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IL SISTEMA DELLE TECNICHE

Nel documento Il reliquiario di San Simeone in Zara (pagine 95-102)

L’oreficeria ricopre un ruolo di primissimo piano nella gerarchia medievale dei valori artistici, non esclusivamente per motivi di natura teorica e simbolica, ma anche per la sua vocazione politecnica.

Oltre alle specifiche competenze come la fusione e la lavorazione dei metalli, l’oreficeria si avvale del concorso di tecniche proprie delle così dette “arti maggiori” che, nel rapporto di mutuo scambio con l’oreficeria, pongono questa disciplina in una posizione centrale, crocevia al quale affluiscono (e dal quale in altri casi si dipartono) le tecniche altrimenti proprie del disegno, della pittura, della scultura, dell’architettura.

Il Medioevo occidentale conosce la lavorazione tradizionale dell’oro e dell’argento (a lamine, filigrana, intaglio, traforo, intarsio policromo e incastonatura) trasmesse

109 G. Duby, San Bernardo e l’arte cistercense, cit., p. 51, nota 1.

110 Testi di riferimento per il presente paragrafo sono: Le tecniche artistiche, a cura di C. Maltese, Ugo

Mursia Editore, Milano 1973; Arti e tecniche del Medioevo, a cura di F. Crivello, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2006.

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dall’oreficeria tardo-romana e barbarica, e quelle di derivazione classico-bizantina e islamica, come l’agemina e il niello. La decorazione a niello è una tecnica che visse la sua età di maggior splendore nel momento di passaggio dal romanico al gotico, quando il disegno conquistò la sua funzione egemone; il disegno condotto sulla lamina di metallo nobile è ottenuto mediante specifici strumenti che lasciano un segno sottilissimo, un graffio, che viene in seguito riempito dall’amalgama scuro: a contrasto con la superficie brillante dell’oro e dell’argento esso sortisce i suoi straordinari effetti111.

Dalle ricerche e la pratica di questa tecnica deriverebbe, secondo il Vasari, la stessa invenzione dell’incisione a stampa112; è certo che l’incisione a bulino interessò prima di tutti i maestri orafi, annunciando “l’epoca della riproducibilità tecnica”113 delle opere grafiche.

Oltre alle varie tecniche di raffinamento dei metalli al crogiolo, di fusione e composizione delle leghe, di saldatura, di doratura al mercurio, coabitano, prossime alla fucina dell’orefice, ricerche e pratiche alchemiche dalle quali deriveranno per esempio determinati colori per la pittura e la pittura delle stoffe114.

La lavorazione degli smalti, tipica dell’oreficeria, non di rado vera e propria “pittura su metallo”, può essere messa in rapporto con altri tipi di lavorazione a fuoco del vetro: dalle tessere per mosaici alle vetrate dipinte che tanta parte ricoprono della produzione artistica medievale.

Fra i vari sistemi di applicazione prendono posto preminentemente le cosiddette

111 M. Collareta, Oreficeria e tecniche orafe, in Arti e tecniche del Medioevo, cit., p. 174.

112 F. Negri Arnoldi, Oreficeria, arte dei re, in Storia dell’arte italiana, a cura di G. Previtali, Einaudi, Torino

1980, p. 59.

113 M. Collareta Oreficeria e tecniche orafe, cit., p. 172. 114 F. Negri Arnoldi Oreficeria, arte dei re, cit., p. 57.

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tecniche del cloisonné e dello champlevé. Nel primo caso si tratta di riempire con smalti policromi delle cavità (dette “alveoli”) leggermente emergenti rispetto al piano, cavità ottenute mediante l’utilizzo di sottili listelli (cloisons). Nel caso degli smalti champlevé gli alveoli sono ricavati direttamente sulla lamina con gli abituali processi di lavorazione del metallo (cesello, incisione, talora fusione)115.

A Bisanzio lo smalto alveolato su oro è animato da raffinatezze pittoriche quali “l’articolazione chiaroscurale” e una “spazialità aerea e fluttuante” a dispetto di una tecnica che mette a disposizione mezzi oggettivamente ridotti. Nella Pala d’oro di Venezia, con la sua compresenza di maestranze greche e latine, convivono le diverse varianti della tecnica116.

In età romanica fioriscono le grandi officine e i laboratori renani-mosani e limosini specializzati nelle oreficerie a smalto incavato.

Sempre dai laboratori orafi oltre a determinati pigmenti usciranno le foglie d’oro ad uso dei pittori (l’artefice di questo indispensabile prodotto veniva chiamato in Italia “battiloro”)117.

L’arte orafa medievale esercita tutte le forme di modellazione e decorazione dei metalli ma anche l’intaglio e la montatura delle pietre preziose includendo in esse pietre semplicemente levigate a cabochon, pietre incise ad incavo (intagli), altre incise a rilievo (cammei).

Oltre che per la rarità e il valore venale, le pietre preziose veicolano “proprietà terapeutiche e profilattiche”; “l’impiego che se ne fa in oreficeria punta soprattutto sul

115 F. Sbrogi, Smalti, in Le tecniche artistiche, cit., pp. 204-205. 116 M. Collareta, Oreficeria e tecniche orafe, cit., p. 175. 117 F. Negri Arnoldi, Oreficeria, arte dei re, cit., p. 57.

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colore e sulla luminosità”, giocati “all’interno di meditati schemi distributivi”: le relazioni geometriche e numeriche cui le pietre stesse danno luogo sono oggetto ancora di raffinate speculazioni simboliche. Nei capolavori ottoniani quali la “Croce di Lotario” ad Aquisgrana o la corona dell’impero a Vienna, è evidente come la montatura stessa, l’arte cioè di “includere” le pietre nel corpo del manufatto mediante castoni e filigrana, testimoni la realtà di una tecnica orafa singolare e complessa118.

Abbiamo accennato ai rapporti dell’oreficeria con il disegno e la pittura, ma l’oreficeria include anche tecniche proprie assimilabili alla scultura, quali ad esempio la battitura a martello di lamine di rivestimento che venivano applicate a un’anima lignea; poteva trattarsi di cofani, cassette, diversi tipi di reliquiario, ma anche sculture antropomorfe – la singolare “maestà” di Santa Fede è l’opera più nota riguardo questo tipo di lavorazione.

Di origini antichissime il lavoro di sbalzo e cesello – che consiste nel battere una lastra di metallo sottile dietro e rifinirla dal davanti col cesello per ottenere figure in rilievo – ci racconta, seguendo le fasi del suo sviluppo nell’arte medievale, la progressiva conquista che dal piano prima e dal bassorilievo poi, porta alla figurazione tridimensionale propria della statuaria119, proponendo, come testimonia lo scrigno dei re Magi a Colonia, figure a tutto tondo agli albori del XIII secolo: esito implicito, la volumetria, di un lungo processo di perfezionamento tecnico.

Poiché il metallo si indurisce a causa della martellatura, la lastra veniva più volte, durante la lavorazione, esposta alle alte temperature della fornace. Allo sbalzo e cesello

118 M. Collareta, Oreficeria e tecniche orafe, cit., p. 173. 119 M. Collareta, Oreficeria e tecniche orafe, cit., p. 172.

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erano in genere associate altre tecniche quali quella del bulino. Ceselli e bulini120 (piccoli scalpelli senza taglio i primi, con punta affilata i secondi), vengono battuti con il martello sulla superficie metallica e servono per la rifinitura del prodotto, i ceselli vengono usati per abbassare leggermente il livello della superficie metallica, senza produrre scorie, i bulini segnano la superficie e sollevano dei trucioli che poi vengono asportati. Con il bulino, un’altra tecnica per decorare la superficie degli oggetti ottenuti con la battitura o la fusione, è la punzonatura: questa, basata sull’azione del punzone, che consiste in una semplice asta di ferro sulla cui punta è scolpito il disegno da riprodurre, consiste nell’imprimere tale disegno, tramite la pressione esercitata con colpi di martello, sulla superficie dell’oggetto121.

La riproduzione seriale, in particolar modo di motivi decorativi, era conosciuta nel Medioevo e ottenuta mediante lo stampaggio, tecnica orafa che ci riconduce alle modalità dello sbalzo e cesello: la lastra di metallo sulla quale si imprimono forme a rilievo viene posta su una matrice, e finché non aderisce all’incavo della stessa, in legno o metallo, l’orefice opera su di essa con delicata pressione manuale e colpi di martello.

Una tecnica specificatamente orafa, conosciuta dalla statuaria antica, sarà protagonista delle successive sperimentazioni e applicazioni rinascimentali nell’ambito della scultura monumentale in metallo: si tratta della fusione a “cera persa” di cui l’orefice nel Medioevo detiene, insieme ai fonditori di campane, il quasi esclusivo segreto. La tecnica della “cera persa” consiste nel preparare un modello, appunto in cera, che viene successivamente rivestito con terra refrattaria; in un secondo momento la cera viene eliminata per fusione, colando attraverso un foro nella cavità così ottenuta il metallo

120 G.Giubbini e F.Sbrogi, Scultura, in Le tecniche artistiche, cit., p. 44

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incandescente. Per la scultura monumentale ovviamente questo metodo presenta enormi limiti essendo oltremodo dispendioso l’impiego di tanta materia; si ricorreva quindi alla combinazione di due procedimenti, la “cera persa” e la “fusione cava”: un modello fatto di un nucleo di terra rivestito di cera, anziché tutto di cera, permise di ottenere statue interamente cave anziché massicce.

Per terminare questo breve excursus sulla natura complessa e articolata dei rapporti fra oreficeria e arti maggiori è indicativa, questa volta a proposito dell’architettura, la condanna che a metà del Quattrocento il Filarete infliggerà agli edifici simili a turiboli: “gli orefici fanno loro [=gli edifici] a quella somilitudine e forma de’ tabernacoli e de’ turiboli da dare incenso; e a quella somilitudine e forma hanno fatti i dificii, perché a quegli lavori paiono begli, e anche più si confanno ne’ loro lavori che non fanno nei dificii...”122, punto di vista che “può essere rovesciato in valido strumento interpretativo non solo del gotico estremo, ma di tutta un’importante tendenza dell’architettura medievale”123.

Abbiamo cercato di mettere in evidenza il movimento di espansione delle tecniche orafe verso altri dominii e magisteri artistici, e insieme, di inclusione, da parte della stessa, di modi e forme mutuate da altri ambiti artistici e professionali.

Per secoli l’oreficeria fu una delle grandi tecniche-guida dell’arte, una disciplina da cui i migliori artefici traevano le opere più nuove e significative, in cui si tentavano i più moderni esperimenti. Il pregio delle materie impiegate era avvertito come una sfida per l’artista e frequentemente (ad esempio in un testo del già menzionato Suger) si trova l’antico topos ovidiano: “materiam superabat opus”124.

122 A. Averlino detto il Filarete, Trattato di architettura, Milano 1972, volume I, p. 382. 123 M. Collareta, Oreficeria e tecniche orafe, cit., p. 168.

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Ricordiamo che le preziose materie prime, che necessitavano per la messa a punto dei tesori sacri e profani erano spesso ottenute riciclando oggetti già esistenti: gioielli, arredi di mensa o di altare, monete d’oro e d’argento, “antichità”. Facciamo ancora presente che il valore venale dei preziosi oggetti fusi (ri-fusi), forgiati, battuti, intarsiati, scolpiti, disegnati, decorati con gemme, rubini, zaffiri, turchesi, perle e altre preziose pietre (e altre false), veniva generalmente subordinato ai valori simbolici di potere, autorità, sacralità derivati dal loro uso e destinazione; basti pensare al ruolo fondamentale dei simboli sacri creati dai monaci nei loro laboratori e alla posizione sempre centrale che essi assumono nella celebrazione dei sacri riti, si pensi in quest’ottica al “valore” di un calice durante l’ostensione... si pensi ancora all’universo dei reliquiari, imprescindibili “confezioni” contenenti reliquie, ombelico queste del fondamentale culto dei santi: nel reliquiario resti umani e materia nobile si fondono letteralmente in un divino accordo: non è dato contenitore senza contenuto, e da un certo momento in poi, contenuto senza contenitore.

Questa parvenza, questa mutazione di stato del prodotto in atto, la sublimazione che in esso si attua a partire dalla materia nobile (“superata” dalla funzione cui si presta quando non dall’arte) verso qualcosa che materia non può dirsi, come la luce, e ancora, il trapasso da una determinata classe di valore (il fluttuante costo dei materiali) ad un’altra sfera, assoluta, divina, è ben espressa nell’iscrizione che completa l’altare d’oro di Sant’Ambrogio, opera del monaco Vuolvino, orefice, e di altri orafi anonimi: brilla

portatrice di vita, all’esterno leggiadra per la scintillante bellezza dei metalli, l’arca che risplende adorna di gemme. All’interno essa tuttavia ha valore per un tesoro, più prezioso

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di ogni metallo, in quanto le sono state donate le ossa sacre125. Le ossa dei santi.

Nel documento Il reliquiario di San Simeone in Zara (pagine 95-102)