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Grazie all’opera del Cardinale Bessarione, Platone e Aristotele, al di qua del cristianesimo e ad esso orientati, rimanevano i due pilastri storici del filosofare ai fini di una compiuta sintesi di metafisica classica che offrisse la piattaforma dottrinale all’accoglimento e al ripensamento del dato rivelativo del cristianesimo. Con Bessarione, dunque, anche Aristotele veniva, almeno in parte, recuperato entro il quadro di una filosofia perenne e di una concordia universale tra i filosofi.

Lo Stagirita e l’Ateniese rientravano all’interno di una tradizione di pensiero che si muoveva verso una philosophia perennis destinata alla progressiva acquisizione di una verità unica; vi è dunque la possibilità, per lo studioso che si avvicini ai due filosofi senza pregiudizi, stabilire integrazioni così corpose da suffragare quelle concordanze sulle quali si fonda la vera pax philosophica, che in questo caso però guarda con una maggiore indulgenza la tradizione platonica: la prospettiva di Bessarione sembra fondarsi sulla ricerca di una filosofia perenne e di una concordia universale tra i filosofi.

Questo sembra essere un punto decisivo nella riforma del sapere destinato a trionfare nel Quattrocento: un diverso modo di considerare la verità e la ricerca umana del vero e quindi le filosofie - al plurale - come punti di vista sempre parziali, sempre limitati e quindi sempre da integrare. Non dunque una dottrina sola, egemonica, ma molte; non una setta, ma contro la filosofia delle sette. L’ideale emergente di quella che diventerà la filosofia libera, non di un libro, ma nei molti e vari libri, è tutta una concezione della cultura destinata a circolare a lungo in tutta Europa229.

Bessarione aveva un senso profondo del cammino di quella perennis philosophia nel seno della quale trovavano composizione scismi e sistemi di pensiero anche molto differenti, ma aveva il senso che questo sforzo avrebbe potuto risultare vano senza la conservazione della memoria degli antichi, degli scritti dei pagani, o meglio del loro sapere, che risultava pienamente funzionale e strettamente connesso alla tradizione cristiana. Il naufragio degli antichi non sarebbe stato in alcun modo utile all’edificazione del cristianesimo nella sua forma ecumenica.

Questa fu la ragione profonda che si pose a fondamento della scelta del Bessarione di depositare presso la Biblioteca di San Marco a Venezia le reliquie del grande patrimonio culturale che aveva portato con se dall’Oriente e accumulato durante il suo soggiorno in Italia. La scelta del Cardinale Bessarione di lasciare alla Repubblica di Venezia i propri codici e i propri libri, costituisce un evento di grande significato

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simbolico. La traslazione nel 1468 della Biblioteca del Cardinale Bessarione alla Serenissima, che costituì il primo nucleo della Biblioteca Marciana, sancisce il passaggio a Venezia del patrimonio indiviso della cultura greca, del quale l’Occidente latino si faceva erede e continuatore. A Venezia, dunque, che era stato il canale di comunicazione più fluido con il mondo greco-bizantino e che insieme a Firenze e a Roma riassumeva i nuovi caratteri del sapere nato nell’Occidente e nell’Oriente, si concludeva quella translatio del sapere antico cominciata all’inizio del secolo.

Tornando allo scritto del Bessarione, nel campo degli aristotelici, esso costituì e fu inteso come una conferma della loro esegesi dei testi di Aristotele: da più di due secoli essi erano andati proclamando che nei limiti del puro pensiero aristotelico, e quindi in linea di pura filosofia, non era possibile parlare di dimostrabilità razionale dell’immortalità dell’anima. Anche per Bessarione la dimostrazione razionale dell’immortalità dell’anima risultava impossibile in sede di testi aristotelici, ma possibile solo alla luce dei testi platonici. Per gli aristotelici dunque quella dimostrazione era impossibile e, anzi, la vera filosofia, cioè quella di Aristotele, escludeva del tutto la tesi dell’immortalità, la quale quindi non poteva che essere mera certezza di fede230.

Nel campo dei platonici, lo scritto fu caldamente salutato da filosofi come Giovanni Argiropulo e il giovane Marsilio Ficino. Pubblicata la sua opera, il Cardinale ne fece avere una copia fra gli altri a Ficino231, accompagnata da una lettera che spiegava gli intendimenti dello scritto. Ficino rispose commosso al Cardinale, celebrando nell’opera del Bessarione l’avvento di un’era nuova: “son venuti, son venuti già, o Bessarione, quei tempi, di cui potesse compiacersi il nume di Platone e grandemente gioissimo noi che formiamo la sua famiglia”232.

La platonica familia di cui parla Ficino era senza dubbio la fiorentina Accademia platonica, ovvero quel gruppo di studiosi e allievi i quali si andavano stringendo attorno a Ficino per meditare le dottrine platoniche. Insieme, quella familia

platonica era anche la tradizione platonica, quella tradizione che da Pletone e

Bessarione era giunta fino alle rive dell’Arno, fondata sulla ricerca di una piattaforma filosofica comune sulla quale potessero confluire le speculazioni di Platone e Aristotele,

230 L’esegesi e la teoresi degli aristotelici sul problema della immortalità culminava nell’opera di

Pietro Pomponazzi. Vedi Di Napoli, G., L’immortalità dell’anima nel rinascimento, Torino, SEI, 1963.

231 Dalle risposte dei destinatari (pubblicate in Mohler nel vol. III, pp. 594-600) sappiamo che

copia ne fu inviata anche a N. Perotti, ad Ognibene da Lonigo, a F. Filelfo e al Panormita.

232 La lettera del Bessarione a Ficino e quella di Ficino al Bessarione si trovano in Ficino, Opera,

I, p. 616. Ecco il testo di Ficino: “Venerunt iam saecula, Bessario, quibus et Platonis gaudeat numen et nos omnes eius familia summopere laetemur”.

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di Plotino e Zoroastro, Ermete Trismegisto e Orfeo, insieme a quelle dei filosofi cristiani.

Sembra dunque che la difesa del platonismo, così apertamente assunta da Bessarione, inducesse l’ormai anziano Cosimo de’ Medici a sostenere quel ritorno a Platone e alla verità dei prisci theologi. Tali considerazioni ripropongono in una nuova luce la narrazione ficiniana sull’ascendenza gemistiana della rinascita platonica fiorentina: la dottrina di Platone, che passata per le mani di Pletone, era diventata quasi il vessillo di un nuovo paganesimo, con Bessarione si dimostrava invece capace di sviluppare la riflessione cristiana. Mitigata dunque nei suoi aspetti anticristiani, e d'altro canto, enfatizzata nella sua dimensione concordista e unitaria, la storia delle filosofie proposta da Pletone poteva raggiungere, attraverso Bessarione, la pia filosofia di Ficino.

Come abbiamo visto nell’opera del Cardinale è rappresentata la sostanziale concordia di questa tradizione greca, ma altresì universale, con le verità del Cristianesimo. Bessarione sosteneva che il platonismo fosse la dottrina più vicina al cristianesimo e il centro di riferimento preferenziale delle dottrine che s’erano svolte, sia prima dell’avvento di Cristo, sia dopo, l’espressione più alta della sapienza religiosa cui aveva collaborato l’umanità intera.

Bessarione sembra rifarsi all’insegnamento del vecchio Pletone di una restaurazione universale della filosofia e della religione sulla base del platonismo. Ma tempera il tono anticristiano con cui Pletone aveva impostato il suo ritorno al platonismo, tono che aveva destato molti sospetti e determinato avversione nei confronti del nascente platonismo. Il platonismo di Pletone, con il Bessarione si dimostrava capace di sviluppare la riflessione cristiana.

Da qui sembra sorgere l’ardore di Marsilio Ficino per una restaurazione di quella tradizione platonica. Lo scritto del Bessarione aveva dato al giovane Ficino le ali, a lui che in Italia appariva il solo a lottare contro il predominio dei cattedranti aristotelici delle univeristà. E proprio nel 1469, l’anno di pubblicazione dell’In calumniatorem

Platonis, Ficino poneva mano alla sua opera principale, intesa a fornire attraverso

Platone una critica radicale dell’averroismo e con ciò una propedeutica filosofica al cristianesimo. Ficino, che stimava Aristotele e ancor di più Tommaso d’Aquino, di fronte agli aristotelici del suo tempo reagiva aspramente vedendo nella loro opera un’immensa congiura ideologica contro ogni religione.

Dopo molta elaborazione l’opera uscì nel 1484, per la munificenza di Filippo Valori: Theologia platonica de immortalitate animorum233. Essa voleva esporre e

233 Theologia Platonica. De Immortalitate, videlicet animorum, ac aeterna foelicitate libri

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proclamare, di fronte ad ogni philosophia naturalis degli aristotelici, una theologia, ovvero una filosofia della realtà spirituale, o filosofia dello spririto, la quale intendeva ispirarsi a Platone (o meglio a una tradizione largamente platonica) e incentrarsi sul problema capitale dell’immortalità dell’anima. L’eventuale concordia di Platone e Aristotele, ammessa dal Bessarione, veniva concepita come coesistenza di due piani del filosofare, il piano inferiore di una philosophia naturalis e il piano superiore di una

theologia234.

Con l’opera indefessa di Ficino, come pensatore, traduttore e commentatore di Platone, quella tradizione platonica, che negli ambienti umanistici era stata esaltata ma non ripensata, assurgeva a dignità di pensiero presente e operante nel campo degli alti studi: si avevano insomma due indirizzi teoretici, egualmente agguerriti sul piano del filosofare. Il merito, evidente e indiscutibile, per tale novità profondamente significativa, era stato del discepolo di Gemisto, il Cardinale Bessarione.

Raffaello poteva dunque far precedere idealmente la Scuola d’Atene alla Disputa

del SS. Sacramento: nella Scuola d’Atene la concordia fra Platone e Aristotele si

esprimeva come presenza centrale dei due pensatori, seppure nella evidente particolare funzione dei due indirizzi attraverso l’atteggiamento dell’uno e dell’altro filosofo: Platone a destra con l’indice verso l’alto, Aristotele a sinistra con l’indice verso il basso; ma l’uno e l’altro al centro storico e teorico dell’umano pensare.

234 In una lettera a Pico della Mirandola (Opera, p. 858), Ficino scrive: “Peripatetici quidem

quanta ubique ratione naturalia disposita sint diligentissime disputant. Platonici vero praeter haec, quantum insuper illi qui haec numero, pondere, mensura disposuit (Dio) debeamus ostendunt”. Nei

Commentaria al Timeo (Opera, p. 1438): “De naturalibus agit Plato divine, quemadmodum Aristoteles

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