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Tirando le fila del discorso, è possibile fare alcune considerazioni.

Agli inizi la costruzione del brand Giappone girava principalmente intorno alla creazione dei singoli brand per i prodotti turistici e la loro promozione all’estero (IKUTA et al. 2007). Gli stessi studi teorici erano ancora poco maturi e scarsamente applicati nei progetti di marketing delle località turistiche (IKUTA et al. 2007; DINNIE 2008). Le prime indicazioni più specifiche in ambito branding da parte del MLIT giunsero intorno al 2006-2007, tuttavia questo non significa che le destinazioni giapponesi non avessero già preso in mano la situazione autonomamente (IKUTA et al. 2007; DINNIE 2008). I tentativi del primo decennio dei Duemila, seppur poco maturi, dimostravano la volontà delle istituzioni locali di proporre al pubblico un’immagine complessiva della destinazione veicolata da un brand unico, per incrementare il turismo. Il problema in queste prime fasi era riuscire a staccarsi dall’idea che il brand della destinazione potesse contare solamente sui brand dei suoi prodotti e il loro successo: la città di Sapporo, le prefetture di Fukui, Osaka, Aichi, Nagasaki, Hokkaido, Aomori, Shimane e Okinawa ne sono la dimostrazione (IKUTA et al. 2007). Il rapporto appunto tra fama dei brand privati e il brand della destinazione non era del tutto chiaro e non c’era ancora una consapevolezza su come sfruttarlo al meglio (DINNIE 2008). Vista poi la novità del settore, era forte la discrepanza tra gli obiettivi proposti e gli ambiti che si andavano a modificare per raggiungerli: per esempio, si riteneva che pubblicizzando un manufatto locale ne sarebbero aumentate le vendite e come conseguenza diretta sarebbe cresciuta anche la fama della regione, una connessione logica poco probabile (IKUTA et al. 2007). Inoltre, un fattore frenante derivava dalla scarsa capacità di costruzione e ricostruzione dell’immagine sottostante al brand, che raffigurasse con trasparenza e veridicità il luogo e che sapesse attrarre realmente i turisti (IKUTA et al. 2007). In altre parole, i brand mancavano delle caratteristiche fondamentali perché fruissero alla loro funzione.

La difficoltà maggiore derivava però dal fatto che non vi era ancora un network adeguato e omogeneo di organizzazioni ufficiali capaci di pianificare strategie: non essendoci appunto direttive generalizzate, la scelta di gestione del brand spettava alle singole destinazioni, fossero queste città o intere regioni, con tutte le problematiche del caso. Inoltre, il sistema era spesso disgregato e privo della collaborazione tra parti necessaria alla riuscita della brandizzazione (IKUTA et al. 2007; DINNIE 2008; HANDLER, ITO 2008). Le destinazioni in quel periodo si avvicinavano con sempre maggiore interesse alla brandizzazione, che tuttavia rimaneva scarsamente efficace a causa di molteplici lacune nel sistema e nella conoscenza dell’argomento. Un esempio presentato da Ikuta (et al. 2007) come virtuoso seppur migliorabile, è il branding della prefettura di Nagano, approfondito ulteriormente un paio di anni dopo da altri autori (JONES, NAGATA, NAKAJIMA, MASUYAMA 2009).

promuovere gli eventi internazionali in Giappone

Tabella 1 Fonti SME (2004); SOSHIRODA (2005); SATOSHI (2007); METI (2007); IKUTA, YUKAWA, HAMASAKI (2007); JTA (2008); MURAKAMI, KAWAMURA (2011); VALASKIVI (2013); MATSUI (2014); Ashita no Nihon wo sasaeru kankō bijon kōsō kaigi (2016); HENDERSON (2017); METI (2018 a); JNTO (2018); JPO (2019); MOFA (2019); JTA (2019 d); JTA (2019 b); NIHONKOKU SHUSŌKANTEI (2019).

102 Come altre destinazioni, agli inizi Nagano cercò di sviluppare un brand regionale unificando i brand dei prodotti locali; questo processo però mancava di continuità a causa di una gestione altalenante delle organizzazioni incaricate e cambi di amministrazione (JONES et al. 2009). Nonostante i difetti, il brand di Nagano presentava un elemento vincente. La sua maggior forza infatti era rappresentata dall’aver anticipato la sinergia tra le parti: si era infatti riusciti a coinvolgere nel processo di brandizzazione anche stakeholders non statali (JONES et al. 2009).

All’uscita poi di una vera e propria campagna pubblicitaria per il pubblico internazionale riferita all’intero Giappone, i punti deboli del branding nipponico si fecero sentire. Come si è visto precedentemente, gli obiettivi erano settati su alti volumi di ingressi che però non sono stati raggiunti: nel 2010, anno target, si contarono poco più di 8,5 milioni invece del 10 anticipati (JNTO 2019 a). La campagna quindi sembrava non aver sortito l’effetto sperato. I motivi che possono aver sfavorito la riuscita sono due. Il primo problema è che l’obiettivo della campagna si è spalmato su 7 anni, un tempo relativamente lungo rispetto ad altre operazioni di questo genere, forse riconducibile allo scarso entusiasmo dei giapponesi verso gli stranieri, problema trattato nel capitolo precedente (UZAMA 2008). In secondo luogo, ci si era concentrati sull’aspetto della promozione del turismo e dei mezzi per farlo, senza curare con profondità tutti i lati della questione (UZAMA 2008). La scelta dello slogan “Yokoso! Japan”, per esempio, dimostra come non si fosse ancora ben consci delle caratteristiche del target di riferimento: “yokoso” era un termine sconosciuto per la maggioranza dei non-giapponesi ed essendo per molti privo di riferimenti noti, non favoriva lo sviluppo di una connessione emotiva con la destinazione (DINNIE 2008). Giocava invece sull’unicità, la misteriosità e la stranezza, che potevano far scattare nel pubblico curiosità (DINNI 2008). Tuttavia, questo Auto-Orientalismo che il brand esponeva nel suo raffigurare la destinazione Giappone come esotica, lontana e singolare agli occhi del mondo euro-americano poteva essere “un’arma a doppio taglio” (ANHOLT 2008:268)79. Semplificando, se da un lato tale rappresentazione dava dei vantaggi

a certi settori che erano già positivamente affermanti all’estero, esso poteva essere d’ostacolo alla costruzione di una immagine più ricca, complessa e sfaccettata. L’Auto-Orientalismo sfruttato dalle istituzioni poteva favorire una visione limitata e stereotipata del Giappone, lontana dalla realtà odierna. Questa scelta non proprio azzeccata potrebbe derivare dal fatto che in queste prime fasi di

branding non vi fosse una buona coordinazione e collaborazione degli stakeholders, e soprattutto

una partecipazione attiva dei residenti giapponesi nelle decisioni.

La sconnessione del sistema branding durò a lungo. Crebbero di numero di entità ufficiali su diversi livelli che si occupavano dell’argomento e, nonostante incominciassero a esservi indicazioni nazionali su come procedere, mancava una guida univoca (HANDLER, ITO 2008). Il conflitto creato dalla coesistenza di tante organizzazioni generava confusione e bloccava lo sviluppo di una strategia

79 Per un approfondimento sulle dinamiche dell’orientalismo, si veda SAID (1979) e dell’auto-orientalismo in

103 efficiente (HANDLER, ITO 2008). In aggiunta, l’operazione “Yokoso! Japan” non aveva sortito l’effetto sperato. La situazione però poteva essere risollevata con alcuni accorgimenti (UZAMA 2008): una campagna strutturata per richiamare nei potenziali turisti immagini e riferimenti positivi già noti; delle strategie di politica estera e di soft power che declinassero il Giappone come luogo di pace voltando pagina sulle vicende storiche che lo avevano visto coinvolto in tutt’altra veste; un’analisi dei dati dei viaggiatori per comprendere il livello di soddisfazione del viaggio; e una maggiore attenzione alle necessità dei turisti-consumatori stranieri (UZAMA 2008). Bisognava perciò passare oltre lo slogan “Yokoso! Japan”, unificando le diverse organizzazioni e agenzie del settore in un organismo coordinatore e abile a produrre una strategia a lungo termine.

Nel 2008 venne istituita a questo scopo la JTA e nel 2009 l’Ente Nazionale del Turismo Giapponese, il JNTO (HENDERSON 2017). Da questo momento in poi si incomincia a muoversi su spazi dapprima inesplorati per rendere l’inbound in Giappone un settore di vanto. Si incominciarono infatti a vedere tentativi più compiuti di branding delle destinazioni, maggior collaborazione tra stakeholders, ma anche accortezza e impegno da parte delle istituzioni (FUNCK 2012). Si iniziò a comprendere che la promozione della destinazione, per come era stata studiata, faticava ad arrivare sugli altri continenti e che i turisti euro-americani e australiani, mercati con potenzialità allettanti, avevano peculiarità che non si erano tenute in considerazione nella stesura del progetto di marketing del 2003: prima del viaggio questi si documentavano spesso su diverse fonti, una fra tutte Internet (MURAKAMI, KAWAMURA 2011). Più che guidati da pubblicità viste in tv e sui giornali, i turisti seguivano i consigli di professionisti dei viaggi e le informazioni lette sulle guide turistiche, sui siti ufficiali e sui social

media di altri viaggiatori come loro (MURAKAMI, KAWAMURA 2011). L’immagine che i turisti

avevano della destinazione Giappone era influenzata da una serie di risorse digitali, su cui spesso le organizzazioni turistiche giapponesi non avevano il controllo, e che iniziarono in quel periodo ad essere analizzate per la prima volta (MURAKAMI, KAWAMURA 2011).

Il passaggio successivo si compì nel 2012 con l’emanazione di un secondo piano turistico (MLIT 2012). L’immagine del brand promossa era il proseguo di quella presentata con la compilazione del primo: era difatti riproposto l’immaginario del Cool Japan come mezzo per far conoscere il Giappone nel mondo (MLIT 2012). In questa occasione si propose anche una soluzione a uno dei problemi della progettazione turistica giapponese: l’assenza di un organo ufficiale territoriale capace di sincronizzare le tante parti coinvolte nel turismo e simultaneamente occuparsi del destination

branding. Si riconobbero per la prima volta le potenzialità delle Destination Marketing Organizations

(DMO), strumento per realizzare strategie adatte al territorio e coordinare gli stakeholders pubblici (MLIT 2012). È nel dicembre 2015 che viene avviata la prima registrazione ufficiale delle DMO giapponesi (JTA 2019 d); ed è nel 2016 che il MLIT dichiara di voler istituire 100 DMO di altissima competitività entro il 2020 (Ashita no Nihon wo sasaeru kankō bijon kōsō kaigi 2016). Le DMO hanno da allora rafforzato la loro presenza sul territorio, consolidando le loro abilità di intermediario tra

stakeholders privati e pubblici e dirigendo i loro obiettivi verso l’interesse pubblico comune

104 organizzazioni, in particolare quando conoscono approfonditamente la destinazione in tutte le sue sfaccettature e sanno applicare strategie di destination branding coerenti con le circostanze (NISHIYAMA 2017). Nonostante questo sforzo, ancora oggi le DMO giapponesi di entità diversa (municipale, inter-municipale, inter-prefettizio) faticano a tenersi aggiornate e a coordinarsi tra loro, specialmente in ambito di branding online (NAGAI, DOERING 2017; NAGAI, DOERING, YAMASHIMA 2018). Inoltre, rimane difficoltosa la co-esistenza con le Kankō Kyokai, le associazioni turistiche semi- governative radicate sul territorio nazionale (NAGAI, DOERING, YAMASHIMA 2018).

A oggi, è diventato impellente rispondere alla necessità di raggiungere i turisti anche attraverso la Rete, specialmente tramite social media, e di considerare le caratteristiche e i bisogni di segmenti di mercato diversi (MLIT 2012). Una delle prime attività sviluppate per coinvolgere il pubblico online è stato il contest fotografico internazionale su social network organizzato dall’agenzia JTA, annunciato qualche mese dopo la pubblicazione del Tourism Nation Promotion Basic Plan nel 2012 (JTA 2013). Il “Share your WOW! -Japan Photo Contest- ” raccolse le foto di circa 17 mila partecipanti, permettendo alla pagina Facebook della campagna di raggiungere i 250 mila “Like” (JTA 2013). Il marketing online e la partecipazione degli utenti sono poi cresciuti, divenendo elemento vincente per molte destinazioni giapponesi80. La mascotte Kumamon per esempio, che pubblicizza il turismo

per la prefettura di Kumamoto, ha pagine su diversi social media con un folto seguito, in cui posta attivamente e interagisce virtualmente con i fan (SOLITANI, PIETERS, YOUNG, SUN 2018).

In questi ultimi 3 anni, la ricerca e l’analisi dei dati dei turisti inbound hanno acquisito una rilevanza considerevole, specialmente nel caso di data recepiti dai social network (SHAPOVAL, WANG, HARA, SHIOYA 2018). Su questo filone sono da segnalare i questionari della JTA per comprendere le percezioni sul Giappone di utenti social di Cina, Taiwan, Hong Kong, Corea e Stati Uniti – nazioni da cui arrivano la maggior parte dei turisti- proposti nel 2016 e nel 2017 (JTA 2017). L’analisi delle risposte ha evidenziato alcune criticità tipiche dei turisti stranieri in Giappone: l’assenza o le problematicità con l’uso del Wi-Fi, le barriere linguistiche e incomprensioni, il traffico intenso, gli alti costi dei servizi, le difficoltà di comprensione del sistema dei trasporti pubblici, la complessità nel reperire le informazioni turistiche (JTA 2017). Importante anche l’esempio di Kamikawa in Hokkaido, che ha dimostrato come DMO e gli altri stakeholders possano beneficiare favorevolmente dell’ambito accademico e dell’apporto di ricerca specifica che questo offre (HIGUCHI, YAMANAKA 2019).