegni e blasoni.
Un particolare tipo di galea veneziana, la fusta, è individuabile come un muto e galleggiante “personaggio-oggetto” di La bella Rosa, l’ottava storia presentata nel volume. L’incipit trasporta prontamente il lettore al cospetto della comparsa notturna di una miriade di fuste, che arrivano a lambire le coste adriatiche, stipate di corsari e rematori, in attesa di abbordare le navi e le barche cariche di merci per rapinarle, rapirne gli equipaggi, tenerli in ostaggio e liberarli dietro riscatto. Dopo una sorta di prologo storico-tecnico sulla tipologia di imbarcazione, si passa alla descrizione dell’episodio che innescherà l’intera vicenda (con l’attenzione che si sposterà in seguito sul personaggio di Rosa e sulla sua comunità di pescatori), che ha un preciso inquadramento cronico e topico: la notte fra il 30 e il 31 maggio del 1815, in una fascia di costa medio-adriatica tra il Monte Conero e Fano, all’imboccatura del fiume Metauro. Ebbene, la multiculturalità dell’Adriatico arricchisce la composizione di questo quadro scenico con un suggestivo valore aggiunto. Le fuste si distribuiscono infatti su un’area lunga circa duecento miglia, appostandosi per cogliere di sorpresa i natanti dei pescatori che partono all’alba per lavorare. Il confronto, anche descrittivo, tra le temibili fuste e gli innocenti e indifesi bragozzi si traduce in una potente metafora storico-sociale, con le imbarcazioni piratesche
acquattate tra dune, ridossi, lagune e stagni […]. Una di esse […] si era appostata tra gli alberi alla bocca del Metauro, quasi distesa tra acqua e ghiaia, aspettando che dalla parte di Fano comparissero le vele arancione di paranzelle, bragozzi e battane […]198.
Storie di Adriatico, Bologna, Il Mulino, 1996, p. 7. Per un utile riferimento storico
integrativo, e per una visione più ampia e completa dell’argomento, cfr. anche Id., Adriatico.
Studi di storia: secoli XIV-XIX, Ancona, Clua, 1991.
Come si nota, lo stile suggerisce una parafrasi della descrizione di una predazione, con i predatori che si appostano e “affilano le armi”, le prede inconsapevoli che escono allo scoperto, mentre il culmine narrativo e descrittivo è concentrato sui cromatismi della velatura, sulla tipologia delle diverse imbarcazioni e sulla morfologia della costa. Lo sguardo si dirige poi sull’entrata in mare delle “barchette fanesi”, la cui onomastica già si individua come connotato economico-sociale e religioso, soprattutto se la si pone in parallelo con le anonime fuste in agguato, pronte all’abbordaggio e all’arrembaggio:
La «Speranza» aveva a bordo Raffaele Spadoni, capobarca o paróne […]. Così, più o meno, la stessa gente nell’«Immacolata concezione», nella «Virgo Maria» e nelle «Consolata», «Fortunato Padre», «Santa Vergine», «Due fratelli», «Giorgina»199.
Proprio nell’atto di descrivere la disposizione delle imbarcazioni tipiche dell’Adriatico marchigiano ritorna trionfante quella “carta di identità nautica” di quel mare, certificazione visiva di provenienza dalle coste italiane: l’araldica velica200. Notevole e particolareggiato intermezzo descrittivo, che precede il racconto dell’attacco delle fuste (che, come vedremo tra poco, si rivelerà di notevole impatto scenico), quello rappresentato dalle colorate e identificative vele adriatiche è uno scenario magnifico, che si deve considerare anche alla luce della sua valenza socioculturale e storica:
Le vele, ognuna con il blasone della famiglia, ereditato di generazione in generazione, sembravano abbellire il mare primaverile e tanto più si stagliavano nel cielo, quanto più il sole cresceva. Il fondo arancione, con il bollo nero o rosso, la penna verde o azzurra, il doppio gallone, la banda
199 Ivi, p. 99. Un’imbarcazione omonima del “Fortunato Padre” è protagonista in un altro racconto, inserito in una raccolta pubblicata successivamente a quella ora in esame, la cui analisi si propone infra.
200 Su questa affascinante declinazione storico-navale e antropologica dell’Adriatico, cfr. anche F. Fiori, Un mare. Orizzonte adriatico, Reggio Emilia, Diabasis, 2005. pp. 84-92.
verde, la croce trifogliata o greca […] raccontavano storie antiche di gente che nulla aveva conosciuto oltre la barca e il pesce […]201.
Il quadretto gioioso e laborioso costituito dall’aggregarsi delle imbarcazioni da pesca è presto destinato a un brusco quanto rapido sussulto narrativo, con l’episodio dell’abbordaggio, il rapimento degli uomini di bordo e la loro contenzione con i ceppi.
In un altro racconto ritroviamo una nuova serie di imbarcazioni, stavolta intimamente connessa alla vita del protagonista, Armando. La panoramica diacronica sulla sua vita e le vicende che lo accompagnano da una mansione di bordo a un’altra rappresentano anche uno scorcio sui mestieri, sulla condizione sociale e umana delle comunità di pescatori operanti in quel micromondo portuale adriatico fatto di bragozzi, tartane e trabaccoli, sulla costa marchigiana ottocentesca e post-unitaria. Il lettore osserva dunque Armando nella sua crescita. Dapprima prodiere a otto anni su una “tartanina” da pesca che opera sulle foci dei fiumi nei pressi di Pesaro, riconvertita in “barca da passeggio” nel periodo estivo e denominata “Madonna mia”; poi, “giovinotto di seconda” su un trabaccolo che carica e scarica merce varia in giro per Istria e Dalmazia; in seguito, militare sulla “Regina Maria Pia”, fino al trabaccolo “Irene” dalla velatura arancione, da bordo del quale si osserveranno le vicende amorose del bell’Armando, inconsapevolmente condiviso da due ragazze delle due opposte sponde adriatiche. Ebbene, proprio l’alberatura e la velatura del trabaccolo, interagendo con il cielo e il mare, provocano nella prosa descrittiva quell’affascinante sovrapposizione della percezione cromatica con le dinamiche di navigazione:
Le due grandi vele arancione e poi il fiocco, alzato sul lungo bompresso, che lì chiamavano «el spuntèr», si riempirono subito dell’aria da levante e il trabaccolo, allargatosi di un miglio o due per trovarsi senza rischio sotto le rupi di Focàra, prese la via di Ravenna […]202.
201 S. Anselmi, La bella rosa, in Id., Storie di Adriatico, cit., p. 100.
Impianto simile e scansione narrativa dello stesso tenore (seppur con un ventaglio cronologico più ampio, che ricopre tutto l’arco della vita del protagonista) caratterizzano un altro racconto, Bruno Čapek. Qui la collocazione storica muta rispetto al racconto precedente, cominciando le vicende di questo personaggio in una delle date più fatidiche della storia italiana, il 24 maggio 1915. Mutano anche le situazioni di fondo, con un’accentuazione dello scenario bellico (non solo Adriatico); rimane invece pressoché immutato lo sfondo topico, poiché tutto si svolge a Senigallia, nelle Marche.
Come nel precedente racconto, anche in questa storia rivisitata da Anselmi la scena si apre con una suggestiva istantanea adriatica fortemente segnata dalla presenza delle imbarcazioni, questa volta tutte navi da guerra, con le piccole e sparute paranze che disegnano un altrettanto degno contraltare scenografico. Riguardo alla rapida descrizione iniziale, considerata nella sua composizione corale, è opportuno concentrarsi su due nodi molto interessanti: il bombardamento partito dalla nave austroungarica, giunta ormai all’imboccatura del porto di Senigallia, che ha come obiettivi la ferrovia e parte della città, e l’elencazione delle nazionalità che compongono l’equipaggio della corazzata che conduce le operazioni della flottiglia:
Una squadra navale austro-ungarica, guidata dalla corazzata «Zrinyi», giunta indisturbata davanti a Senigallia, apriva il fuoco sulla ferrovia e sulla città. Pochi danni e una ventina di morti. La guerra era cominciata un minuto dopo la mezzanotte.
A bordo delle navi […] erano per lo più austriaci, istriani e dalmati, croati e sloveni, ma anche cèchi, slovacchi, friulani, tirolesi, galiziani, moravi203.
Non sfugga il dato che riguarda il numero delle nazionalità, delle etnie e delle identità che compongono l’equipaggio della corazzata: solo un luogo come l’Adriatico di quel periodo storico poteva offrire un simile schieramento navale. Tornando ai preparativi per il bombardamento e alle operazioni tattiche che lo precedono, notiamo che la narrazione torna a occuparsene
ampiamente nel prosieguo della vicenda. Si tratta di una fase molto stimolante per le caratteristiche teoriche e metodologiche di questo lavoro, poiché in essa coesistono armoniosamente diversi elementi della visione e del paesaggio, tutti rielaborati dal mezzo di trasporto navale e da visioni di orizzonti adriatici204 appena bombardati e ancora fumiganti:
Dalle navi si vedevano bene, anche senza binocolo, i pennacchi delle esplosioni, tutti assai prossimi al mare […]. Nessuna risposta da terra, né dalle acque di Ancona […]. In mezz’ora fu tutto finito […]. La linea azzurra dell’Appennino, le colline verdi per il grano non ancora ingiallito e mietuto, il mare calmo, appena increspato da una brezza da ostro sembravano suggerire la grande indifferenza della natura alle violenze degli uomini […]. Le navi […] si portarono oltre la gobba del Monte Conero, dopo aver sparato altri colpi sul porto di Ancona. Poi fu vela per Lissa205.
C’è spazio, però, ancora per una nave da guerra: si tratta dell’incrociatore “Möwe”, su cui è imbarcato il protagonista Bruno, che partecipa attivamente al bombardamento di Senigallia e Ancona, e la cui destinazione è la città di Ragusa (Dubrovnik), dove sarà silurato e affondato da un sommergibile dalla nazionalità dubbia nel giugno del 1917. Bruno si salva, è promosso maresciallo e poi tenente di vascello della marina del nascente Regno di Jugoslavia. Toccherà ancora a barche e navi accompagnare i destini del personaggio, ma anche caratterizzare i mutamenti cronotopici degli orizzonti adriatici presenti in tutta l’evoluzione del racconto. Bruno lavorerà a bordo di un vaporetto che trasporta merci e bestiame facendo la spola tra Cattaro (Kotor) e Lussino, fino a diventare comandante a Spalato nella marina jugoslava con un incarico affascinante: rimediare e allestire una nave scuola per l’addestramento delle reclute. La fase di ricerca dello scafo adatto, il suo restauro, l’approntamento della nuova destinazione d’uso, perfino la ricerca del nome adatto, se non rappresentano una “istantanea
204 Essi sono stavolta proposti in declinazione appenninica, agricola, cromaticamente campestre. Inserito in questa cornice bellica, questo scenario composto da imbarcazioni da guerra e placidi ambienti campestri e agricoli pare tendere a una sfumatura quasi escatologica, come conferma la riflessione inserita nel brano citato.
adriatica” nel senso pieno e canonico che in queste pagine si è voluto conferire a tale sintagma, sono molto eloquenti in termini storico-sociali, rappresentando comunque un significativo indice dell’importanza e dell’ampiezza simbolico-metaforica delle barche d’Adriatico tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, fino alla Prima guerra mondiale. Dopo aver scartato l’ipotesi di costruire appositamente uno scafo, per mancanza di fondi, si ripiega su un trabaccolo usato e dismesso, proveniente da Macarsca (Makarska)206, denominato “Concordia”. Dopo i lavori di restauro, riadattamento e motorizzazione, giunge il momento di pensare alla nuova denominazione: dietro alla proposta delle varie alternative si può scorgere in filigrana il rapido susseguirsi delle forme di stato in quella zona dell’Adriatico. Per il trabaccolo-nave scuola, infatti, Bruno pensa inizialmente all’altisonante nome “Barone Manfred von Richtebsburg” (un omaggio al suo comandante sul “Möwe”, perito nell’affondamento), ma l’associazione onomastica con l’Impero austroungarico è troppo immediata, troppo sfacciatamente ovvia, e ne consegue l’impossibilità di adottare quel nome; si pensa allora a un compromesso, adottando la grafia serbocroata e traslitterando proprio il nome “Möwe”, ma anche tale soluzione viene diplomaticamente scartata; si giunge così a battezzare il trabaccolo “Alessandro”, «in omaggio – del tutto ovvio e scontato – al re di Jugoslavia»207: è con questo fausto nome, dunque, che la nave scuola navigherà per l’Adriatico e per i mari d’Europa, rimanendo ormeggiata a Spalato nella cattiva stagione.
La presenza di barche, trabaccoli, navi da guerra e incrociatori, e soprattutto la loro onomastica, non hanno ancora cessato di essere una costante fondamentale per la vita di Bruno. Ritornato a Ragusa a godersi un meritato riposo, ma in una fase storico-sociale molto movimentata e pericolosa per la Dalmazia, egli viene infatti convocato dal comitato
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La città di Makarska si trova in Dalmazia, dunque nell’attuale Croazia, poco lontano dalle Isole di Lesina (Hvar) e Brazza (Brač), di cui è porto di imbarco per le rotte commerciali e turistiche.
207 S. Anselmi, Bruno Čapek, in Id., Storie di Adriatico, cit., p. 184. Il riferimento è ad Aleksandar Karađorđević, nato a Cettigne il 16 dicembre 1888, primo re del Regno di Jugoslavia, assassinato a Marsiglia nel 1934 da un indipendentista macedone affiliato agli Ustascia.
clandestino per la rivoluzione, con la missione di pilotare una barchetta carica di miliziani, rivoluzionari e due feriti stranieri. Si tratta di un modesto natante sprovvisto di alberatura, che egli dovrebbe condurre prima all’isola di Meleda (Mljet) e poi a Curzola (Korčula). Costretto a puntare invece addirittura verso la Puglia, il battello pilotato da Bruno esegue velocemente la missione in mare aperto, effettuando il trasbordo di alcuni miliziani su un canotto staccatosi da un sommergibile inglese. Quelli rimasti a bordo dell’anonimo barchetto (che, prima del furto e dell’impiego clandestino, portava l’innocente nome “Marija”) si cimentano con slanci onomastici, proponendo nomi eloquenti e altamente simbolici: “Uskok”, “Sloboda”, “Revolucija”208. La piccola barca terminerà la sua avventura a Trsteno, circa venti chilometri a nord di Ragusa.
Anche nella seconda “raccolta adriatica” di Anselmi, Ultime storie di
Adriatico, sono diversi i racconti che vedono protagoniste le imbarcazioni.
L’incipit a sfondo storico-economico del racconto Olga, o della perfezione, ad esempio, è molto interessante perché tratteggia in poche righe un convincente spaccato storico-navale della flotta mercantile pontificia stanziata nel medio Adriatico, per poi passare alla descrizione tecnica dei brigantini appartenenti agli ebrei del ghetto anconetano:
Nella modesta ma non esigua flotta mercantile pontificia di Adriatico […] si contavano 220 barche, con portata media di 50 tonnellate. […] era Ancona il vero porto delle grandi navi del papa, porta dello Stato e finestra su Austria, Venezia, Dalmazia, Grecia e sul Levante209.
Un altro incipit di notevole effetto, invece, sposta l’attenzione geografica al sud dell’Adriatico, rimanendo invariato il motivo della nave, stavolta una corazzata che salta in aria nel settembre 1915, ormeggiata al porto di Brindisi210.
Ritornando all’Adriatico centrale di sponda italiana, nel racconto Il
fortunale del ‘27 le barche a vela e il loro inserimento nel piano narrativo
208 “Uscocco”, “Libertà”, “Rivoluzione”.
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S. Anselmi, Olga, o della perfezione, in Id., Ultime storie di Adriatico, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 43.
contribuiscono a ricreare quella suggestione oleografica già tante volte incontrata, grazie soprattutto alle decise e vivaci sfumature cromatiche della velatura, che si fondono armoniosamente con quelle paesaggistiche della primavera adriatica. Il quadro descrittivo, inoltre, seppur già denso, si impreziosisce notevolmente ancora una volta grazie alle barche e all’araldica velica, in combinato con l’elencazione onomastica dei natanti, accorgimento antropologicamente eloquente ed efficace stilema di prosa descrittiva. Al largo di Senigallia, nel maggio del 1927, dunque,
tutte le barche della flottiglia […] erano in mare e si potrebbe dire che pareva una festa, se non fosse che lo spettacolo delle vele arancione […] non fosse stato quello solito delle belle giornate primaverili […]. Si distinguevano bene, per le insegne familiari dipinte sulla vela, il “Maria Ruggero”, l’ “Enrichetta”, il “Rovaldo”, la “Roma II”, il “Luigi”, l’“Arpia”, la “Nuova Fenice”, l’ “Armanda Clara”, il “Florindo”, l’“Indiana” e altre cinque o sei barchette di otto-dieci tonnellate211.
Con il procedere della narrazione, trascurando lo svilupparsi della vicenda e della linea narrativa principali, sarà utile invece soffermarsi sui motivi nautici e adriatici presenti nel racconto in esame che, focalizzandosi sulle imbarcazioni e sull’attività piscatoria dei loro equipaggi, consentono uno sguardo approfondito sul microuniverso della gente di mare che viveva in quel tratto di costa marchigiana. Il lettore si avventura dunque in un mondo fatto di economie settoriali, di tipologie d’equipaggi e pesca, di notazioni socioeconomiche che riguardano l’ancor rara presenza delle barche a motore, di enumerazione di professioni e mestieri tutti legati strettamente a quell’universo piscatorio, in cui spicca senza dubbio la prossimità analogica tra aree semantiche attinenti a “barca”, “casa” e “sostentamento”. Inoltre, insistendo con la descrizione del mondo dei pescatori, che farà da scenario introduttivo al racconto del fortunale del titolo212, l’autore introduce un
211 Id., Il fortunale del ‘27, in ivi, p. 85.
212 L’episodio è raccontato in forma di inchiesta in Gli Amici del molo di ponente, Il
fortunale. Fatti, uomini, cose dei giorni 23 e 24 maggio 1927, con una storia della famiglia Muligon, Senigallia, Fratellanza degli amici del molo, Banchina di Ponente, 1985, da cui
ennesimo topos adriatico già incontrato in queste pagine: l’antitesi tra terra (intesa nel senso terraiolo di attività contadine) e mare, in questo caso rappresentata simbolicamente da un ponte situato sul fiume Misa, manifestamente individuato come confine, limes quasi magico, porta dimensionale tra due universi non comunicanti.
Se nei racconti finora analizzati la vela ha un ruolo predominante, un racconto delle Ultime storie è invece incentrato sul motore nautico, e sull’impatto sociale ed economico che l’adozione di esso avrebbe comportato per i pescherecci di quel settore costiero marchigiano. In Cafiero e il motore
del Fortunato padre, infatti, argomenti come i potenziali inconvenienti e i
costi legati all’utilizzo del motore a scoppio occupano le discussioni dei pescatori, molto indecisi sul da farsi, spaventati dal rischio di incendi a bordo, dalla sovrapproduzione di vibrazioni a parer loro difficilmente tollerabili dagli scafi, dalla presenza dell’elica e del pericolo che essa possa rovinare le reti. La famiglia Ranalli condivide preoccupazioni e incertezze, ma Cafiero, il fratello più anziano, convince i più giovani membri a comprare un motore per il loro peschereccio, facendo leva sull’entusiasmo dei fratelli minori. La barca motorizzata, che consentirà di spingersi a pescare nel Quarnero, fino alle isole di Lussinpiccolo (Mali Lošinj), Cherso, Sansego (Susak) e Unie, conquista decisamente un ruolo di primo piano in questa fase della narrazione. Il motore è oggetto delle attenzioni di tutta la famiglia, totalmente ignoto e spiazzante nella sua materiale essenza di macchina, e dunque temuto, sebbene inevitabilmente «tenuto con gran garbo, lo stesso delle donne di casa verso le macchine da cucire Singer»213. Muovendosi su fondali adriatici in tempesta, dominati dal forte vento di bora e dunque con disagevole navigazione, il “Fortunato padre” terrà a bada la tempesta soltanto grazie al motore, mentre i due piccoli scafi a rimorchio corrono il rischio di affondare, gli equipaggi salvandosi miracolosamente dopo essere stati abbandonati al loro destino, avendo Cafiero reciso le cime di rimorchio. Il motopesca a motore non porterà bene alla famiglia Ranalli i cui membri, ormai messi in cattiva luce ed
213 S. Anselmi, Cafiero e il motore del Fortunato padre, in Id., Ultime storie di Adriatico, cit., p. 101.
etichettati dalla comunità a causa del gesto di Cafiero, ne decidono la vendita e si imbarcano “a padrone”, lasciando ai loro figli la libertà di cambiare mestiere.
La tendenza e l’attitudine di Anselmi a rielaborare studi archivistici e storici di sfondo adriatico nella forma del racconto breve, funzionale ma di marcato impianto storico, riemerge anche nella raccolta Mercanti, corsari,
disperati e streghe. Diverse di queste brevissime storie hanno come
protagonisti o come adeguato e significativo fondale descrittivo-narrativo un mezzo di trasporto navale. In uno dei racconti, per esempio, lo scrittore alterna sapientemente momenti odeporici e descrittivi in un Adriatico della metà del XV secolo, consentendo di immergersi in atmosfere veneziane e dalmatiche fatte di rematori coatti, viaggi verso i domini veneziani levantini d’Egeo,