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Post-accoglienza: mancanza delle politiche e tentativi di farvi fronte

2. IL VENETO E LA SUBCULTURA BIANCA

4.3 Post-accoglienza: mancanza delle politiche e tentativi di farvi fronte

Il post-accoglienza è una questione spinosa in tutta Italia. In realtà, il tema dell’integrazione degli immigrati è stato problematico sin dagli anni Novanta: la mancanza di line indicate dal livello nazionale, l’alto grado di decentramento delle competenze in materia di integrazione degli immigrati al livello locale e regionale (più precisamente delle politiche sociali in generale) hanno fatto sì che si venisse a creare un sistema di protezione debole e frammentata (Campomori F. & Caponio T. 2013). I progetti che riguardano il momento successivo al termine dell’aiuto istituzionale nascono con l’idea di sopperire ad una mancanza nelle politiche, sono stati attuate iniziative da vari attori: istituzioni religiose, associazioni di volontariato e da alcuni comuni che ospitano progetti SPRAR.

Tra le esperienze più innovative si annoverano le accoglienze in famiglia di cui è stato promotore il Comune di Torino attraverso il progetto SPRAR, iniziato nel 2008. Dal 2015 è stato proposto anche in altre città (Campomori F. & Feraco M. 2018).

Successivamente questo tipo di progettualità è stato promosso da molteplici attori anche privati, quali Caritas Italiana e la ONLUS “Refugees Welcome”.

I differenti promotori del progetto hanno fatto scaturire diversità nella natura stessa dell’accoglienza, ad esempio attraverso differenti modalità di finanziamento delle famiglie che vi partecipano, la durata dell’ospitalità, differenti criteri per accedervi, sia per quanto riguarda le famiglie, sia per i rifugiati. Ciò nonostante, si possono delineare

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dei denominatori comuni: da una parte, l’accoglienza all’interno di una famiglia può favorire la costruzione di una rete utile a chi viene ospitato sia sul piano lavorativo, sia sociale; dall’altra, si presenta quale possibile momento per generare una narrazione differente del fenomeno nella società civile, riducendo pregiudizi e generando fiducia (Ambrosini M. & Campomori F.2018).

Nel territorio trevigiano le esperienze di accoglienza in famiglia riguardano un progetto di Caritas Tarvisina. Prendendo spunto dall’iniziativa promossa a livello nazionale da Caritas Italiana, quella diocesana ha proposto il progetto “Rifugiato a Casa Mia” modificandone in parte la struttura.

Inizialmente potevano accedervi anche richiedenti asilo, è previsto un rimborso spese a coloro che ospitano se lo richiedono. Il periodo di accoglienza prevede una durata di sei mesi rinnovabili. Il numero di persone che hanno avuto modo di accedere a questa proposta ammonta a 77. Sono stati coinvolte non solo famiglie, ma anche parrocchie ed istituti religiosi.

La criticità in questo momento risulta la difficile reperibilità di titolari di un qualche status giuridico a fronte di famiglie e parrocchie che si sono rese disponibili. La possibilità di rientrare tra i beneficiari dell’accoglienza informale è preposta ad alcuni criteri di selezione sia per quanto riguarda chi accoglie, sia che è accolto. Per questa ragione fino al termine del 2017 potevano rientrare tra i “selezionati” solo coloro che risiedeva presso un centro di accoglienza di Caritas, in seconda battuta è stato deciso di aprire la possibilità di farne parte anche a coloro che sono accolti dalle altre realtà dell’RTI, che garantiscono una conoscenza approfondita del candidato. Nonostante questo, una criticità concreta oggi, risulta l’ingente numero di famiglie e realtà che si sono messe a disposizione ad accogliere, a fronte di nessun candidato individuato. Un altro punto debole che questo tipo di progetti ha, presente anche nel trevigiano, risulta la relazione tra gli attori del pubblico e privato. Non vi sono rapporti ufficiali tra il progetto e le istituzioni trevigiane. Gli operatori di Caritas che se ne occupano avevano deciso di farsi conoscere dagli enti locali in cui veniva implementata questa accoglienza, recandosi presso i comuni con i rifugiati partecipanti. In un secondo momento questa procedura è venuta meno, lasciando alle famiglie o al gruppo dei volontari nelle parrocchie il compito di svolgere questo momento di conoscenza.

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Per quanto riguarda l’impatto avuto da “Rifugiato a casa mia” sulla comunità locale, l’intervistata, operatrice che si occupa attivamente del monitorare gli inserimenti, ha notato come non si siano mai verificate situazioni particolarmente critiche nell’implementazione del progetto, malgrado vi siano stati dei momenti di rottura nella comunità locale. Il “Rifugiato in parrocchia mia”, ovvero l’accoglienza nelle parrocchie, consiste nell’attivazione di un gruppo di volontari che aiutino i beneficiari ad inserirsi in quel dato territorio favorendo anche la condivisione di reti locali. Tuttavia, l’attivazione di alcuni membri hanno palesato che all’interno anche della comunità di fedeli ci sono delle forti spaccature sul tema, tanto da aver creato tensioni all’interno della comunità parrocchiale.

Dal canto suo, lo SPRAR ha cercato di rapportarsi con “Refugees Welcome”, ma senza l’avviamento di ospitalità concrete.

Infine, chi non rientra in questo tipo di progettualità per una molteplici di questioni e non ha una qualche rete di supporto vede come unica soluzione abitativa l’accoglienza nei dormitori, che a Treviso sono due. Uno del comune in appalto a LaEsse, l’altro di Caritas Tarvisina (sia maschile che femminile). I posti previsti, tuttavia, non coprono tutte le richieste. Questo tipo di soluzioni abitative sono chiaramente temporanee. Non vi accedono solo richiedenti asilo o titolari di una qualche forma di protezione, sono servizi messi a disposizione anche a cittadini italiani e immigrati di lungo periodo. Ciò nonostante, guardando ai dati di coloro che vi sono accolti si può notare, come almeno per quanto riguarda Caritas, siano in netta prevalenza richiedenti asilo e rifugiati sul totale complessivo degli accolti.