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OREFICERIA MONASTICA

Nel documento Il reliquiario di San Simeone in Zara (pagine 91-95)

Benché un capitolare dell’846 di Carlo il Calvo confermi i privilegi agli orafi laici

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parigini, l’arte orafa medievale ebbe principalmente nei monasteri il suo centro di irradiazione e, più in generale, fino alla fine dell’XI secolo, possiamo dire che molti degli artisti di cui si è conservata memoria abbiano portato questa o quella veste talare.

L’abbazia benedettina di San Gallo, in cui lavoravano anche artisti laici ospitati in due fabbricati all’interno della cinta abbaziale, conserva la pianta di un monastero ideale risalente al IX secolo; questa pianta illustra non solo la chiesa e il chiostro con il dormitorio e il refettorio ma anche ambienti destinati ad accogliere dei laboratori; il laboratorio dell’orefice è situato accanto a quello del fabbro, attiguo a quello del follatore103.

I monasteri furono i centri di maggior patronato degli orafi a causa della domanda di oggetti preziosi, sempre più preziosi, per il servizio nel culto: calici, patene, candelabri, turiboli, pissidi, ampolle, croci, reliquiari, coperte per i libri sacri...

Sarebbe sbagliato pensare che tutti i monasteri dell’Europa medievale disponessero di un laboratorio orafo, ma è innegabile che in queste sedi, per secoli, dove e quando fu possibile, si conservarono tramandati per generazioni i segreti di un’arte antica ancora frutto di una continua sperimentazione: arte che muove dal dominio sulla materia nobile mediante tecniche specifiche (l’arte doveva “superare” la ricchezza delle materie prime), senza mai abbandonare le implicazioni con la sovrastruttura simbolica-magico-religiosa che, verrebbe da dire, la presuppone.

Una fonte scritta di primissimo piano che ci informa sui procedimenti orafi del tempo e sui luoghi in cui veniva esercitata l’arte dell’oreficeria è il manuale di “scienze applicate” dovuto al monaco benedettino Teofilo, un orefice tedesco, al secolo Ruggero di

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Helmarshauen, autore del De diversis artibus. L’opera, composta nei primi decenni del XII secolo, è il primo trattato organico sulle tecniche artistiche in età medievale: un argomentare teorico improntato a una chiara esposizione di un sapere pratico, concreto e empirico (originalissima è l’attenzione per gli strumenti e i metodi di lavoro oltre che per i materiali), una trattazione completa ad uso dei monaci dediti al lavoro artistico, di quel settore particolare del sapere umano che permette di decorare gli edifici di culto e di dotarli dei necessari arredi104.

Il testo di Teofilo105 si divide in tre libri: il primo riguarda la pittura, le sue tecniche, e si estende dalla miniatura alla pittura murale a quella su tavola; il secondo è consacrato al vetro, al modo di lavorarlo e alle sue applicazioni, dalle suppellettili alle vetrate; il terzo, il più ampio, ai modi di lavorare i metalli. Il monaco Teofilo vi parla del lavoro del ferro, del rame, dell’argento e dell’oro, delle varie tecniche che si possono applicare, dei vari tipi di oggetti che si possono fabbricare; inoltre ampio spazio è concesso alla trattazione del niello, dello smalto, delle pietre preziose e del come lavorarle, della scultura in avorio e osso.

Il laboratorio, scrive Teofilo che si rivolge a altri monaci, si costruisca in modo da potervi esercitare le diverse tecniche; abbia locali dotati di fornace, di mantice, d’incudine, di vasche, dell’organarium per tirare l’oro in fili, e dei ferri che costituiscono l’attrezzatura dell’officina, perché vi possano lavorare gli “aurefices, inclusores, seu vitrei magistri”, i tre rami cioè del magistero orafo: quello che lavora i metalli, quello che lavora e incastona le gemme e quello che pratica la smaltatura.

Luoghi deputati al dibattito teorico sono, nel De diversis artibus, i proemi.

104 M. Collareta, Teofilo, in Artifex Bonus, a cura di E. Castelnuovo, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 53. 105 Teofilo, Sulle diverse arti, a cura di M. Grandieri, Edizioni B.A. Graphics, Bari 2005.

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Nella prefazione alla terza parte del trattato, il monaco tedesco riflette sul ruolo della bellezza nella casa di Dio: è il lavoro dello Spirito Santo espresso nei sette attributi di sapienza, intelligenza, consiglio, coraggio, scienza, pietà e timore di Dio, che genera la bellezza nell’arte; questa, e quindi il sapere che la produce, sono necessari per proclamare la magnificenza di Dio106.

Scriveva Teofilo queste parole nel contesto, evidentemente, della disputa fra benedettini neri e cistercensi107; il monaco tedesco era infatti contemporaneo di San Bernardo, padre di un nuovo monachesimo, e dell’abate Suger, uno dei più straordinari e illuminati committenti del Medioevo; questi fra il 1127 e il 1140 con le innovazioni occorse alla ristrutturazione della facciata e del coro, di Saint Denis, inaugura il Gotico108: all’atto di nascita di un nuovo stile contribuirono anche gli orafi, in numero di sei o sette (dei quali Suger cita e descrive sapientemente i prodotti ma non tramanda i nomi). Alla periferia settentrionale di Parigi, Saint Denis fu dotata di nuovi spazi architettonici (il deambulatorio) e “ornamenti”, sculture vetrate, porte bronzee, oreficerie. L’abate benedettino, che non indugia a farsi immortalare in una delle multicolori vetrate istoriate, ci tramanda nella orgogliosa dedicazione che suggella la sua opera, le parole più atte a descrivere il suo intendimento: “Allorché il coro nuovo è aggiunto all’antica facciata, il centro del santuario riluce nel suo splendore, risplende in splendore ciò che si raccoglie splendidamente e l’opera magnifica inondata di nuova luce risplende. Sono io Sigerio, che al mio tempo ho ingrandito questo edificio. È sotto la mia direzione che è stato fatto”:

106 Ivi, pp. 61-62.

107 Si consulti a questo proposito G. Duby, San Bernardo e l’arte cistercense, Einaudi, Torino 1982.

108 Arte nel Tempo, a cura di P. De Vecchi e E.Cerchiari, Gruppo editoriale Fabbri, Milano 1991, Il Medioevo,

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iscrizione di Saint Denis109.

“Vanità delle vanità, più ridicola che vana”: è l’eco che da Chiaravalle muove per bocca del santo riformatore, che esprime l’anelito a una nuova spiritualità esente dallo sfarzo delle oreficerie, dallo splendore della liturgia; le abbazie figlie di Citeaux egli le volle sguarnite di ogni cosa che non fossero una croce di legno sull’altare e un calice per celebrare il sacro uffizio: non avendo l’arte cistercense una cospicua produzione orafa non esisterono laboratori orafi né orafi al soldo dell’ordine neonato.

Nel documento Il reliquiario di San Simeone in Zara (pagine 91-95)